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    Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica*    
   

Por Bertolino Marta

   
   

 

  inicio
   

1.Alcune preliminari considerazioni politico-criminali sul rapporto fra sistema penale e comunicazione mediale. 2.Quale immagine del reato: distorsione o fedeltà. 2.1.Il dibattito internazionale. 2.2.La prospettiva italiana. 3.La tutela degli interessi individuali attraverso l’informazione giornalistica e televisiva: alcune fattispecie di reato a confronto, in particolare i reati sessuali. 4.Il modello della tutela sovraindividuale e i mass-media, con particolare riferimento all’ambiente e all’economia. 5.L’idea di giustizia penale e il ruolo dei mezzi di informazione: spunti di riflessione.

 

1.Da un punto di vista politico criminale si impongono alcune considerazioni preliminari circa il rapporto fra sistema penale e comunicazione di massa, in particolare al fine di comprendere meglio il ruolo che i mass media svolgono per l’efficienza della pena orientata non più alla mera retribuzione ma alla prevenzione dei reati.

Sotto quest’ultimo punto di vista occorre prendere coscienza del fatto che il cancello del regno della pena sembra aprirsi e chiudersi a fatica e il suo movimento appare a volte guidato da forze irrazionali e incontrollate, mentre i cardini su cui esso ruota cigolano paurosamente. A volte il cancello rimane inspiegabilmente aperto, consentendo la fuga dalla giustizia penale di chi dovrebbe invece presentarsi al cospetto di essa ovvero di chi già ad essa si è presentato, altre volte rimane inesorabilmente chiuso, segregando all’interno del regno da esso custodito chi è incappato nelle maglie della giustizia penale.

Fuor di metafora, il sistema penale sembra muoversi lungo linee di politica criminale confuse e talora antinomiche, con la conseguenza di un movimento pendolare di tipo schizoide, che oscilla fra il rigore e il clemenzialismo. Si creano nuove fattispecie incriminatrici e nello stesso tempo si depenalizza; si incrementano le cornici edittali e nello stesso tempo si attua una generalizzata e disorganica fuga dalla pena detentiva; si conferma il primato della pena detentiva e in pari tempo lo si sconfessa, rinunciando sempre più alla sua esecuzione.

Sono questi solo alcuni dei paradossi del nostro sistema penale che ne minano alla base la sua legittimazione e cioè la funzione di prevenzione dei reati; per tornare alla metafora: essi ostacolano un corretto movimento di apertura e chiusura del cancello del regno della pena.

La sensazione diffusa è dunque di un sistema della giustizia penale inefficiente e inefficace, che penalizza a sorteggio, che lascia impuniti troppi crimini e che, non guidato da una seria politica criminale, compie scelte di criminalizzazione non sufficientemente ponderate e empiricamente verificate e dunque esposte al rischio del fallimento. Troppo spesso esse vengono infatti operate sull’onda di presunte istanze sociali di tutela penale, per lo più di natura contingente e irrazionale, derivate dall’allarme sociale che certe forme di criminalità sembrano suscitare. Scelte di tal fatta, che sono simbolico-espressive, assunte cioè in funzione di pura rassicurazione sociale[1], sono destinate all’insuccesso. Ma queste sconfitte a loro volta secondo un principio di causalità circolare generano sfiducia nella capacità di controllo sociale del sistema penale, il quale a sua volta, al fine di  recuperare credibilità, si orienta a favore di risposte punitive di tipo simbolico, eccessivamente severe cioè e non sufficientemente giustificate secondo il paradigma della efficienza. Mentre, perché il movimento del cancello del regno della pena sia regolare, costante e adeguato alle esigenze di tutela penale occorre che esso ruoti, tra l’altro, attorno ai cardini fondamentali della fiducia dei cittadini nella legalità-legittimità ed efficacia dell’ordinamento penale e su quello del consenso sociale[2].

Ma alla luce delle considerazioni preliminari appena svolte emerge chiaramente come sia possibile gettare seri dubbi circa la messa a punto di tali cardini, per il cui corretto funzionamento un ruolo e un contributo essenziale svolgono proprio i mezzi di comunicazione. Infatti l’immagine del reato, della pena e in generale della giustizia penale che si delinea nel cittadino comune e dunque nella collettività passa oggi più che mai attraverso il filtro selettivo dei  mass media e di coloro che in esso operano. Così i giornalisti sono stati giustamente definiti i gatekeeper, i custodi delle notizie[3], in quanto essi filtrano la realtà, in particolare ai nostri fini quella del reato, facendo passare o escludendo storie, eventi, caratteristiche del fatto illecito. Ciò implica non solo selezione ma giudizi di valore attraverso i quali si trasmettono punti di vista, ideologie, pregiudizi, che plasmano l’idea che la gente comune si fa del reato e soprattutto della capacità della giustizia penale a combattere proficuamente la delinquenza. In altre parole i mass media concorrono in maniera pressoché determinante a formare l’idea di cosa sia il reato e di quanto lo Stato faccia per combatterlo, ingenerando così nella gente fiducia ovvero sfiducia  nella capacità di reazione alla delinquenza da parte dello Stato, consenso o disapprovazione delle scelte statuali in tema di giustizia penale, che sono conseguenza del modo in cui viene presentata la notizia[4].

Se da una parte infatti la comunicazione mediatica “educa” il cittadino nel suo atteggiamento verso la devianza, essa ingenera in pari tempo un senso di insicurezza e di paura, di fronte alla presentazione di un fenomeno violento e diffuso, nei confronti del quale, conseguentemente, si moltiplicano le richieste di criminalizzazione e di pene più severe. In secondo luogo la stessa comunicazione di massa della criminalità come fenomeno diffuso più o meno pericoloso favorisce quel senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni penali che pervade ormai la nostra realtà sociale e che si traduce in quello che chiamerei il sentimento di impotenza da impunità nel cittadino comune, ma che a sua volta favorisce il non rispetto della norma penale da parte del delinquente.  

Quanto al bisogno di sicurezza dei cittadini (c.d. sicurezza collettiva in senso lato o soggettiva), occorre rendersi conto che non si tratta solamente di <<un bisogno di protezione dalla criminalità e dai processi di criminalizzazione. La sicurezza dei cittadini corrisponde al bisogno di essere garantiti nell’esercizio di tutti i propri diritti: diritto alla vita, alla libertà, al libero sviluppo della personalità e delle proprie capacità, diritto di esprimersi e di comunicare, diritto alla qualità della vita, così come il diritto di controllare e di influenzare le condizioni da cui dipende, in concreto, l’esistenza di ognuno>>. In breve, non solo garantismo negativo ma anche e soprattutto garantismo positivo è quanto il cittadino chiede allo Stato di diritto, costituzionalmente fondato. E lo chiede invocando anche la sanzione penale. Non per niente <<il modello più codificato di rielaborazione in termini sociali dell’‘obbiettivo penalistico’ è attualmente riassunto nella formula sintetica di ‘sicurezza collettiva’ o ‘interna’>>[5]. Più questa sicurezza sembra vacillare più aumenta l’allarme sociale e conseguentemente si moltiplicano le istanze emotive e irrazionali di penalizzazione[6]

Tale istanza sociale spinge verso il panpenalismo, verso una legislazione penale ipertrofica, massiccia, <<che non solo non viene respinta né messa in crisi, ma ha trovato e continua a trovare un consenso diffuso>>[7]. Una legislazione di tal genere risponde troppo spesso alla pura esigenza di rassicurazione sociale, mentre risulta di fatto incapace di offrire una reale protezione alla collettività. L’eccessiva proliferazione di leggi penali infatti mina alla base la tenuta generalpreventiva del sistema penale nel suo complesso. E il senso soggettivo di sicurezza interna, a volte momentaneamente soddisfatto dalla risposta di criminalizzazione ovvero di maggiore criminalizzazione, si allontana sempre più dal dato empirico-oggettivo rappresentato dalla sicurezza collettiva in senso stretto o obbiettiva e cioè dalla reale protezione delle potenziali vittime e dal reale tasso di tutela dei beni giuridici astrattamente protetti dall’ordinamento. Infatti, a differenza dalla seconda la prima, la sicurezza in senso lato o soggettivo, si presta ad essere manipolata, troppo spesso con intenzione, dai mass media e dalle agenzie penali attraverso di essi; sovrastimata in genere dalla collettività; sperequata in base a due criteri precisi; secondo cioè il tipo d’autore e il tipo di vittima[8].

Che la comunicazione mediale rappresenti uno dei meccanismi più incisivi di consenso artificiale è ormai un dato acquisito, ma, richiamando ancora le parole della dottrina penalistica più attenta, <<deve essere opportunamente evidenziato il “nuovo” ruolo suscitatore di consenso esercitato dai mezzi di comunicazione di massa ed in particolare dalla stampa, quotidiana e periodica>>[9], alla quale occorre aggiungere in un ruolo che appare sempre più preminente la televisione, per la capacità che essa manifesta di insinuarsi nelle pieghe della vita di ogni giorno, anche nei momenti in cui l’attenzione critica dell’ascoltatore è meno vigile. Da qui a scelte di politica criminale sempre più derivate in presa diretta dai media il passo è breve.

  Quanto alla sfiducia circa l’effettività del sistema punitivo, essa si sostiene sull’idea che la pena colpisce casualmente, dunque solo i più “sfortunati”, i quali cadono nelle maglie della giustizia penale in funzione di capro espiatorio di un sistema inefficiente. Tale sfiducia da un lato si mette in evidenza nei settori in cui il diritto penale è diventato ipertrofico, dove cioè da extrema ratio si trasforma in <<tecnica normale di governo e di controllo di qualsivoglia fenomeno sociale>>[10],  dall’altro inibisce la propensione alla denuncia da parte delle vittime del reato, come importanti ricerche criminologiche hanno dimostrato[11]. Ma se il privato non attiva l’apparato sanzionatorio, la minaccia della pena rimane sostanzialmente ineffettiva, con la conseguenza di un’elevata cifra oscura dei crimini, cioè della criminalità sommersa, di quella che non viene allo scoperto e dunque non perseguita.

I fenomeni ora descritti si pongono in una relazione di feedback, inversamente proporzionale, così sintetizzabile: meno propensione della vittima alla denunciaÛpiù cifra oscura dei reatiÛmeno effettivitàÛpiù sfiducia verso il sistema punitivoÛ meno propensione del privato alla denuncia. E’ chiaro e in parte lo vedremo, come l’intensità di questa relazione vari in ragione del tipo di reato preso in considerazione e degli apparati istituzionale coinvolti, come polizia, guardia di finanza[12], pubblico ministero, magistratura ecc. Questi ultimi infatti rappresentano un altro importante fattore della selezione penale, decidendo essi <<di fatto ciò che è e ciò che non è ‘criminale’ sulla scorta di un “second code” parallelo e talvolta “alternativo” a quello espresso dal legislatore penale nella norma comportamentale e nella strumentale norma organizzatoria-processuale>>[13].  A loro volta questi poteri istituzionali rappresentano la principale fonte di approvvigionamenti di notizie per stampa e televisione[14], le quali infine, grazie all’autonomia di definizione di cui godono, sulla scorta di un codice che potremmo definire terzo rispetto ai due precedenti, filtrano e selezionano il materiale nell’ottica di ciò che fa notizia. 

Grave è dunque il ruolo e la responsabilità che i mass media si assumono nella formazione dell’opinione collettiva della devianza, se è vero altresì che fra i fattori diretti di effettività di cui si avvale il paradigma di osservanza delle norme è da annoverare anche il grado  (e il tipo) di informazione del destinatario e fra quelli di rinforzo, la rilevanza sociale dello scopo e la legittimità morale del legislatore così come socialmente percepite[15]. E solo se il processo sociale di definizione della criminalità converge in termini di sinergia e non di alternatività con il processo istituzionale di definizione del penalmente rilevante, si può sperare che il sistema penale funzioni. Ciò significa infatti, nella prospettiva che rileva ai fini della presente indagine, una corrispondenza fra le scelte di criminalizzazione già attuate o in atto e il consenso sociale di cui esse godono[16], requisito quest’ultimo, che - come ormai dovrebbe essere chiaro – non può identificarsi con quello che la dottrina chiama consenso artificiale, consenso cioè precario, non duraturo in quanto artificialmente prodotto a favore di modelli di legislazione penale segnati dall’ipertrofismo, dal simbolismo e conseguentemente dall’ineffettività[17].

Al contrario, la crisi di legittimazione del sistema penale, che oggi ci troviamo di fronte è la crisi di un sistema in balia dell’opinione pubblica, la quale soprattutto attraverso i mass media viene fatta partecipare al governo della giustizia penale. Questo accade in particolare con la pubblicizzazione mediatica del processo e delle misure cautelari applicate. Se, come è stato affermato, tale pubblicizzazione <<sembra essere il più significativo riflesso stigmatizzante rimasto alla pena>>[18], vuol dire che la pena quella vera, ha perso la sua partita almeno nei confronti dell’opinione pubblica[19].   

 

2. Ma qual è allora l’immagine del reato veicolata dai mezzi di informazione? Coincide essa con quella offerta dalle agenzie istituzionali? Oppure quella dei mass media rappresenta un’agenzia di informazioni a sua volta “deviante”? Offre forse la comunicazione mediatica un’immagine distorta della criminalità, favorendo così quei processi sociali negativi, contrari al funzionamento del sistema penale appena illustrati?

Sono questi gli interrogativi ai quali si cercherà di dare una risposta, senza l’ambiziosa pretesa di esaustività, ma con l’obbiettivo altrettanto importante di scoprire le carte al tavolo dove la giustizia penale gioca le sue carte migliori e cioè quelle del rilancio del diritto penale classico, inteso come diritto penale garantista in grado di tradurre contenuti sostanziali di valore generalmente condivisi, di presentarsi come unitario, nonostante la necessaria presenza e settorialità del diritto penale c.d. complementare, inevitabile in certe materie data la loro complessità e specificità, ma soprattutto in grado di superare la evidenziata, pericolosa e <<paradossale contraddizione tra uno strisciante rischio di “delegittimazione” diffusa (in termini tanto di effettività quanto di indicazione valorativa) e un crescente innalzamento delle “richieste” rivolte al diritto penale>>[20]. Delegittimazione diffusa e richieste di diritto penale favorite - come si vedrà - proprio dai mass media, quanto alla prima ad esempio, in occasione di sentenze assolutorie giudicate inaccettabili alla luce dei valori comunemente diffusi. Quanto alle richieste di penalizzazione, in occasione di campagne favorite e sostenute dal messaggio massmediale circa la pericolosità e l’allarmante aumento del fenomeno criminale (ad esempio in tema di prostituzione ovvero di delinquenza minorile, oggetto di recenti proposte di modifica della disciplina vigente, improntate ad un maggior rigore sanzionatorio).

In questo clima, ciò che si rischia di perdere definitivamente è l’idea di una giustizia penale condivisa e sentita. Una perdita, questa, alla quale, dalle considerazioni finora svolte, risultano aver sicuramente contribuito anche i mezzi di comunicazione di massa secondo meccanismi e tecniche della rappresentazione penale che è giunto il momento di affrontare.

E’ bene tuttavia precisare che le dinamiche così descritte sono rilevabili in tutti i sistemi occidentali, onde sembra utile fare un primo riferimento al dibattito internazionale.

 

2.1. Da un’analisi delle ricerche sul tema che ci occupa è possibile trarre un primo dato di carattere generale e comune a quasi tutti gli studi: i mezzi di comunicazione di massa risultano altamente selettivi nel riportare le notizie sulla criminalità e di una selezione distorsiva[21]. E la monopolizzazione delle notizie da parte dei mass media rende poi ancora più acuto il problema del tipo di informazione che i cittadini ricevono in tema di giustizia penale[22].

In particolare la selezione delle notizie sul crimine, soprattutto attraverso i giornali, avviene secondo diversi criteri: di tipo quantitativo alcuni, di natura qualitativa altri.

Quanto a quelli quantitativi, un primo effetto distorsivo è costituito dal fatto che la frequenza dei resoconti criminali non dipende dalla effettiva frequenza del reato oggetto della notizia[23].  Se da una parte infatti le notizie sulla criminalità rappresentano un aspetto costante della stampa, che varia peraltro significativamente in ragione del tipo di giornale, in particolare se locale o nazionale, dall’altra tali notizie non sembrano rispettare il reale andamento della criminalità, nel senso che a guidare la cronaca dei giornali o dei telegiornali non è il criterio della diffusività e frequenza del reato. Non sono certo i reati più denunciati o quelli per i quali più spesso interviene una sentenza di condanna a richiamare l’attenzione dei cronisti, ma quelli che presentano certe caratteristiche che vedremo.

Un secondo effetto distorsivo è rappresentato dall’enfasi che caratterizza le notizie relative ad alcune tipologie di reato. Essa varia infatti a seconda della dimensione pubblica o privata del reato. Così, particolarmente enfatizzati sono i reati che attengono alla sfera individuale e privata dei soggetti, al punto da creare troppo spesso nella collettività l’idea che si tratti di reati ampiamente diffusi e pericolosi. Di contro, poco enfatizzati sono i reati che danneggiano beni pubblici, collettivi, come la società nel suo insieme, l’economia o l’ambiente; come verrà meglio illustrato, essi vengono per lo più sottorappresentati e in termini di violazioni di modesta entità[24], salvo nel caso che da questi reati sia derivato un grave pericolo  o addirittura la morte di più persone. 

Emblematica della rilevanza che i mass media danno alla prospettiva privatistica[25], proprio perché in essa ciascuno di noi può facilmente identificarsi, è il trattamento riservato ai reati violenti, in particolare quelli contro la vita e la persona in generale, che godono di un’ipertrattazione, non giustificata peraltro dalle statistiche ufficiali circa la loro frequenza[26]. La ipertrattazione del crimine violento, in particolare da parte del mezzo televisivo[27], non solo disinforma l’opinione pubblica sulla vera portata dell’illecito penale, ma, indirettamente, sembrerebbe concorrere a formare in essa l’idea irrazionale e non graduata della pericolosità delle offese penali, e ciò sul piano politico criminale si traduce in istanze altrettanto irrazionali di incremento della penalità[28].

Ma la logica della vendita, che privilegia il sensazionalismo, prevale su quella della corretta informazione, pubblicizzando un’immagine del reato che non corrisponde alla realtà e non solo in termini quantitativi, ma anche e soprattutto in termini qualitativi.

Così, quanto all’atto criminale l’attenzione cade sulle sue modalità di svolgimento, in particolare se infamanti e brutali, e ciò già nei titoli degli articoli o dei servizi. Ma anche la freddezza, l’imprevedibilità del fatto, l’anormalità e la perversione di esso ovvero lo scopo di lucro rappresentano caratteristiche messe in primo piano dalla cronaca, mentre quanto precede la condotta criminale e gli avvenimenti che la seguono non sembrano trovare spazio nelle cronache giornalistiche e televisive[29]. Anche la presenza di vittime e il loro numero costituirebbero tuttavia un fattore costante e decisamente importante di selezione del fatto, in particolare nei casi di omicidio. Più il numero di esse è elevato più il reato sembra fare notizia[30].

Ne deriva che troppo spesso l’autore del reato viene presentato come nemico pubblico ovvero come mostro, creando così nel pubblico diffidenza e desiderio di punizione nei confronti del deviante ma anche paura e insicurezza[31]. Secondo tale prospettiva il soggetto deviante viene “pubblicizzato” più della vittima[32], mentre scarsa attenzione viene riservata alla condizione sociale del reo[33], ad alcune caratteristiche della sua condotta, d’impeto o premeditata, e alle sue condizioni psicologiche, normalità o anormalità, secondo una prassi giornalistica che nella maggioranza dei casi assume la veste di notizia-denuncia[34], nella quale il richiamo al ruolo che la società può svolgere nella genesi del crimine non sembra trovare spazio. Conseguentemente, la lotta alla criminalità viene presentata come appannaggio esclusivo degli apparati istituzionali attraverso politiche repressive[35], con ciò negando il principio solidaristico fondamentale che vede nel riconoscimento della corresponsabilità sociale nella genesi del reato il primo presupposto di attuazione del principio di risocializzazione del reo. Se infatti, come è emerso, la strategia dei mass media ha come obbiettivo quello di suscitare nell’opinione pubblica sdegno e riprovazione nei confronti dei devianti, per i quali si invocano punizioni più severe se non esemplari, non dovrebbe lasciare sorpresi il diffuso disinteresse sociale a favore di istanze di aiuto e di recupero sociale di coloro che hanno commesso un reato. La comunicazione massmediale in tema di criminalità sembra allora favorire il conflitto sociale suscitato dalla devianza piuttosto che attenuarlo. Attenuazione indispensabile, invece, per consentire, come vedremo, una corretta politica criminale di composizione del conflitto in particolare attraverso la risocializzazione del reo, ma anche, là dove possibile, attraverso procedure di mediazione[36].

            Emerge dunque una dimensione ideologica della notizia, che se da una parte non può essere eliminata dall’altra non può nemmeno essere negata[37]. Al contrario, occorre essere consapevoli degli effetti negativi che questa dimensione può ingenerare sulla collettività e sul suo atteggiamento verso il sistema della giustizia penale.

Dal dibattito internazionale appena illustrato sembra allora emergere in termini incontrovertibili un dato fondamentale: l’opinione pubblica si confronta e conosce solo una parte del fenomeno criminale: questo è il distillato dei fatti elaborato dai mass media. 

 

         

2.2. In Italia, peraltro, la materia oggetto della presente indagine non sembra essere stata al centro di un dibattito così approfondito e esteso come invece è successo in altri paesi[38]. La ricerca che ha portato a quest’incontro internazionale assume dunque un particolare significato di originalità nel panorama italiano non solo in ragione dei risultati, che ci accingiamo ad analizzare in chiave comparativa, ma anche per la serietà del metodo di ricerca adottato di tipo sperimentale.

In Italia il dibattito sul ruolo dei mass media nella giustizia penale è stato finora caratterizzato dal richiamo ai risultati delle ricerche condotte all’estero e soprattutto in questi ultimi anni si è incentrato sulla funzione che i mass media hanno svolto nel presentare alla pubblica opinione importanti processi penali dal vivo.

A)E’ soprattutto su quest’ultimo versante che si è sviluppato un dibattito fortemente ideologicizzato circa la legittimità etico-sociale di tale ingerenza mediatica nel processo penale, che ha di fatto però messo in secondo piano l’interrogativo più generale e peraltro preminente se e in quale misura i mezzi di comunicazione in Italia contribuiscano a dare un’immagine distorta del reato, e in pari tempo accentuato il divario fra realtà fenomenologica della criminalità e percezione sociale di essa.

Il fenomeno della presenza della televisione nei processi penali che caratterizza in termini specifici e peculiari questi ultimi anni della giustizia penale italiana[39], ha suscitato forti polemiche e interrogativi circa la legittimità di tale prassi sotto il profilo del rispetto dei contenuti  garantistici di tali processi[40]. In particolare: 1)si è evidenziato il ruolo significativo che i mezzi di informazione possono svolgere sulle dinamiche di formazione della prova[41]; 2)si è richiamata l’attenzione sulle conseguenze, grazie ai media, di un’eccessiva pubblicizzazione del processo penale, attraverso la quale il processo come tale e le misure cautelari ad esso collegate diventano alla fine la punizione vera sul piano sociale, nonostante l’art. 27 2°, co. Cost. sancisca la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva.[42]. 3)E infine si è evidenziato il rischio di uno <<sbilanciamento informativo>> tra tesi dell’accusa e tesi della difesa, quale conseguenza del processo massmediatico di amplificazione ed esaltazione <<soltanto (di) alcuni soggetti processuali rispetto ad altri: così da produrre uno squilibrio che, inevitabilmente, .... finirà per influenzare in senso accusatorio il “giudice terzo”>> [43].

            Insomma, pur con accenti e sfumature diversi, la dottrina italiana sembra unanime nel mettere in guardia contro i rischi di condizionamenti psicologici e di suggestioni nocive  nei confronti di imputati, parti offese, testimoni nonché giudici.

La nuova cultura mediologica sembra dunque minare pericolosamente quella della legalità, per la cui salvezza la dottrina non invoca certo un silenzio sui processi, alla quale osterebbero in termini perentori le esigenze di garanzia sottese al principio della pubblicità del processo penale (v. artt. 114 c.p.p. e 147 disp. att.), ma una sua trasparenza adeguatamente protetta[44].      

   

    B)Sul fronte della ricerca empirica, poi, negli ultimi anni si è verificato un orientamento a indagare gli effetti dei mass media sulla pubblica opinione da una parte e dall’altra a studiare l’immagine che l’opinione pubblica ha dei mezzi di comunicazione[45]. Peraltro non sono mancate osservazioni sulla rappresentazione mediatica del crimine, dalle quali sembra emergere che <<l’area della devianza è di norma relegata nelle pagine di cronaca nera, priva di interpretazioni e contestualizzazione, notiziabile solo se ed in quanto segnata da azioni di forte spessore trasgressivo e emotivo. I protagonisti delle notizie di cronaca nera non hanno altra storia all’infuori di quella unidimensionale dell’atto deviante>>[46].  

 Per quanto riguarda l’attitudine dell’opinione pubblica verso i mass media, oggetto di recenti indagini sul campo, di particolare interesse ai fini della presente indagine sono le ricerche di tipo criminologico, che hanno cercato di verificare l’atteggiamento del cittadino comune verso i mezzi di comunicazione in materia di criminalità. Da esse emerge la scarsa fiducia nei riguardi dei mezzi di informazione, in quanto si ritiene che essi non riporterebbero in maniera adeguata le notizie relative alla criminalità, la qualità e la fedeltà delle quali si giudica alterata. Tali critiche verrebbero mosse soprattutto da coloro che sono stati vittime di un reato[47].

Che l’atteggiamento verso le notizie in tema di criminalità fornite dai mezzi di informazione sia critico da parte del cittadino italiano sembra trovare una indiretta conferma in una relativamente recente indagine empirica circa l’opinione degli studenti sul fenomeno purtroppo divenuto molto attuale della violenza negli stadi, per contenere la quale il legislatore italiano ha introdotto specifiche fattispecie incriminatrici[48]. Da tale indagine emerge che fra i giovani adolescenti è diffusa l’idea che i giornali e la TV favoriscano la violenza, aumentando la tensione che circonda le competizioni sportive o al contrario che gli articoli giornalistici siano esagerati se non addirittura falsi[49].   Siamo così al paradosso: i mass media producono un’idea sociale distorta del crimine, ma le vittime, che di questa presentazione distorsiva non possono avvedersi ogni volta che viene operata, non si fidano della rappresentazione massmediatica, considerandola, su un piano generale, appunto distorsiva[50].

 

C)E veniamo alla ricerca che ha fornito la base empirica a questa indagine[51]. I dati da essa offerti sembrano confermare quanto già emerso, soprattutto a livello internazionale.

In particolare anche da tale ricerca emerge una selezione distorsiva di tipo quantitativo: i reati più rappresentati non sono quelli più diffusi e frequenti nella realtà fenomenologica della criminalità. In altre parole la cronaca criminale non rispetta il reale andamento dei tassi di criminalità, ingenerando così nella collettività un’impressione di diffusività di alcune tipologie di reati, che non corrispondono a quelle nella realtà con i tassi più alti. Così conclude in proposito la ricerca: <<Si può affermare che i media, a pena di scontare una certa banalità nella diffusione di notizie per così dire “all’ordine del giorno”, invertono i dati numerici della realtà sociale e diffondono maggiormente fatti gravi che non si verificano frequentemente, trovando in tale circostanza la caratteristica che li fa assurgere a “notizia”. Al contrario sono meno diffuse notizie riguardanti fatti di bassa dannosità sociale e di vasta divulgazione>>[52].

Quanto agli aspetti qualitativi, anche a riguardo della tipologia delinquenziale più riportata dai mass media, i risultati a cui perviene la ricerca criminologica concordano: essa è costituita dai crimini violenti, in particolare l’omicidio e dalla criminalità politica e terroristica. Per quanto attiene a quest’ultima si precisa tuttavia che se da una parte l’attenzione riservata a questa categoria dipende dal clamore che accompagna notizie del genere e dall’interesse generalizzato per esse, dall’altro essa è stata fortemente condizionata dal particolare e contingente periodo in cui la rilevazione empirica si è svolta (qualche mese dopo l’11 settembre).

Quanto alla connotazione del fatto in termini di gravità, la ricerca  registra una diversità degli indici di gravità a seconda della testata presa in esame; e ciò conferma la componente fortemente ideologica del processo di selezione e costruzione delle notizie.

Circa i contenuti delle notizie, che il fatto e gli apparati istituzionali, le agenzie, rappresentano il nucleo centrale attorno ai quali ruota la notizia trova conferma nella ricerca criminologica. Essa  riscontra anche il dato già emerso nelle indagini sopra riportate, circa lo scarso rilievo riservato al reo e soprattutto alla vittima.  

 

 

3.Se da quasi tutte le ricerche svolte emerge in primo luogo una sovrarappresentazione dei delitti violenti, in particolare contro la persona e la sua integrità[53], dalle stesse in termini abbastanza univoci emergono eccezioni per alcuni reati che attengono alla sfera individuale e in particolare i reati sessuali, per i quali la realtà massmediale sembra connotata da caratteristiche originali e peculiari che meritano di essere esaminate.

In particolare occorre chiedersi se la conclusione anche di recenti indagini[54] che i media non solo sovrastimano un certo tipo di devianza, ma anche presentano una immagine distorta della criminalità in generale valga, e in che termini con riferimento ai reati sessuali, rispetto ai quali importanti mutamenti di costume sono intervenuti in questi ultimi anni in Italia e all’estero, mutamenti che hanno trovato in quasi tutti gli Stati un riconoscimento a livello legislativo. Sorge legittimo l’interrogativo se, ad esempio, anche con riferimento alla criminalità sessuale sia fondato il rimprovero mosso ai mezzi di informazione di massa, soprattutto in America, di essere tendenzialmente conservatori, attraverso messaggi che in quanto destinati alla classe media, tenderebbero a sostenere lo status quo piuttosto che il cambiamento, a sostenere la prevalente ideologia dell’individualismo e l’istanza di “legge ed ordine” [55] .

Un’indagine sull’immagine della delinquenza sessuale nei mass media acquista particolare significato anche alla luce del fatto che tale tipo di delinquenza rientra fra quei crimini definiti “campanello d’allarme” per il pubblico, signal crimes, reati civetta[56]. Quei reati cioè la cui percezione, a differenza di altre tipologie delittuose, suscita un generalizzato e forte allarme sociale e conseguentemente un altrettanto generalizzato bisogno di sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità indistintamente considerata. Tradotto per i reati sessuali: più sembrano aumentare i casi di violenza sessuale o più questi casi sono percepiti come quelli sui quali le autorità dovrebbero in via prioritaria intervenire, più aumenta il senso di pericolo personale nei confronti del crimine nel suo complesso[57].

Che i reati di violenza sessuale appartengano a tale tipologia di crimini sembra trovare una interessante conferma nel fatto che la collettività li percepisce come delitti particolarmente gravi e quindi pericolosi; e a rinforzare tale attitudine un ruolo rilevante sembrano giocare proprio i mezzi di comunicazione[58]. Essi infatti, come le ricerche in proposito concordemente segnalano, anche se sottoriportati rispetto ad altre categorie di illecito, ma comunque sovrastimati rispetto alla loro reale frequenza (distorsione quantitativa), vengono descritti in termini particolarmente enfatici e allarmistici (distorsione qualitativa).

Questa conclusione trova conferma anche nella ricerca empirica alla base della presente indagine[59]. Da essa emerge infatti come i maggiori indici di gravità risultino associati ai reati sessuali, al decimo posto invece nella scala di gravità legislativa elaborata dalla ricerca empirica a cui questo lavoro fa riferimento. E’ tuttavia opportuno sottolineare come la serietà di simili condotte devianti sia da valutare non tanto alla luce di indici di gravità per così dire sessuali, ma piuttosto alla luce di indici di valutazione che rimandano a motivazioni non di natura sessuale dell’atto di violenza. Come emerge da un recente studio[60], la serietà, la gravità della violenza sessuale non potrebbe essere valutata tenendo conto della sola entità della forza fisica impiegata, della coercizione esplicata ovvero delle lesioni prodotte quanto piuttosto tenendo conto delle componenti di rabbia, di collera, di vendetta[61]. Queste ultime infatti spingerebbero al comportamento inutilmente violento, all’eccessiva coercizione e alle lesioni.

Dunque, sembrano nel vero coloro che sostengono che la violenza sessuale rappresenta più un atto di collera e di vendetta che di sfogo dell’istinto sessuale, componente quest’ultima non in grado perciò da sola di spiegare tale tipo di atto[62]

Ma, a questo punto, occorre chiedersi se gli indici di gravità appena evidenziati siano rinvenibili nei resoconti dei mass media sui fatti di violenza sessuale, in considerazione del fatto che il giudizio di gravità del reato da parte dall’opinione pubblica dipende in larga misura dal modo in cui questi fatti sono riportati dai mezzi di informazione.

Per rispondere a questo interrogativo occorre vedere quali siano i fattori distorsivi quantitativi e qualitativi delle notizie di reati sessuali derivanti dalla necessità di sensazionalismo[63]. Quest’ultimo verrebbe in primo luogo ricercato non tanto attraverso la frequenza dei resoconti (distorsioni quantitative), quanto piuttosto attraverso l’ampio rilievo riservato a casi particolarmente gravi relativi ad aggressioni o omicidi a sfondo sessuale soprattutto da parte di uno sconosciuto, presentato come “un animale da stanare” mentre la donna aggredita è la “vittima innocente”. Ciò sollecita l’attenzione del pubblico, nel quale si crea il c.d. eccitamento del caso.

Ma questa immagine dello stupro non sembra coincidere con quella della realtà, nella quale l’aggressore è per lo più conosciuto dalla vittima (date o acquitance rape) e nella maggioranza dei casi l’aggressore non è un mostro o una persona affetta da patologie sessuali o mentali[64].

I mass media dunque rinforzano gli stereotipi o miti presenti nell’opinione pubblica relativi alla violenza sessuale[65]. Descrivere un crimine violento di aggressione sessuale come motivato da un irresistibile sfogo della sessualità maschile ovvero come conseguenza di una errata interpretazione dei desideri sessuali della vittima significa non solo confermare i miti sul rape diffusi nell’opinione pubblica, ma anche favorire in questa un atteggiamento di comprensione e scusa verso lo stupratore[66]. In tale ottica la stampa tenderebbe a dare rilievo alle argomentazioni della difesa (forse anche perché difficilmente la vittima si espone alla pubblicità dei mass media), secondo le quali per lo più il fatto andrebbe visto come una forma di seduzione mal compresa. La violenza passa dunque in secondo piano o interpretata come voluta dalla vittima. In breve: da una parte si presenta il crimine sessuale come reato particolarmente pericoloso e grave, dando rilievo ad alcuni episodi, così che genera paura e insicurezza nella collettività, ma nello stesso tempo lo si descrive in termini tali da rinforzare i tradizionali stereotipi dell’opinione pubblica[67].

Quanto all’immagine della vittima, l’accusa che viene mossa ai mezzi di comunicazione è quella di riproporre un altro stereotipo o mito, che pregiudica pesantemente la sua credibilità.  La vittima infatti, se donna, come per lo più accade, verrebbe presentata come persona di facili costumi o come soggetto isterico o nella migliore delle ipotesi come persona “manipolativa”, seduttiva, una vamp seduttrice e lussuriosa, ovvero come vergine innocente. E correlativamente  l’uomo aggressore come autore provocato dal comportamento sessuale o presunto tale della vittima ovvero come animale, mostro, maniaco pericoloso[68]. Che questi stereotipi aleggiassero anche nelle aule di giustizia è dimostrato dal fatto che quasi tutte le legislazioni in tema di violenza sessuale riformate negli ultimi anni hanno introdotto delle norme per tutelare la vittima da domande relative alla sua vita privata pregressa e alle sue esperienze sessuali e tali da compromettere la credibilità della stessa vittima[69]. Così è stato anche in Italia, tanto da spingere il legislatore, con la riforma del 1996 della disciplina codicistica del 1930, a introdurre, all’art. 15 della legge, il divieto di <<domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se non sono necessarie alla ricostruzione del fatto>>, (art. 472, co 3 bis del c.p.p.).

Ma si fa anche notare che in realtà la stampa, in particolare quella che segue i processi per stupro, avrebbe poco interesse per le ragioni, le cause della violenza, mentre indugerebbe sul fatto e sulla inverosimiglianza che la donna abbia subito tale tipo di aggressione.   

Anche la collocazione della notizia dello stupro all’interno del giornale gioca un ruolo di rilievo. Così, se una volta tali notizie erano fornite soprattutto dalla stampa scandalistica che si interessava di sex crime[70], a partire dalla metà degli anni ’70 il sex crime diventa una notizia comune a tutti i giornali, e ciò soprattutto in seguito all’accendersi del dibattito ad opera dei movimenti femministi sulla violenza sessuale e sulla inadeguatezza delle norme che incriminavano tale comportamento. Tuttavia ancora nel 1995 si rimprovera alla stampa inglese di dare più rilevanza alle assoluzioni dall’accusa di stupro, che alle condanne. Alle une, le assoluzioni, infatti, più facilmente sarebbe riservata la prima pagina dei giornali, mentre alle altre, le condanne, si tenderebbe a dare minor rilevanza, a meno che l’autore non sia uno sconosciuto psicopatico. E infatti quest’ultimo corrispondeva allo stereotipo dello stupro, imperante almeno fino agli ottanta anche nei mezzi di informazione, i quali tendevano, tendenza che sembrerebbe a tutt’oggi non del tutto superata, a inquadrare ogni stupro nell’aggressione sessuale di una donna da parte di un uomo del tutto sconosciuto, secondo una prospettiva riduttiva e falsante della realtà.

Nella realtà lo stupro è un fenomeno che sempre più spesso si compie fra persone che già si conoscono se non addirittura fra persone legate da vincoli di amicizia o di parentela. Insomma il c. d. stupro su appuntamento (date rape e acquaintance rape) sembrerebbe oggi rappresentare il vero volto dello stupro moderno. I mass media con fatica avrebbero fatta propria questa realtà che si contrappone al modello primitivo e classico del delitto sessuale, che continuerebbe invece  ad essere considerato l’ipotesi normale, più frequente e più grave. Ma questa rappresentazione costituisce una seria distorsione e con effetti negativi diffusi, in particolare quello di spingere la donna vittima di una simile violenza a non denunciarla. Proprio per questi reati l’entità della cifra oscura, particolarmente alta, dipende quasi esclusivamente dalla volontà e dalla propensione della vittima a denunciare l’aggressione subita. Disponibilità alla denuncia che sembra essere ulteriormente compromessa dal fatto che quando la stampa si occupa di casi di date rape, e ciò a partire soprattutto in  Inghilterra dagli anni ottanta, lo fa  in maniera drammatica e insistente fino all’esito di una soap-opera nazionale. Proprio con riferimento a questi casi, infatti, vengono proposti alcuni di quegli stereotipi appena descritti, del tipo: la vittima era in realtà consenziente e seduttrice, e dunque accusa falsamente il partner, il quale avrebbe semplicemente frainteso le intenzioni sessuali della presunta vittima. Alla fine, proprio con riferimento a questi casi la vera vittima appare l’aggressore cosicché la sua eventuale assoluzione viene riportata come una vittoria della giustizia[71].  

Oltre a quelli già riferiti sul numero delle condanne, oggetto di ipervalutazione e sul numero di stupri su appuntamento, oggetto di ipotrattazione, nonostante essi rappresentino la vera realtà dello stupro, anche importanti fattori distorsivi di tipo quantitativo meritano di essere ricordati. A tale riguardo ai mezzi di informazione si muove il rimprovero di sovrarappresentazione della criminalità sessuale rispetto alla suo reale andamento[72]. Questa tendenza ad enfatizzare il numero dei reati sessuali potrebbe essere la conseguenza di un maggiore interesse verso questo tipo di aggressioni, interesse diffusosi proprio in seguito al dibattito fortemente ideologicizzato, sviluppatosi a partire dalla metà degli anni 70[73].

   
   

 

   
   

Questo acceso dibattito ha interessato anche l’Italia soprattutto verso la fine degli anni ’70 e segnato il lungo e travagliato iter legislativo conclusosi nel 1996 con la riforma degli artt. 519 e seguenti del codice penale. Tuttavia con riferimento al nostro Paese non sembrerebbe essersi verificato quel fenomeno di distorsione quantitativa segnalato invece in altri Paesi.

Dalla ricerca sulla rappresentazione mediatica del crimine alla quale si annoda il presente studio emergerebbe al contrario una ipotrattazione della criminalità sessuale. Essa cioè sarebbe insieme ai delitti contro l’onore fra le categorie di reati meno rappresentate: in televisione non supera mai l’1% delle notizie sui crimini mentre nella carta stampata l’1,5%, ma, si precisa, <<solo in termini numerici, segno che, in ogni caso, le notizie pubblicate sono per lo più semplici trafiletti. In ogni caso in termini di immagini i dati sono ancora più bassi e comunque si tratta di una categoria quasi mai in prima pagina sul cartaceo. La media si assesta su uno 0,5%>>[74]. Questo fenomeno non troverebbe riscontro nel reale andamento della criminalità sessuale che dai dati statistici a disposizione, in parte coincidenti con il periodo di rilevazione empirica dell’indagine in esame, risultano in aumento[75]. Dunque la sottotrattazione dei reati sessuali nei mass media non sembra rispecchiare il reale andamento della criminalità sessuale di questi ultimi anni, soprattutto a partire dagli anni ’90[76], ma non tiene conto nemmeno dell’elevata cifra oscura delle violenze sessuali, cioè dei reati perpetrati e mai denunciati[77].

Ma nemmeno rispecchia esattamente il rapporto quantitativo con gli altri tipi di reato, di cui nella realtà rappresenta - come detto - una percentuale che oscilla tra lo 0,2% e lo 0,3%, mentre nei mass media è pari all’1% per la televisione e all’1,5% nella stampa. Dunque una distorsione per eccesso.   

Come già anticipato, la ricerca conferma, invece, i rilevanti anzi <<rilevantissimi>> indici di gravità delle notizie su questa categoria di reati (<<addirittura -100%>>)[78].

Quali le possibili spiegazioni di tale ipotrattazione, che non riflette il reale andamento dei tassi di criminalità sessuale e rappresenta un fattore distorsivo di tipo quantitativo?

Si è a tal fine richiamata l’esigenza di rispettare la privacy della vittima, d’altra parte tutelata da diverse disposizioni che ne assicurano l’anonimato. Ma non è solo dell’Italia simile  normativa. Si è altresì fatto richiamo a una sorta di autocensura della comunicazione massmediale italiana, consapevole della necessità di prevenire comportamenti emulativi; di evitare un diffuso allarme sociale e infine di evitare processi di stigmatizzazione dell’imputato prima di qualsiasi verdetto di colpevolezza. <<A comprovare questa sorta di autocensura, conclude la ricerca criminologica, depone anche il modo di pubblicazione di tali notizie, presentate perlopiù in maniera spuria, senza grossi coinvolgimenti emotivi, senza particolari drammi. Gli articoli e i servizi riguardanti questo tipo di reati sono spesso brevi, senza indugi su particolari macabri e raccapriccianti; le immagini spesso riguardano le notizie solo indirettamente (le autorità intervenute, il paese dove si è verificato il fatto, al massimo il luogo del delitto già ripulito di ogni elemento rilevante)>>.

Ma, perché simile autocensura dovrebbe operare solo per questa categoria di illeciti?  Una spiegazione potrebbe nascere da una duplice osservazione: la prima è che in Italia il fenomeno dello stupro non viene percepito come fenomeno endemico e così diffuso da rappresentare un grave problema sociale, come all’estero in particolare in paesi come l’Inghilterra, ma soprattutto l’America; la seconda è che il contesto sociale e culturale italiano ha ormai raggiunto una tale maturità e permeabilità alle moderne prospettive di tutela della donna da condotte di coercizione sessuale che hanno guidato la riforma italiana del 1996, da far sentire come intollerabili quelle situazioni nelle quali tale prospettiva appare compromessa. Sono allora queste le situazioni che meritano di diventare notizia.

Una conferma che questa possa costituire una possibile spiegazione del rapporto tra mass media e criminalità sessuale può essere rintracciata nella reazione della stampa italiana ad un’assoluzione dal reato di violenza sessuale ad una donna, assoluzione motivata, tra l’altro, dal fatto che la persona non avrebbe potuto essere violentata in quanto indossava un paio di jeans, genere di pantaloni che secondo i giudici non avrebbe potuto essere sfilato senza il consenso della vittima[79]. Ebbene, immediata e decisa è stata la reazione della stampa nei confronti di tale decisione, con articoli, apparsi anche in prima pagina, dai seguenti significativi titoli: “I jeans, alibi per lo stupro” (in prima pagina, La stampa 11-2-1999); “La Cassazione: col jeans non c’è stupro” (nella pagine di cronaca sempre La stampa 11-12-1999); “Impossibile violentare una donna con i jeans” (prima pagina del Corriere della sera 11-12-1999 che a p.19 prosegue: “Lei aveva i jeans, non ci può essere stata violenza”; e la sentenza viene definita, sentenza choc) e ancora “Con i jeans non è stupro. Sentenza choc della cassazione, è polemica” (nella prima pagina della Repubblica dell’11-2-1999) e “La rivolta delle donne”; “Dieci firme contro la sentenza che offende”; “La bandiera dei jeans” (sempre nella Repubblica del giorno successivo, in prima pagina; e ancora La Repubblica 12-2-1999, a p. 10 pubblica un altro servizio dal titolo “Portava i jeans, non fu stupro”).

Ma l’attenzione della stampa giornalistica non si ferma qui: a distanza di pochi mesi si riaccende un’altra polemica nei confronti di una nuova sentenza della Cassazione che conferma la decisione di secondo grado che non riconosce una responsabilità aggravata nei confronti dell’imputato di violenza sessuale ai danni della fidanzata incinta di sette mesi. Ancora una volta i giudici vengono accusati di non fare giustizia, anzi di farla in un modo incomprensibile ai comuni mortali in un articolo de La Repubblica 10-4-1999 dal titolo: “Stupro, un’altra sentenza choc” e ancora: “Niente galera allo stupratore”. In termini più equilibrati invece il Corriere della sera 10-4-1999, che a p. 16 intitola: “Lo stupro incinta: <<Non c’è aggravante>>”, ove si denuncia una lacuna legislativa, che sarebbe data dalla mancata previsione di una aggravante speciale nel caso di donna incinta. Ma accanto a tale articolo riporta le testimonianze di alcune onorevoli che hanno definito la decisione una decisione “killer” ovvero “una sconfitta culturale” e nella prima pagina, anticipa i servizi su tale sentenza intitolando l’articolo di prima pagina: “Stupro, niente aggravanti se la donna è incinta. Sentenza della cassazione: al violentatore è possibile dare anche le attenuanti”. L’immagine che viene fuori  è dunque che né la legge né coloro che la applicano sembrano in grado di assicurare un’adeguata protezione della donna da aggressioni sessuali.

Tuttavia, se da una parte si denunciano inammissibili involuzioni regressive, suscitando nell’opinione pubblica l’immagine di una giustizia penale dalla parte dello stupratore anziché della vittima, dall’altra si ignorano decisioni che rispecchiano invece principi di tutela rispettosi della persona e della sua libertà sessuale. Ma la “normalità”, ovvero “le buone notizie” non fanno notizia. Intendo riferirmi ad una recente sentenza della Cassazione, nella quale si legge che <<l’attendibilità della vittima della violenza sessuale non può essere inficiata dal fatto che la stessa indossasse i jeans al momento dello stupro, posto che la paura di ulteriori conseguenze potrebbe avere determinato la possibilità di sfilare i jeans più facilmente>>[80].  

Questo esempio conferma come il ruolo selettivo dei mezzi di informazione sia decisivo: è infatti dal tipo di “distillato” che essi producono che dipende, almeno in misura prevalente, la rappresentazione pubblica del reato e di ciò che il legislatore e la prassi giudiziaria fanno per combatterlo. Essi ricevono addirittura una investitura da parte della giurisprudenza, quando ancora in materia di reati sessuali ampiamente intesi, tali cioè da ricomprendere anche i delitti di oscenità, vengono considerati validi parametri di riferimento ai fini dell’integrazione dell’elemento normativo extragiuridico rappresentato dal concetto di osceno. Infatti, poiché tale concetto si definisce sulla base del comune sentimento del pudore (art. 529 c.p.), secondo una parte della giurisprudenza, il giudice, non potendo essere <<un fustigatore dei costumi, un promotore di campagne moralistiche .... deve limitarsi ad accertare il sentimento medio della popolazione nel momento storico dato, assumendo a parametri di riferimento i mass media, i quali costituiscono la “fabbrica” e lo “specchio del comune sentire”, del generale stato di accettazione del mutamento di costume, della tolleranza nel pluralismo>>[81]. Seguendo siffatta impostazione occorre concludere che la possibilità di offese al pudore decresce in funzione del crescere del livello di tolleranza dello spettatore o lettore medio nei confronti di programmi televisivi o di stampati a contenuto sempre più erotico[82].

 

4. Notevolmente alto appare anche il livello di tolleranza del cittadino medio nei confronti delle condotte offensive di beni sovraindividuali, pubblici, sulla meritevolezza di protezione dei quali l’opinione pubblica non sembra aver ricevuto particolari sollecitazioni da parte dei mass media. Ciò emergerebbe a proposito dei reati economici o economico-ambientali, della cui immagine nei mezzi di comunicazione ci occuperemo ora.

Occorre però premettere alcune osservazioni relative al reato economico, indispensabili per affrontare la questione del come e perché la rappresentazione mediatica del delitto economico si ponga in termini peculiari.

Mentre i delitti tradizionali, che formano appunto il  c.d. nucleo essenziale del diritto penale, il Kernstrafrecht[83], quali in primo luogo i delitti contro la persona e quelli classici contro il patrimonio, hanno una loro costante e consolidata oggettività giuridica[84], che sente l’influenza del contingente sistema socio-economico in cui si inseriscono in termini marginali, i delitti economici, al contrario, sono in maniera peculiare ideologicamente condizionati per quanto attiene alla loro individuazione e alla relativa disciplina penale. E ciò in particolare quando si tratta di comportamenti che in sé considerati possono essere definiti come condotte neutre, la illiceità delle quali cioè deriva esclusivamente da scelte politico-criminali, legate <<a contingenti pressioni congiunturali>>[85], a particolari situazioni storico-economiche del sistema socio-economico in cui queste condotte si inseriscono.

Da ciò deriva l’originalità dell’illecito economico, la quale non consente una sua comprensione secondo i criteri generali e comuni agli altri settori del diritto penale, ma anche la sua artificiosità. Il delitto economico viene infatti definito “delitto artificiale”[86], cioè di pura creazione legislativa, in quanto il connotato di illiceità che lo contraddistingue trova origine esclusiva nella norma incriminatrice. Ciò <<ha contribuito storicamente a far considerare i reati economici per lo più …. “peccati veniali”>>[87] e, sul fronte del riconoscimento dell’interesse da tali reati tutelato, a una difficile fondazione <<materiale del bene giuridico. Essa infatti si spunta contro la politicità di modelli economici che sono il precipitato di scelte e indirizzi del legislatore positivo, storicamente e ideologicamente condizionati>>[88].

Non solo, ma la particolarità della criminalità economica emerge anche dal fatto che essa sembra essere caratterizzata di una sorta di ubiquità, in quanto percorre traversalmente i diversi settori della vita sociale, risultando così molto più diffusa della delinquenza comune[89]. Una spiegazione di ciò è stata rintracciata nel fatto che nei confronti del crimine economico non opererebbero i normali processi motivazionali di natura preventiva sollecitati dalla minaccia, irrogazione e esecuzione della pena. In particolare non opererebbe l’effetto preventivo che fa leva sull’interiorizzazione degli standards morali, attivati con il processo di apprendimento attraverso l’educazione. La moderna criminalità economica sembrerebbe sottrarsi a tutto ciò, mentre la natura particolarmente tecnica di molti crimini economici e la difficoltà di percepire e individuare in termini immediati il danno da essi derivato comportano norme repressive a loro volta complesse e tali da non poter essere apprese facilmente e quindi interiorizzate[90]. Sul piano dell’effettività delle norme tale mancata interiorizzazione, <<unita all’anonimato delle vittime e alla lesione solo mediata dei beni - determina l’inoperatività delle strutture di controllo informale, così privilegiando l’utilizzazione dello strumento sanzionatorio proprio al fine di creare un efficace deterrente verso chi, disponendosi all’illecito>>, si trova a non dover <<superare controspinte di tipo etico o sociale>>[91].

Sul fronte legislativo tutto ciò favorirebbe la natura simbolica della legislazione penale economica[92]

Quanto poi alle caratteristiche delle offese, nel diritto penale economico esse sarebbero del tutto peculiari e per lo più rappresentate dalla lesività seriale delle aggressioni e dall’indeterminatezza dei soggetti esposti. A tale proposito si definisce molto spesso il reato economico come reato senza vittima[93]. Emerge dunque nel settore penale economico un concetto di dannosità sociale del tutto peculiare, in ragione del bene giuridico di particolare natura sovraindividuale e del fatto che per lo più si tratta di una lesione verso vittime anonime. Ciò comporta una carenza di legittimazione e di effettività dei precetti in materia economica, rispetto ai quali il consenso sociale fatica ad affermarsi e a diffondersi, sia per la difficoltà di comprensione della materia, sia per la diffusa e a volte inconsapevole complicità che si instaura fra autore del white collar crime  e comunità.

    Da quanto appena illustrato emerge come il delitto economico si presenti come un delitto con caratteristiche del tutto originali: di pura creazione legislativa, di dannosità sociale difficilmente percepibile e individuabile in via diretta e immediata, di natura particolarmente tecnica, descritto cioè da norme chiamate a disciplinare e controllare complessi meccanismi economici, per la comprensione delle quali occorrono particolari conoscenze che sfuggono al cittadino comune[94].

     Stando così le cose, è fondato ipotizzare che ciò che quest’ultimo sa del delitto economico lo apprende dai mezzi di comunicazione di massa e che questi rappresentano in maniera peculiare la principale se non esclusiva fonte di informazioni. Diventa dunque importante verificare quale sia l’immagine che i mass media offrono al cittadino comune del delitto economico, in considerazione anche della loro natura di fonte esclusiva delle informazioni[95].

La funzione attribuita ai mass media di “cane da guardia” a difesa della correttezza dei comportamenti in questi ultimi anni sembra accentuarsi proprio con riferimento a quelli economici. A tale proposito basti richiamare la recente vicenda americana sulle frodi finanziarie della Enron o in Italia tangentopoli  e la risonanza che esse hanno avuto nei mass media.

Rispetto a vicende di tal genere la denuncia mediatica appare svolgere un ruolo insostituibile nell’opera di formazione dell’opinione pubblica, altrimenti incapace di decifrare la illiceità di comportamenti economici, mala quia prohibita e di scarsa visibilità sociale. Si tratta infatti di illeciti, rispetto ai quali <<il più delle volte i consociati stentano ad identificarsi con la vittima del reato e che, ancor prima, non è né frequente né diffuso il riconoscimento sociale delle norme comportamentali violate ed oggetto delle tutela>>[96] . Non solo. Può spesso verificarsi che i consociati <<non si identifichino con la vittima del reato, (ma) si identifichino piuttosto con l’autore della violazione>>[97].

Questo potrebbe aiutare a capire i risultati a cui è approdata la ricerca empirica sulle valutazioni dell’opinione pubblica circa la severità delle sentenze penali. Ebbene dalle ricerche sarebbe emerso che, mentre con riferimento alla delinquenza comune tali sentenze verrebbero giudicate non abbastanza severe, lo sarebbero troppo invece a riguardo dei reati economici. Il cittadino comune insomma sembra essere tollerante nei confronti dei crimini dei colletti bianchi e, al contrario, più punitivo dei giudici per gli altri reati. Da ciò si deduce che il cittadino comune non riconosce alla criminalità economica la stessa gravità, che invece emerge dalle sentenze[98]     

 Ancora più rilevante appare allora il ruolo della comunicazione massmediatica nelle ipotesi in cui dai comportamenti economici penalmente illeciti possono essere derivati gravi danni alle persone. In questi casi infatti è soprattutto attraverso l’opera di informazione dei mezzi di comunicazione di massa che viene superata la scarsissima visibilità sociale della delinquenza economica rispetto a quella comune persino da parte delle stesse vittime, e la mancanza di identificazione  della collettività nel paradigma della vittima. Grazie alla stampa e alla televisione il cittadino comune può apprendere che la morte delle persone non è accidentale, ma collegata a gravi violazioni della legislazione a tutela della salute dei lavoratori, a tutela dei consumatori, dell’ambiente e del territorio contro condotte rispettivamente di violazione di norme antinfortunistiche, in materia di produzione di massa, di prodotti difettosi ovvero di norme antinquinamento. Ma se i mezzi di informazione nel descrivere queste morti, usano un linguaggio neutro, evitando ad esempio l’uso della parola omicidio, come evento derivante da colpevoli comportamenti di violazione di specifiche regole tecniche di condotta, imputabili a soggetti determinati, quelle morti rimarranno per l’opinione pubblica morti accidentali.

E’ quanto sembra essersi verificato almeno fino a qualche anno fa: un generale disinteresse dei mezzi di informazione per i reati economici, societari, dei colletti bianchi, se non sporadicamente  per truffe e frodi finanziarie (c.d. reati non violenti). Dunque un’ingiustificata ipotrattazione dei reati economici[99], e, quando vengono riportati, una difficoltà a trattare e a definire in  termini di omicidio i casi in cui ai comportamenti societari sarebbero da ricondurre eventi mortali fra i dipendenti o fra le persone estranee[100]. Non solo, ma anche quando il caso è ormai divenuto ufficialmente un crimine, i giornali sembrano restii a trattarlo e a pubblicizzare le condanne penali da esso derivanti[101]; e comunque, anziché sulle questioni relative al ruolo e alla responsabilità della società l’attenzione dei media sembra piuttosto focalizzarsi sugli atti dei singoli soggetti, secondo una tendenza alla “normalizzazione” del fatto, alla sua omologazione secondo gli stereotipi imperanti circa il crimine e il reo[102].

Ai mass media si rimprovera allora di non affrontare le questioni relative ai comportamenti di violazione del diritto societario o dell’impresa come comportamenti negligenti e dunque colposi, di non rappresentare in termini sufficientemente adeguati la gravità dei danni prodotti dalle violazioni economiche e soprattutto ambientali, ma anche di non prestare sufficiente attenzione alle situazioni in cui il danno pur non attuale rappresenta una seria e grave minaccia. In altre parole, la semplice paura di un possibile futuro danno, derivante da violazioni economico-ambientali non sarebbe una notizia che vale la pena di riportare, in quanto ciò non rispecchia l’immagine che il pubblico ha del crimine[103]. Diversamente invece con riferimento ad altre tipologie criminali, come ad esempio gli atti di terrorismo, rispetto ai quali i mass media svolgono una funzione di rilievo, anche quella di fomentare e di mantenere viva nel pubblico la paura suscitata dalla minaccia di essi e dei danni ad essi correlati[104].

In breve, quando si tratta di reati economici, i mass media tenderebbero a ridimensionare l’aspetto criminale, come ad esempio è emerso con riferimento a disastri ambientali[105] ovvero a non definire le morti come omicidi o a non accennare al fatto che gli imprenditori o le società e gli amministratori delle società potrebbero essere considerati colpevoli[106]. In particolare, per quanto riguarda questi ultimi, il delinquente economico difficilmente verrebbe descritto in termini negativi, emarginanti (si pensi invece al tossicodipendente, al recidivo, al trasgressore di regole familiari), ma piuttosto si privilegia  il riferimento alla sua professione, cosa che offrirebbe un’immagine rassicurante. Si descrive così un individuo che occupa una posizione sociale di rilievo; e più essa è elevata, meno il colpevole o l’imputato viene denigrato.

Nello stesso tempo, si tenderebbe a mettere in primo piano particolari motivazioni del reato che favoriscono nel pubblico sentimenti di comprensione, di indulgenza, e di tolleranza.

La delinquenza economica finirebbe così nell’immagine filtrata dai mezzi di informazione per apparire non tanto disfunzionale al sistema economico quanto piuttosto una componente del sistema stesso tipico di una società di classe. Conseguentemente lo stereotipo del criminale dal “colletto bianco” offerta dai mezzi di comunicazione favorirebbe un’immagine rassicurante e non pericolosa di esso[107], confermando così lo stereotipo che l’opinione pubblica ha del crimine, al quale non sarebbe dunque da ricondurre l’illecito economico, che non varrebbe allora la pena di trattare[108].   

Ai media si rimprovera tuttavia anche un ruolo essenzialmente reattivo, come di chi si limita troppo spesso a riportare doverosamente gli eventi, ma senza uno sforzo di approfondimento delle questioni, salvo assumere un ruolo proattivo nell’individuare la responsabilità per violazioni alle normative in tema di sicurezza quando siano coinvolti personaggi politici[109].

Ma è soprattutto con riferimento alle conseguenze delle violazione economiche, che si rimprovera alla comunicazione mediatica un ruolo reattivo, di essere stata cioè restia a criminalizzare le conseguenze di certe violazioni economiche, anche nel caso in cui da esse fosse derivata la morte o gravi lesioni alle persone. Il rimprovero appare ancora più fondato se si tiene conto che nell’opinione pubblica la consapevolezza del disvalore sociale del reato, in particolare di quello economico, dipende in larga misura dal fatto che da esso siano derivati dei danni non tanto economici quanto fisici ai singoli individui. Dal danno fisico derivante dal delitto economico dipenderebbe in larga misura il giudizio di gravità del fatto da parte della collettività[110] e dunque dal fatto che il comportamento della società, dell’industria, dell’impresa venga rappresentato come comportamento colpevole e penalmente illecito e dal fatto che il danno venga personalizzato attraverso l’individuazione di persone “in carne e ossa”. Grazie alla “personalizzazione del danno” queste persone da semplici lavoratori, consumatori, abitanti diventano per la collettività vittime di un reato, nel quale la collettività stessa si può infine identificare e il fatto diventa un crimine anche nella percezione sociale[111].

Queste osservazioni troverebbero conferma in alcune ricerche empiriche sul modo in cui i mezzi di comunicazione hanno trattato alcune tipologie di reati ambientali, in particolare di inquinamento. Non solo tali ricerche confermerebbero la ipotrattazione dei reati ambientali, ma anche che i mass media, e in particolare la stampa, tenderebbero a definirli come incidenti inevitabili derivanti dal livello tecnologico raggiunto più che come crimini.[112].

Ma forse qualcosa sta cambiando almeno in Italia, se alcune vicende di infrazioni economiche hanno avuto una notevole eco nei mezzi di informazione[113], se con riferimento a condotte fraudolente di speculazione miranti alla alterazione dei prezzi delle merci o delle quotazioni di borsa, fatti che la legge penale qualifica come reato di aggiotaggio, la stampa non ha esitato ad usare termini come <<banche strozzine>>, <<miscele selvagge>>, <<calciatori miliardari>>[114]; se sentenze di assoluzione di dirigenti di importanti società dal reato di omicidio colposo, a torto o a ragione sono state duramente criticate dai mezzi di informazione; se, infine, condotte di corruzione privata, reato recentemente introdotto dalla legge di modifica dei reati societari dell’11 aprile 2002, hanno trovato pubblicizzazione negativa nella stampa[115], che ha dunque svolto una significativa funzione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica circa la illiceità e la dannosità di certe condotte[116]. Rispetto ad esse da ricerche empiriche di questi ultimi anni condotte in Italia[117], emergerebbe una <<nuova e diffusa consapevolezza della gravità di comportamenti un tempo sottovalutati o addirittura ignorati: ci riferiamo in primo luogo ai reati ambientali>>, anche se, in generale, nei confronti dei c.d. reati senza vittima sarebbe emerso un atteggiamento <<più sfumato>>.

Sarebbe tuttavia affrettato concludere che la criminalità economica è oramai al centro dell’interesse dei mass media. Al centro dell’interesse è piuttosto un certo tipo di delinquenza economica, quella che fa notizia, che si può diffondere nelle forme del sensazionalismo. Tale conclusione troverebbe conferma nei dati raccolti dalla ricerca criminologia, già richiamata nella presente indagine, secondo la quale la categoria della criminalità economica rimane comunque ancora <<non molto rappresentata>>[118]. Peraltro, costituendo una categoria particolarmente influenzata dalla ideologia politica più o meno espressa del giornale o del telegiornale, su di essa sarebbero da evitare eccessive generalizzazioni. A tale proposito i ricercatori osservano che dalla politica editoriale delle testate dipenderebbe in larga misura il tipo di dati riportati, in particolare per quanto attiene agli indici di gravità, molto bassi (alta giustificazione) in alcune testate televisive a differenza da altre, ove invece gli indici sono elevati[119]

Per quanto riguarda più specificamente la criminalità economico-ambientale dalla ricerca criminologica emerge la conferma che tale tipo di criminalità è rappresentata allorché fa clamore, in ragione cioè della rilevante dannosità dei fatti, <<che appare l’unica circostanza idonea a far assurgere tali fatti a notizie di cronaca>>[120]

Vale la pena riprendere, a conclusione dell’esame, le stesse parole della relazione dei criminologi sui risultati ai quali è approdata la ricerca in tema di reati economici, risultati che sembrano confermare in parte quanto già emerso dagli studi precedenti:

<<Vi sono (altre) categorie che invece sembrano influenzate dalla ideologia più o meno espressa del giornale o del telegiornale.

Tra queste figurano sicuramente la criminalità economica  e la criminalità politico-amministrativa>>. In particolare il dato della criminalità economica sembrerebbe influenzato da specifiche ragioni così individuate: <<a)nella minor spettacolarità di tali notizie rispetto a quelle di cronaca (il TG5 è spesso indicato come notiziario fin troppo incentrato su fatti di cronaca);

b)nella volontà di non enfatizzare troppo la criminalità della classe dirigente o, comunque, dei ceti abbienti per attirare l’attenzione e la “paura” (v. fear of crime) sulla criminalità dei poveri, dei disadattati, degli extracomunitari (i dati del TG4 avallerebbero tale ipotesi: bassi valori per criminalità economica e politico-amministrativa e alti valori per la criminalità dello straniero, la prostituzione e la schiavitù).

In ogni caso, nonostante il dato del TG4, la criminalità economica nella media degli indici di gravità nelle testate televisive rimane altissima (-81,3%), il che conferma che quello del TG4 è un caso isolato>>[121].

   
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5. Da quanto fin qui esposto, ma anche da quanto finora è emerso dalle precedenti relazioni, nessun dubbio dovrebbe residuare circa il fatto che i mezzi di informazione e in particolare la televisione (v. rapporto Censis 2001), incarnano nella società attuale un ruolo di primo piano con riguardo alla giustizia penale, di cui costituiscono la principale fonte di informazione per il cittadino comune.

Alla luce della analisi svolta fin qui, la consapevolezza di ciò dovrebbe spingere verso una rivoluzione paradigmatica della prassi massmediatica: dal paradigma della paura, del sensazionalismo a quello della verità, della conoscenza. Ciascuno degli ambiti di conoscenza secondo i quali si è sviluppata complessivamente la ricerca dovrà a questo punto chiedersi che cosa questo obbiettivo significhi nei rispettivi campi di competenza.

Per quanto concerne il diritto penale possiamo richiamare solo alcune delle numerose osservazioni che si potrebbero svolgere sulla prevenzione, in particolare sulla prevenzione generale, quale funzione ineliminabile e fondamentale della pena nell’attuale sistema penale.

Un sistema orientato alla prevenzione dei reati quale quello di ogni ordinamento moderno non può infatti non tenere conto della percezione che di esso hanno i consociati. L’effetto di prevenzione dei reati, come inizialmente abbiamo già sottolineato, dipende in larga misura dall’atteggiamento di convergenza ovvero di divergenza che i cittadini sviluppano nei confronti del primo. Basti a tale proposito ricordare quello che è ormai patrimonio comune della scienza penale: la consapevolezza che l’effetto generalpreventivo della norma penale si realizza non solo e non tanto con l’intimidazione attraverso la minaccia di pena ma anche e soprattutto grazie all’ effetto motivante che alla legge penale deriva in quanto manifestazione della riprovazione sociale del fatto vietato. Ma perché ciò si realizzi occorre che la legge svolga un’azione di supporto e rinforzo delle norme sociali, come già da tempo ha evidenziato la dottrina[122]. Solo in questi termini il sistema penale può avere un impatto di prevenzione generale sui consociati. Perché questi effetti “morali”  si realizzino occorre altresì una diffusa percezione di legittimità del sistema penale nel suo complesso. In proposito, vale la pena richiamare le parole di uno dei maggiori studiosi della materia, Andenaes, secondo il quale la <<legge e i suoi meccanismi di applicazione esercitano un’influenza morale solo se percepiti come espressione di legittima autorità>>[123]. Un altro fattore, peraltro, appare contribuire al rispetto della legge: la fiducia nei confronti del sistema punitivo e della sua integrità morale, come ho già messo in  evidenza all’inizio di questa relazione.

Infine in un ordinamento penale quale quello attuale, che si va sempre più arricchendo di reati c.d. artificiali ovvero di pura creazione legislativa, perché non sembrano tutelare valori autoevidenti, come in settori particolarmente tecnici, quale quello economico-finanziario, societario, tributario ecc., il presupposto basilare di efficacia preventiva della norma è l’effettiva conoscenza di essa da parte dei destinatari. <<L’effetto motivante  della legge penale non  dipende dalla realtà obiettiva della sua esistenza e della sua applicazione, ma dalla percezione che il destinatario ha di essa>>, secondo le parole ancora di Andeneas[124]. Ma anche l’attitudine punitiva dei cittadini dipenderebbe in larga misura dal grado di conoscenza che essi hanno del sistema penale. Come risulta da una recente ricerca empirica, più la popolazione è informata su tale sistema, meno sembra orientata alla punizione[125]. Qui diventa evidente la capacità di influenza della comunicazione sociale e dei suoi strumenti privilegiati, che sono i mass media. Ogni volta perciò che un certo tipo di criminalità risulta sovratrattata o sottotrattata, come abbiamo potuto vedere in precedenza a riguardo di reati suscettibili di particolare risonanza sociale, non potrà dirsi che i mass media abbiano assolto una funzione comunicativa adeguata.

Ancora, la comunicazione massmediatica del crimine dovrebbe operare a favore della fiducia verso il sistema della giustizia penale, facendosi collettore di consensi, anziché, come ampiamente è risultato dall’indagine, trasmettere immagini distorte del crimine quanto a diffusione e a gravità, immagini che generano allarme sociale e senso di insicurezza nei cittadini, i quali invocano interventi penali sempre più repressivi e orientati alla pura retribuzione o al contrario non si rendono conto del disvalore sociale di certi reati.      

Occorre altresì evitare che anche attraverso il contributo dei mezzi di comunicazioni il diritto penale in balia dell’opinione pubblica invece di ispirarsi al criterio prasseologico dell’efficienza, resti vittima di quello poveramente ideologico della pubblica opinione. Quest’ultima finisce con il prendere parte al governo della giustizia penale in una prospettiva esclusivamente e irrazionalmente punitiva.

Una comunicazione sociale di tale fatta non opera nemmeno in favore della c. d. prevenzione speciale nel senso della risocializzazione dell’autore del reato.

Come abbiamo visto, l’informazione di massa troppo spesso tende ad oscurare l’autore, la vittima e le cause del reato, privilegiando la descrizione del fatto nelle sue componenti di sensazionalismo. Non interessano le cause del reato, ma l’attività degli apparati di investigazione; non interessano le vittime e gli autori, i quali perdono la loro identità e individualità, per essere inglobati in rappresentazioni fattuali, prive di unicità, di originalità, in quanto descritte secondo stereotipi comuni al genere di reato al quale vanno ascritte. Così la violenza sessuale assume nelle descrizioni giornalistiche o televisive i caratteri tradizionali dello stupro; i reati economici quello dell’affare, invece che del malaffare. 

Ma del reato occorre parlare: il problema è del modo in cui di esso i mezzi di comunicazione parlano. Così se da una parte occorre evitare il rischio di un’eccessiva enfatizzazione del crimine, dall’altra occorre evitare il rischio di una “normalizzazione” di esso, come componente usuale della vita quotidiana, che svuota il crimine di senso, nel linguaggio degli studiosi di scienze della comunicazione, del grave significato di disvalore sociale, nel linguaggio dei penalisti.

I mezzi di informazione di massa possono invece svolgere un’opera importante e insostituibile di informazione e formazione della coscienza collettiva in tema di criminalità, aiutando a cancellare dall’immaginario collettivo false convinzioni e credenze, stereotipi tradizionali, come quelli che ancora caratterizzano tipologie delittuose esaminate: la violenza sessuale, lo stupro su appuntamento, gli abusi sessuali su minori[126], un certo tipo di criminalità economica. Possono dunque contribuire ad offrire un’immagine corretta non solo della criminalità degli adulti[127] ma soprattutto di quella minorile[128].  

Perché ciò si realizzi occorre passare dalla logica del profitto, legata a ciò che fa notizia, a quella dell’educazione, dell’informazione. Anche se le buone notizie non fanno notizia[129], occorre credere nella funzione propositiva che i mass media, soprattutto la televisione, possono svolgere come strumento di formazione delle idee e di accrescimento culturale piuttosto che nella funzione di appiattimento dello spirito critico e di livellamento culturale, come invece sembrerebbero ancora opinare in via prevalente i giornalisti, secondo il rapporto Censis, richiamato nella presentazione delle ricerche. 

Queste sfide vale la pena di giocare nella società attuale, società massmediatica ma anche informatica, nella quale la malinformazione diventa forse più pericolosa della disinformazione non solo per la giustizia, ma anche per la democrazia[130].  

   
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*Testo aggiornato della Relazione presentata al Convegno Internazionale su “La rappresentazione televisiva del crimine”, svoltosi a Milano presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, il 15 e 16 maggio 2003, i cui atti sono in corso di pubblicazione.

[1] Con il rischio di allestire  norme sprovviste di un reale contenuto offensivo

[2] Evidenzia i tre profili del consenso sociale, ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, in  Jus 1985, 413 ss e cioè del consenso sociale <<nella creazione e nella attuazione delle condizioni di validità e di efficacia delle norme giuridiche>>, profilo sostanziale; del consenso sociale <<con riferimento alla struttura dialogico-comunicativa del processo, quale vicenda pubblica giudice-accusa-imputato il cui esito ultimo – la decisione di condanna o di proscioglimento – condiziona la comprensione sociale dell’attività giudiziaria e ne è verosimilmente a sua volta condizionata>>, profilo processuale e, infine, del consenso sociale con riferimento alla esecuzione della pena e alla sua evoluzione e con riferimento ai processi di selezione nel perseguimento dei reati

[3] D. M., WHITE, The Gatekeeeper: A case study in the selection of news, in Journalism Quarterly, 1950, 383 ss.

[4] Mentre è solo con la fiducia e con il conseguente consenso sociale che le norme penali non solo sopravvivono ma risultano conformi allo scopo di tutela per il quale sono state emanate. In proposito osserva ROMANO, Legislazione penale, cit., p. 421: <<Alle particolari garanzie formali costituzionali dei diritti fondamentali del singolo e della procedimentazione della creazione delle leggi penali si aggiunge dunque il vincolo materiale per il legislatore della necessità del previo riscontro dell’accettazione sociale del suo intervento>>. Anche se, precisa l’A, non è ancora detto che con il consenso sociale sia lecita qualsiasi norma penale. Tuttavia <<senza il consenso non ne è lecita alcuna>>, in quanto un consenso sociale <<è presupposto irrinunciabile di ogni norma di incriminazione>>.

[5] PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in questa Rivista, 1990, p. 531 anche per la distinzione fra sicurezza collettiva interna in senso stretto, o obbiettiva e sicurezza collettiva interna in senso lato o soggettiva di cui nel testo. Quest’ultima  concepita <<come bene sociale  e propedeutico per ‘quel benessere dei consociati’ perseguito – con altri strumenti pubblicistici d’intervento – dallo Stato sociale di diritto>>.   Cfr. anche VAN SWAANINGEN, Quale politica per una città sicura, in Dei delitti e delle pene, 1998, p. 167: <<La criminalità viene utilizzata come etichetta per coprire situazioni di ansietà, insoddisfazione ed irritazione abbastanza generalizzate>>; MUSCO, Consenso e legislazione penale,  in questa Rivista, 1993, p. 87

[6] <<La legislazione simbolica non si preoccupa di orientare effettivamente il comportamento dei consociati, bensì tende a far sorgere l’impressione di aver messo in qualche maniera il problema sotto controllo>> (MUSCO, Consenso, cit., p. 87). V. anche ROMANO, Legislazione penale, cit., p. 422 ss.: <<Quando si prenda in esame la legislazione penale degli ultimi anni e si cerchi di farne emergere le connessioni essenziali con il consenso sociale, si è in grado di constatare che il difetto di consenso non è l’unico rischio cui si va incontro. Non sempre, infatti, il consenso si forma o si esprime in termini conformi a razionalità ....: vi è dunque anche il pericolo, a sua volta considerevole, per così dire di un eccesso di consenso, o meglio di un assecondamento eccessivo, da parte del legislatore, delle richieste di penalizzazione che si manifestano nella società>>. In proposito v, da ultimo, anche PAVARINI, Le attuali tendenze della penalità: residualità del carcere e pene alternative di fronte alla competenza penale del giudice di pace, in PICOTTI, SPANGHER (a cura di), Competenza penale del giudice di pace e “nuove” pene non detentive. Effettività e mitezza della sua giurisdizione, Milano, 2003, p. 48 ss.

[7] MUSCO, Consenso, cit., p. 88: <<Questo consenso diffuso dimostra allora che c’è un forte canale di comunicazione tra il sempre crescente bisogno di sicurezza (collettivo e individuale) ed il panpenalismo imperante>>. Ma osserva giustamente l’A: <<Che, però, in questo modo i conti, alla fine, tornino è alquanto dubbio: a ben vedere si illude chi crede che un consenso, anche diffuso, che trova la sua genesi in un bisogno di sicurezza e che si radica essenzialmente sul terreno friabile e movimentato dell’irrazionalità, rappresenti la via privilegiata da seguire per il controllo dei fenomeni definiti criminali>> 

[8] Così PALIERO, Il principio, cit., p. 506. V. anche FEELEY, Le origini e le conseguenze del panico morale: Gli effetti sulle Corti americane delle leggi “tre volte e sei eliminato”, in questa Rivista, 2000, p. 419 s., circa il  ruolo di pressione sulle Corti americane per trattamenti più severi esercitato da gruppi di interesse attraverso campagne per una politica di inasprimento, realizzate grazie agli organi di informazione. Sulla manipolazione delle informazioni criminali ad opera dei mass media, v., fra gli altri, SCHNEIDER, La criminalité et sa représentation par les mass media, in Revue Internationale de Criminologie et de Police Technique, 1985, p. 148 ss. In una prospettiva più strettamente psicologica, cfr. DE PICCOLI e altri, Stampa quotidiana e sentimento di insicurezza, in ZANI (a cura di), Sentirsi in/sicuri in città, Bologna 2003, p. 221, i quali alla luce della ricerca empirica dagli stessi condotta e della letteratura soprattutto straniera sul tema concludono che la stampa influenza <<il sentimento dell’insicurezza urbana, contribuendo pertanto, assieme ad altri fattori quali le ideologie dominanti, le opinioni condivise socialmente, le opinioni e le credenze soggettive ecc., alla costruzione della conoscenza del contesto sociale; i giornali quindi “fanno la loro parte” circa la costruzione della conoscenza della città e se la città viene percepita dai cittadini come insicura i giornali ne sono, almeno in parte, responsabili>>. Attraverso un linguaggio discorsivo e simbolico svolgerebbero la loro funzione di informare la società, ma proprio perché simbolico e discorsivo, il loro potere di influenzare il senso di insicurezza della collettività sarebbe rilevante, soprattutto se si tratta di stampa locale. Cfr. anche BARATTA, La politica criminale e il diritto penale della Costituzione. Nuove riflessioni sul modello integrato delle scienze penali, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, Torino, 1998, p. 27: <<I reati ”tradizionali” si iscrivono all’interno dello stereotipo della criminalità del “senso comune” e dominano le campagne allarmistiche su di essi. L’opinione pubblica ed i mezzi di comunicazione di massa rappresentano generalmente questi reati adottando uno schema di ripartizione dei ruoli della vittima e dell’aggressore che corrisponde largamente al rapporto fra gruppi sociali privilegiati e “rispettabili”, da una parte, e gruppi marginali e “pericolosi” dall’altra (stranieri, giovani, tossicodipendenti, poveri, senza famiglia, disoccupati o senza qualifica professionale>>     

[9] MUSCO, Consenso, cit., p.86. <<Questo fenomeno risalente alla metà degli anni settanta, è andato via via assumendo dimensioni sempre più ampie: da qui la sua accresciuta capacità di condizionamento delle scelte di politica criminale da effettuare o già effettuate nelle sedi istituzionali; da qui anche l’attitudine ad orientare, e a volte pesantemente, il giudizio dell’opinione pubblica ed eventualmente a manipolarlo>>.

[10] MUSCO, Consenso, cit., p. 85. In questa prospettiva espansionistica <<lo strumento penale tende a caricarsi o a sovraccaricarsi di accentuate funzioni (direi) di moralizzazione pubblica, di pedagogia collettiva, e financo di palingenesi politica..... Queste supposte valenze dell’intervento penale sono, in non piccola misura, enfatizzate, amplificate e talora distorte dalle rappresentazioni massmediali, le quali contribuiscono tra l’altro a legittimare, o rischiano di legittimare quanto meno sul piano sociologico, ben conosciute storture nel concreto funzionamento della macchina giudiziaria>> (FIANDACA, Il sistema penale fra utopia e disincanto, in CANESTRARI , (a cura di), Il diritto penale, cit., p. 51 s).

[11] Mentre è proprio la vittima  che <<in una percentuale elevatissima di ipotesi ‘dispone’ di fatto del sistema penale, semplicemente attivandolo o non attivandolo a sua ‘discrezione’>> (PALIERO, Il principio di effettività, cit., p. 507 ss, al quale si rinvia per un’analisi più approfondita).

[12] In particolare per quanto riguarda l’agenzia penale rappresentata dai corpi di polizia si è evidenziato come essa possa operare in maniera differenziata a seconda che segua il paradigma reattivo ovvero quello proattivo. Nel primo caso il risultato dipenderà in larga misura dalla propensione della vittima alla denuncia, nel secondo sarà invece determinato esclusivamente <<dai criteri di impiego del potere di definizione della criminalità ... nonché di allocazione delle risorse (uomini e mezzi) da parte della polizia stessa>> (PALIERO, Il principio di effettività, cit., p. 525 s).

[13] PALIERO, Il principio di effettività, cit., 508. Rileva che nel presente momento storico <<il vincolo del giudice alla legge penale è sottoposto anch’esso a mediazioni interpretative, e che queste mediazioni sono di volta in volta condizionate dal “contesto”: contesto costituito – a sua volta - ...... dalle mode culturali generali e – infine, ma non per importanza – dalle contingenti logiche di funzionamento del circuito mediatico>>, FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in questa Rivista, 2001, p. 374 s. 

[14] Se gli apparati istituzionali non possono infatti controllare come le notizie sui reati vengono presentate, essi possono tuttavia controllare che cosa dell’informazione criminale rendere accessibile alla stampa. Manca tuttavia un quadro di riferimento unitario e coerente, in quanto proprio dal sistema penale stesso vengono trasmesse logiche selettive diverse. Infatti oggi è più che mai fondata l’idea che il sistema penale in realtà non possa essere rappresentato come un sistema unitario anche se complesso, ma piuttosto come un insieme di sottosistemi non sempre fra loro coordinati e comunicanti, ciascuno dei quali governato da logiche e funzioni peculiari, comprese quelle selettive. Così accanto <<ai settori o sottosistemi di punta, che acquistano maggior visibilità esterna anche per la più accentuata interazione con il sistema politico, e per l’enfatizzazione dei mass media, continuano a vivacchiare i sottosistemi (direi) sommersi della criminalità media-bassa o bagatellare, rispetto ai quali non disponiamo peraltro di informazioni empiriche sufficienti per ricostruire un quadro descrittivo davvero affidabile delle funzioni o mancate funzioni svolte dal controllo penale>> (FIANDACA, Il sistema penale, cit., p. 52) e rispetto ai quali l’esigenza di enfatizzazione dei mass media, come vedremo, espone ancora di più al rischio di una incontrollata distorsione della realtà.

[15] Così PALIERO, Il principio, cit., p. 541 s.

[16] <<D’altra parte, è difficile dubitare dell’opportunità, anzi della necessità di evitare un conflitto tra la legalità di un tipo di normazione, di un assetto giuridico regolativo di interessi e  le concezioni e le rappresentazioni di valore presenti in una data società in un determinato momento storico>> (MUSCO, Consenso, cit., p. 81). Sottolinea giustamente come lo sviluppo fondamentale del ruolo del consenso sociale vada di pari passo con il processo di secolarizzazione, che dal XIII secolo segna la nascita e la crescita del diritto penale moderno, ROMANO, Legislazione penale, cit., p. 415, il quale precisa che <<a questo fattore, squisitamente culturale, con esso intrecciato e in certa misura da esso dipendente, si aggiunge poi un processo di natura più politica: l’avvento del pensiero liberale e la sua evoluzione nelle forme politico-istituzionali delle democrazie partecipative portano ad una emersione sempre più evidente del consenso sociale. Dietro il diritto penale appare ora, quale suo presupposto, una teoria dello Stato. Il diritto penale è una parte dell’ordinamento giuridico statuale; i consociati non sono più soltanto meri spettatori, passivi destinatari di norme criminali pensate e introdotte da altri, ma ne sono anche in qualche modo gli artefici: per dirla con una formula che riecheggia il linguaggio della nostra Costituzione, il popolo, cui appartiene la sovranità, diviene anche il responsabile del suo diritto penale>>. 

[17] E’ il consenso sociale manipolato, suscitato dal sempre più crescente bisogno di sicurezza e ricercato <<per via politica con tutti i mezzi delle moderne scienze della comunicazione mediale e quindi anche con lo strumento della manipolazione più sofisticata>> (MUSCO. Consenso, cit., p. 85).

[18] GIUNTA, Quale giustificazione per la pena? Le moderne istanze della politica criminale tra crisi dei paradigmi preventivi e disincanti scientifici, in Pol. dir., 2000, p. 273.  In queste fattispecie di anticipazione della tutela, la funzione della fattispecie di pericolo <<si coglie per lo più sul versante del processo penale, dato che esse consentono alla pubblica accusa di avviare un’indagine mirata all’accertamento di supposti reati più gravi e soprattutto di emettere provvedimenti cautelari .. che possono ostacolare oggettivamente le condotte dirette alla lesione del bene giuridico>>.

[19]E’ alla nota vicenda di tangentopoli che forse si può far risalire questo dirompente ruolo della pubblica opinione, alle cui esigenze irrazionali di pena, anche al di fuori dai confini garantistici del diritto penale, sembra ormai dover rispondere le giustizia penale e in particolare la politica criminale divenuta ormai <<politica del popolo massmediale>> (MUSCO. Dedicato a Bricola, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale, cit., p. 92).

[20] PALAZZO, Riflettendo su trasformazioni e proiezioni nel diritto penale degli anni ’90, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale, cit., p. 103, il quale, tra l’altro, sottolinea che non solo sotto il profilo della funzionalità del sistema si individua <<un’effettività per così dire a macchie di leopardo>>, ma <<anche sotto il profilo del radicamento valorativo del sistema si profila il rischio di una consimile situazione a pelle di leopardo: sullo sfondo indistinto e generalizzato di questo relativismo etico – talvolta un po’ enfatizzato – possono trovare più facile accreditamento nel diritto penale quei valori, e  solamente quelli, che siano in grado di avvalersi dei più forti mezzi di penetrazione ed affermazione. Si tratti di mezzi – come dire? – materiali, costituiti ad esempio dai canali di comunicazione e condizionamento di massa, ovvero dai mezzi immateriali, costituiti dal prestigio e dalla autorevolezza morale dei loro portavoce, il risultato sostanzialmente è lo stesso. E cioè il rischio dell’attenuarsi di un civile pluralismo e, soprattutto, di una articolata e variegata tavola di valori etico-sociali, capace di neutralizzare il pericolo prima di contrapposizioni tra quelli più forti e poi di una imposizione di quelli vincenti>>.

[21] Cfr. ad esempio SURETTE (a cura di), Justice and the Media, Springfield, 1984, passim; SURETTE, Media, Crime and Criminal Justice: Images and Realities, Belmont, Cal.,1994, passim.

[22] Sembra che nel 96% dei casi la fonte di informazione sulla criminalità siano esclusivamente i mass media, cfr. GEBOTYS e altri, News Media Use and Public Perceptions of Crime Seriousness, in Canadian J. Criminology, 1988, 30, p. 3 ss. Il monopolio diventa quasi assoluto a favore della stampa locale per quanto riguarda poi il crime a livello locale, così DITTON, DUFFY, Bias in Newspaper Crime Reports:Selective and Distorted Reporting of Crime News in Six Scottish Newspaper during March 1981, Glasgow, 1982, p. 2 ss. Per una sintesi di tale ricerca v. degli stessi, Bias in the Newspaper Reporting of Crime News, in  British J. Criminology, 1983, p. 159 ss, ai quali si rinvia per la bibliografia meno recente.

[23] Ad esempio, GEBOTYS e altri, News Media Use, cit, p. 4, riporta come da studi precedenti emerga che i crimini violenti, oggetto principale dell’attenzione dei mass media, rappresentino il 50% delle notizie sui reati, nonostante nelle statistiche ufficiali sull’andamento della criminalità essi rappresentino solo il 6%. Sulla capacità dei mass media di offrire modelli deformati di interpretazione della realtà, in particolare criminale, cfr., fra gli altri, ERICSON, Mass Media, Crime, Law, and Justice. An Istitutional, Approach, in British J. Criminology, 1991, p. 219 ss, il quale precisa peraltro che comunque sarebbe un’interpretazione riduttiva considerare i mass media uno strumento in grado di costruire unilateralmente la realtà del cittadino, secondo il c.d. modello centrato sugli effetti ovvero quello dell’ideologia dominante,. Occorrerebbe invece assumere una prospettiva istituzionale secondo la quale i mass media non sono in grado di far nascere dal nulla comportamenti devianti ovvero convinzioni o credenze (paradigma degli effetti), ovvero di mantenere le ideologie dominanti, rinforzandole e riproducendole (paradigma dell’ideologia dominante, in funzione conservativa). In realtà il rapporto mass media cittadino, come noto, andrebbe studiato secondo un modello interrelazionale, nel senso che i primo offrono al secondo schemi di lettura e interpretazione della realtà, che si vanno a comporre con quelli già propri del soggetto. Conseguentemente i mezzi di informazione possono solo sollecitare lo svilupparsi di attitudini nel soggetto. Sui modelli di interazione fra rappresentazione massmediale del crimine e individuo fruitore di essa, v. da ultimo KANIA, TV Crime Reports and the Construction of Subjective Realities, Relazione presentata al Convegno Internazionale “La rappresentazione televisiva del crimine”, cit., in corso di pubblicazione.

[24] GUNZ, Kriminalberichterstattung in   unseren Tageszeitungen Vergeltung oder Vorbeugung?, Linz, 1980,  p. 3. Nello stesso senso, v. SCHNEIDER, La criminalité, cit., p. 152 ss, il quale rileva che le infrazione al codice della strada e quelle economiche, che nella realtà superano gli atti di violenza, ricevono dai mezzi di comunicazione un’attenzione minima. Cfr. anche SURETTE, Media, Crime, cit., p. 63, la quale ricorda come da studi precedenti emerga in termini costanti che reati come l’omicidio e la rapina  rappresentano il 47%  delle notizie sui crimini nella stampa e l’80% di quelle in televisione. Mentre  da altri studi emerge come in particolare l’omicidio rappresenti solo  lo 0,2% dei reati noti alla polizia e il 26,2% di quelli oggetto di notizia e al contrario i crimini non violenti costituiscono il 47% dei reati noti alla polizia ma solo il 4% di quelli riportati dai mass media. Concordi sono poi le ricerche circa la poca attenzione dei mass media  per certi tipi di criminalità, comportamento di sottorappresentazione da considerare dannoso quanto la sovrarappresentazione. In particolare i c.d. corporate crime, classici delitti economici, sarebbero raramente oggetto di notizia., 

[25] Tuttavia i reati di droga, di prostituzione e di gioco d’azzardo sembrerebbero ricevere maggiore attenzione da parte della stampa rispetto ai reati contro il patrimonio, così CHERMAK, Predicting Crime Story Saliance: the Effects of Crime, Victim, and Defendant Characteristics, in  J. Criminal Justice 1998, p. 66 s .

[26] Secondo la ricerca di DITTON, DUFFY, Bias, cit., p. 65, relativa a sei giornali scozzesi, i crimini implicanti violenza vengono ipertrattati secondo un fattore numerico di 19,4 volte  ed uno relativo alla superficie di trattazione pari a 14,3 volte. Mentre i casi giudiziari relativi a questi reati sono iper-riportati in base ad un fattore numerico pari a 36,2 volte maggiore di quanto sia giustificato dallo loro reale ricorrenza ed uno relativo alla superficie pari a 56,3 volte. Anche i reati a sfondo sessuale sarebbero secondo la ricerca scozzese iper-riportati. Mentre i casi giudiziari sarebbero iper-trattati secondo i fattori distorsivi rispettivamente del 34,3 e 40,7 volte in più. Che i reati violenti siano iper-riportati trova conferma anche nella ricerca di GUNZ, Kriminalberichterstattung , cit., p. 37 ss. relativa a 6000 rapporti sulla criminalità in 12 giornali austriaci per un periodo di tempo di 4 mesi. In più del 53% dei casi si trattava di reati violenti, nonostante tali tipi di reato rappresentassero solo il 23% della criminalità del periodo preso in considerazione, compresi anche gli incidenti stradali. Per un’iperrappresentazione dei reati violenti v., fra gli altri, anche HICKMAN BARLOW, BARLOW, CHIRICOS, Economics Conditions and Ideologies of Crime in the Media: A Content Analysis of Crime News, in Crime and Delinquency, 1995, p. 3 ss, i quali sottolineano come un incremento della trattazione dei reati in particolare violenti si registri in periodi di alta disoccupazione e di crisi economica in generale; MARSH, A Comparative Analysis of Crime Coverage in Newspapers in the United States and Other Countries from 1960-1989: a Review of the Literature, in J. Criminal Justice, 1991, p. 67 ss, il quale rileva  come la sovrarappresentazione dei crimini violenti e la sottorappresentazione dei reati contro la proprietà operate dai giornali sia comune a tutti i paesi oggetto dell’indagine comparata, indipendentemente dalle diverse limitazioni costituzionali ovvero legali concernenti la disciplina sulla stampa. Secondo SCHNEIDER, La Criminalité, cit., p. 152, maggiore attenzione da parte dei mass media riceverebbero i reati di violenza perpetrati nei confronti di sconosciuti, rispetto a quelli realizzati all’interno della famiglia fra conoscenti, amici o vicini, nonostante questi ultimi costituiscano una buona parte dei crimini violenti. Cfr. anche ERICSON, Mass Media, cit., p. 231, il quale ricorda come da ricerche relativamente recenti sia emerso che comunque meno del 20% degli spettatori televisivi intervistati menzionasse la violenza in televisione come causa di crimini recenti.

[27] La televisione sembra svolgere una maggiore influenza sul pubblico e questo per tre ragioni; primo perché è più seguita (da una ricerca canadese del 1986 risulta che il 53% delle persone intervistate vede nella televisione la fonte di informazioni sul crimine; 11% nella radio e il 31% nei giornali); in secondo luogo la televisione sarebbe più selettiva nella scelta delle notizie, proprio per ragioni di economia di tempo e dunque solo i reati più gravi o particolari verrebbero riportati e infine la comunicazione attraverso il mezzo visivo rispetto a quello scritto avrebbe un impatto più forte sulla percezione della gravità del crimine, così GEBOTYS e altri, News Media Use, cit., p. 11 ss. V. anche il Rapporto Censis 2001

[28] Così GEBOTYS, News Media Use, cit., p. 12 s.

[29] SCHNEIDER, Le Criminalité, cit., p. 152.

[30] Cfr. CHERMAK, Predicting Crime Story Saliance, cit., p. 61 ss, secondo il quale le caratteristiche relative all’autore e alla vittima ricevono poca attenzione, mentre il numero delle vittime sembra svolgere un ruolo importante per dare rilievo alla notizia. Conseguentemente, conclude l’A.,i reati senza vittima sono meno riportati e, comunque, la rilevanza ad essi riconosciuta varia a seconda del tipo di giornale e della città. Ciò conferma l’assunto che i reati a dimensione pubblica, nei quali non è individuabile una o più vittime determinate, ricevono meno attenzione da parte dei mezzi di comunicazione di massa. Questa affermazione sembrerebbe trovare una conferma indiretta nelle ultime vicende giudiziarie legate al caso Parmalat. Su tali vicende  è da registrare un particolare interesse dei massmedia , soprattutto allorché si sono “materializzate” le vittime dei reati economici attribuiti alla società. A lungo e con toni di particolare enfasi i massmedia si sono occupati allora delle vittime, i risparmiatori. Essi sono stati più volte intervistati circa le gravi conseguenze dannose  dei loro investimenti in obbligazioni della Parmalat. 

[31] Cfr. GUNZ, Kriminalberichterstattung, cit., p. 4 ss.; conf. SCHNEIDER, La Criminalité, cit., p. 152, il quale sottolinea che le motivazioni al comportamento deviante non sono riportate, se non in termini superficiali e per evidenziarne la natura di vendetta o di cupidigia, mentre l’evoluzione della personalità dell’autore, la sua carriera criminale non sono rappresentate oggettivamente. Nessun interesse, anche secondo questo A., vi sarebbe poi per il processo penale e per l’esecuzione della pena, aspetti che vengono raramente riportati.

[32] V. GUNZ, Kriminalberichterstattung, cit., p. 44, nel 59% dei resoconti giornalistici analizzati veniva pubblicata l’immagine dell’autore, mentre della vittima nel 23%. Tuttavia la vittima femminile è più menzionata di quella maschile e il riferimento ad essa prevale su quello all’autore quando abbia meno di 15 anni ovvero più di 65. Lo stesso avviene quando l’autore del reato è una femmina. Inoltre più menzionate sono le vicende criminali che coinvolgono adulti maggiori di 35 anni rispetto a quelle relative a giovani adulti (così CHERMAK, Predicting Crime Story Salience, cit., p.  66). Per SCHNEIDER, La Criminalité, cit., p. 153, la vittima è vista dai mass media come una persona di cui si crede di sapere tutto, per la quale l’aggressione rappresenta un fatto improvviso. L’atto criminale, quasi sempre un fatto di grave violenza, è descritto come un episodio al di fuori di qualsiasi relazione fra autore e vittima, che di solito non si conoscono. La vittima non sembra essere persona che si espone al pericolo né che agisce in modo tale da essere un bersaglio o una preda facile per il delinquente, anzi viene vista come un soggetto passivo che non provoca assolutamente l’autore del fatto. In breve, la vittima appare come un soggetto al quale non si può rimproverare alcunché, non ha causato l’atto illecito e inoltre appare senza difesa, alla mercé del delinquente. Viene inoltre presentata in modo tale da suscitare simpatia e appartenente a un certo livello sociale. Affinché il pubblico possa simpatizzare per la vittima, la sua personalità, là dove descritta, viene delineata senza caratteristiche peculiari. Circa poi il danno da essa subito in seguito al reato, si tratta per lo più della morte. Ai mezzi di comunicazione di massa non interessano i danni di ordine sociale o psicologico, cosi ché il pubblico li ignora e riterrà che non rappresentino un problema grave. Il disinteresse dei mass media  per la vittima del reato trova conferma anche nella ricerca empirica alla base della presente indagine, cfr. La rappresentazione televisiva del crimine: la  ricerca criminologica, p. 71 datt, in corso di pubblicazione negli atti del Convegno Internazionale “La rappresentazione televisiva del crimine”, cit: <<Il dato sembra rispecchiare le stessa emarginazione che l’attenzione alla vittima ha subito perfino nell’ambito della letteratura criminologia>>.  

[33] Anzi, nessuna attenzione sembra essere riservata al contesto sociale in cui si muove l’autore del reato e in cui si realizza il crimine, mentre prevale l’interesse per la dinamica del reato, così GUNZ, Kriminalberichterstattung, cit., p. 40 s., così, ad esempio, nel 50% degli articoli esaminati non c’è alcun riferimento al lavoro del reo, né nel 58% a quello della vittima; cfr. anche HICKMAN BARLOW e altri, Economic Conditions, cit., p. 10, i quali rilevano come le descrizioni delle condizioni sociali del reo prevalgono quando questi appartiene ad una classe medio alta e ciò confermerebbe l’ipotesi che essendo la criminalità in particolare violenta ideologicamente attribuita alle classi più basse e ai disoccupati, diventa notizia il fatto che il reo non appartenga a tale classe e che svolga un’attività lavorativa. Circa le cause del reato, sempre da una ricerca della HICKMAN BARLOW e altri, Mobilizing Support for Social Control in a Declining Economy: Exploring Ideologies of Crime Within Crime News, in Crime and Delinquency, 1995, p. 191, emerge che esse sono per lo più collegate a condizioni individuali e non tanto macrosociali o macro-economiche, favorendo così le giustificazioni per un maggior controllo sociale attraverso il sistema penale. Sottolineano come i dati relativi alla rappresentazione mediatica del crimine mantengano comunque un margine di ambivalenza, GABOR, WEIMANN, La couverture du crime par la press: un portrait fidèle ou déformé, in Criminologie, 1987, p. 94 ss, i quali, sulla base di uno studio effettuato su 500 articoli di un importante quotidiano canadese, hanno trovato conferma della ipertrattazione dei crimini violenti, della poca attenzione per le cause del reato, per il lavoro investigativo e per la giustizia penale in generale, come confermano la tendenza dei mass media al sensazionalismo, alla superficialità e a dare una visione deformata della criminalità, inducendo in errore i profani  sulla vera natura della criminalità. Tuttavia hanno rilevato che nei dettagli l’identità  e i ruoli rispettivi dell’autore e della vittima erano descritti abbastanza fedelmente. E dunque, concludono gli A., non sarebbe giusto rifiutare  categoricamente, perché distorsivi, tutti i profili dei resoconti criminali attraverso i media, anche perché non sarebbe emerso in termini chiari che la stampa si occupa preferibilmente di eventi non usuali, che offre immagini distorte degli autori e delle vittime e che manifesta un atteggiamento conservativo.  

   
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[34] Dunque brevi articoli o cronache,che si riducono ad un insieme di informazioni del tutto insufficienti e distorte circa l’autore del reato, il fatto, la vittima e che ingenerano nel lettore o nel teleutente esigenze di maggior sicurezza, di maggior controllo di polizia, ma soprattutto di pene più severe nei confronti di chi commette quel genere di reati. D’altra parte sembra che nessun riferimento al controllo sociale informale, che la famiglia, la scuola, i colleghi di lavoro, gli amici dovrebbero svolgere, venga fatto dai mass media.

[35] Ancora SCHNEIDER, La Criminalité, cit., p. 153, il quale peraltro afferma che la comunicazione massmediale offrirebbe un’immagine di efficienza degli apparati della giustizia penale, capaci cioè di risolvere la maggioranza dei casi di reato e nello stesso tempo non chiarirebbe il fatto che l’apparato di controllo formale può funzionare solo se anche quello informale funziona

[36] Cfr. GUNZ, Kriminalberichterstattung, cit., p. 28 ss, il quale sulla base dell’indagine svolta giunge alla conclusione che sia legittimo il sospetto che i mass media siano più utili a mantenere i conflitti di classe che a favorire comportamenti di composizione sociale di essi, come emergerebbe dalla seguente tabella, nella quale sono evidenziate le tendenze “reazionarie” e ideologiche enucleate dagli articoli di cronaca esaminati e ordinate secondo una scala di intensità da 1 (assenza) a 7 (forte presenza):                                                                                                

                                                                                                                                                                    Valori medi

Impegno del singolo ad uscire dal proprio anonimato (menzione del nome del cronista) 3.696

Condanna, solo sulla base di supposizioni e senza verifica dei fatti 3.424

Desiderio di eliminare i perturbatori ed i dissidenti 2.974

Richiesta di disciplina ed ordine maggiori “law and order mentality” 2.727

Utilità di una comunità di persone oneste e conformiste 2.626

Richiamo al senso di appartenenza, al rispetto delle tradizioni, delle “buone maniere” 2.596

Più severi interventi nei confronti del criminale, desiderio di più forti punizioni per loro 2.415

Desiderio di maggior polizia 2.328

Psicologizzazione 2.165

Turbamento fondato sulla cresciuta insicurezza  2.161

Scaricamento della responsabilità su capri espiatori 2.111

Condanna di tutti i devianti, che non rispettano le norme 1.990

Richiesta di sottomissione alle autorità 1.841

Servilismo e sottomissione 1.623

Contrarietà ad ogni debolezza, paura 1.505

Contrarietà ai dissidenti politici 1.448

Sfiducia nel diritto 1.439

Contrarietà ad ogni irrazionalità e soggettività 1.373

Negazione del conflitto di classe 1.334

Esaltazione del convenzionale e del familiare 1.332

Contrarietà alle innovazioni nell’esecuzione della pena (detentiva) 1.320

Anticomunismo 1.183

Contrarietà al razionale ed alle scoperte scientifiche 1.120

Per un’indagine con riferimento alla rappresentazione della criminalità degli immigranti, soprattutto albanesi, nella stampa greca, v. da ultimo KONSTANTINIDOU, Social rapresentetions of Crime. The Criminality of Albanian Immigrants in Athens Press, in ALBRECHT e altri (a cura di), Images of Crime, Freiburg i. B., 2001, p. 95 ss; secondo l’A. per mezzo di esagerazioni e costruzioni stereotipate, simbolismo e drammatizzazione della stampa, gruppi come quelli degli immigrati, degli emarginati ecc sono mistificati, demonizzati. I giornali ateniesi esaminati (5 testate tra il 1991 e il 1999) rinforzano infatti l’immagine stereotipate della criminalità degli immigranti albanesi come criminalità violenta diffusa e nonostante essa rappresenti una quantità insignificante rispetto al numero complessivo dei reati, rappresenta quasi esclusivamente la tipologia di reati riportata dai giornali.  Questo genere di stampa produce panico morale, un clima di insicurezza sociale che può favorire richieste di forme di controllo del crime più autoritarie, una generalizzata repressione sociale e violazioni dei diritti fondamentali dell’individuo. Anzi, se pure lo stereotipo del delinquente albanese è prodotto e legittimato dagli apparati istituzionali di controllo sociale (polizia ecc), è proprio grazie al contributo e all’appoggio della stampa che questo stereotipo viene pubblicizzato, demonizzato e si consolida nell’immagine collettiva delle diverse categorie sociale, un ruolo questo della stampa di Atene, che, precisa l’A., la stampa stessa accetta pienamente, anche se in pari tempo pretende di rifiutarlo. Per un’indagine analoga con riferimento alla stampa italiana, relativa all’area del Salento, v. D’ELIA, The Deviance of Foreign Immigrant in the Mass Media. Research Findings in the Area of Salento, ivi, p. 131 ss.      

[37] Cfr. in proposito, da ultimo, HICKMAN BARLOW, The Ideological Nature of Crime News, Relazione presentata al Convegno Internazionale “La rappresentazione televisiva del crimine”, cit., in corso di pubblicazione.

[38] Cfr., tuttavia, la recente indagine di DE PICCOLI e altri, Stampa quotidiana e sentimento di insicurezza, in ZANI, Sentirsi in/sicuri in città, Bologna, 2003 , p. 228, sul rapporto fra lettura dei resoconti criminali dei giornali, in particolare la Stampa di Torino, e sentimento di insicurezza e quella di CALVANESE, Pena riabilitativa e Mass-media. Una relazione controversa, Milano, 2003, passim, relativa a tre importanti quotidiani: Corriere della sera, La Repubblica e Il Giornale, al fine di verificare il ruolo dei media sulla percezione della pena, con particolare riferimento alla sua esecuzione, alle sue finalità, alle misure premiali e alla loro applicazione. 

[39] Cfr. da ultimo RUSSO, Giustizia e informazione, in Questione giustizia, 2000, p. 824 ss., alla quale si rinvia per la bibliografia. Ma è un fenomeno che era già presente al legislatore storico, se nella Relazione al progetto definitivo del codice di procedura penale, Lavori preparatori, vol. VIII, 1929, p. 35 si afferma che <<è volontà dello Stato di far assolutamente cessare la riprovevole e pericolosa speculazione giornalistica sui procedimenti penali. La quale .... eccita nella popolazione un malsano interessamento per l’attività criminosa ... e crea altri danni o pericoli che sarebbe superfluo numerare>>.  

[40] Per alcune considerazioni con riferimento all’esperienza francese, cfr. SOULEZ LARIVIERE, Il circo mediatico-giudiziario, ed.it  Macerata, 1994, passim e da ultimo PONCELA, Medias et procédure pénale: prises  et  emprises , in CASSANI, MAAG, NIGGLI (a cura di),  Medien, Kriminalitae und Justiz. Médias, Criminalité et Justice, Zuerig, 2001, p. 185.

[41] Così, ad esempio, l’invio in anticipo della informazione di garanzia, con grande risonanza ad opera dei media, provoca <<una serie di reazioni a catena, innanzitutto nei confronti dello stesso indagato, poi di eventuali coindagati e soprattutto nei confronti di coloro i quali acquisteranno successivamente la veste di “persone informate sui fatti”, CIRUZZI, Il condizionamento dei <<media>> nel processo penale, in Questione giustizia, 1994, p. 201: <<Dunque, i nuovi media, con i fatti/notizia, possono provocare una modifica della realtà fino ad una modifica dell’andamento dei fatti>>. L’A. distingue fra i fatti/rottura che sono già di per sé notizia, in quanto accadimento che si distacca dalla normalità del quotidiano dai fatti/notizia che sono <<quegli accadimenti indotti dalla presenza dei media ovvero prodotti soltanto al fine di essere ripresi  dai media ed entrare così nel circuito di trasmissione dell’informazione>>.

[42] In realtà attraverso i media, il <<nostro sistema accusatorio ha, dunque, cooptato sistemi sanzionatori anticipati al fine di incidere e di fornire risposte almeno sufficienti agli utenti del prodotto giustizia>>. Ne deriva che le informazioni che giungono all’utente attraverso i mezzi di informazione, poiché si tratta di notizie frammentarie, selezionate allo scopo di fare notizia provocano nell’utente la convinzione che la realtà, l’unica, è quella che riceve dai media. <<I nuovi media hanno contribuito alla caduta delle ideologie, con la conseguenza che gli avvenimenti non vengono più inquadrati in visioni generali complessive; la informazione, cioè, non è più trasmessa rispettando la genesi ed i processi causativi sottesi agli avvenimenti stessi, ma si è trasformata in informazione scheggiata, secondo il modello del linguaggio da spot pubblicitario o sportivo. Viene, quindi, prodotta un’informazione superficiale e riduttiva, e, soprattutto, non obiettiva>> (CIRUZZI, Il condizionamento, cit., p. 199). Alla fine, il <<potere di supplenza esercitato dalla magistratura ha spinto gli “inquirenti” a fornire risposte immediate ai bisogni della collettività, al fine di colmare il divario esistente tra le differenti dimensioni temporali (l’informazione agisce in tempi reali, o in presa diretta, il potere giudiziario agisce sulla sintesi dei fatti)>> ( CIRUZZI, Il condizionamento, cit., p. 201).  

[43] <<C’è la possibilità che la pubblicità introdotta all’interno delle aule di giustizia finisca per deformare la corretta dinamica processuale, condizionando i protagonisti del processo e conseguentemente il risultato della decisione>> ( RUSSO, Giustizia, cit., p. 828). La legislazione francese e tedesca escludono invece dalle aule di giustizia le telecamere.

[44] Tale trasparenza dovrebbe cioè <<prodursi rispettando le regole che rendano il processo penale simile a un “percorso protetto”>>. A tal fine, in primo luogo, all’imputato, alla parte lesa e ai difensori dovrebbe essere concesso in pari misura di esprimere il loro punto di vista, per <<il cosiddetto principio delle pari opportunità>> (CIRUZZI, Il condizionamento, cit., p. 202 ss, e ivi bibliografia). Il “percorso protetto” sarebbe altresì garantito se, ad esempio in caso di diffusione di notizie infondate, in particolare accusatorie, venisse poi predisposto un comunicato concordato tra mezzi di informazione e danneggiato, in luogo dalla tradizionale rettifica, la quale risulta troppo impersonale per produrre quegli effetti sattisfatori e riparatori a cui la vittima-imputato ha invece diritto (v., ancora, CIRUZZI, Il condizionamento, cit., p. 204).

[45] Cfr. anche RIZZA, Su devianza e mass-media. Un test per la ricerca italiana, in GRANDI, PAVARINI, SIMONDI (a cura di),  I segni di Caino. L’immagine della devianza nella comunicazione di massa, Napoli 1985, p.127 ss, la quale sottolinea come almeno fino a qualche anno fa, ma la realtà della ricerca in Italia non sarebbe molto cambiata,  chi avesse voluto rintracciare studi specifici sul tema della rappresentazione della devianza nei mass media ovvero corrispondenze con l’intensa produzione anglo-americana avrebbe dovuto per lo più <<fare il censimento di assenze, di interi capitoli mai scritti>>.

[46] CORRERA, MARTUCCI, PUTIGNANO (a cura di), Valori, disvalori e crimine nell’Italia alle soglie del duemila. La percezione sociale del concetto di reato, Milano 1998, p.133. Con particolare riferimento alla immagine della pena attraverso i media, v. CALVANESE, Pena riabilitativa, cit., passim, spec. p.125 ss., il quale alla luce dell’indagine svolta osserva come la cronaca costituisca <<un flusso informativo dominante che, mediante le coloriture emotive, i messaggi non sempre chiari e spesso ambigui, l’accentuazione e la spettacolarizzazione delle notizie, lascia trapelare costellazioni di valori, percezioni sociali ovvie e stereotipiche, insicurezza e angoscia>>. E per quanto attiene più specificamente alla pena e alla sua funzione: <<Dai risultati della ricerca si configura un’immagine, sia della prospettiva oggettivo-concettuale in tema di funzione riabilitativa della pena, sia del detenuto-protagonista, prevalentemente di segno negativo>>. Dall’analisi di tre importanti quotidiani sarebbe emerso che <<la scelta delle redazioni si è, infatti, prevalentemente incanalata sulle opzioni di tipo negativo e ostile alla prospettiva trattamentale, diversificandosi le diverse testate nel far prevalere questa o quella valutazione negativa>>.

[47] CORRERA, MARTUCCI, PUTIGNANO (a cura di), Valori, disvalori, cit. passim..

[48] L’art. 1, comma 1, lett. d del d. l. 20 agosto 2001, n. 336, convertito con modificazioni in l. 19 ottobre 2001, n. 377, ha introdotto l’art. 6 bis, nella legge del 13 dicembre 1989, n. 401, “Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive”. L’articolo introdotto nel 2001 prevede il delitto di “lancio di materiale pericoloso” e la contravvenzione al 2° co. di “scavalcamento e invasione di campo in occasione di manifestazioni sportive”. L’art. 6, co. 6 della legge del 1989 prevede inoltre per il contravventore alle disposizioni relative al divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive di cui ai precedenti commi 1 e 2 la reclusione da tre a diciotto mesi o la multa fino a tre milioni (euro 1548).

[49] Così da una ricerca svolta fra studenti adolescenti e preadolescenti della città di Brescia da BREGOLI, FILIPPINI, ROMANO, Sport e violenza: percezione psico-sociale del fenomeno tra gli studenti di Brescia in Rassegna italiana di criminologia, 1993, parte I, p. 225 ss., spec. p. 236; parte II, ivi, p.  452: fra gli adolescenti il 36,78% degli intervistati pensa che giornali e TV favoriscano con il loro operato gli accadimenti di violenza, mentre da un’altra ricerca su studenti pisani sarebbe emerso che 59 su 100 studenti considerano gli articoli esagerati, 32 li definiscono falsi e solo 9 pensano che possano corrispondere a verità 

[50]I più diretti destinatari delle nuove norme in tema di violenza negli stadi non sembrano dunque in sintonia con le scelte politico-criminali assunte per contenere questo fenomeno criminale, che o sottovalutano ovvero ritengono indotto dalla eccessiva enfatizzazione che i media riservano a certe manifestazioni sportive. Mentre se, come pacifico, il fenomeno della violenza negli stadi ha una dimensione sociale che precede quella criminale e che non può essere ignorata, occorrerebbe intervenire prima di tutto con una corretta politica sociale per una proficua prevenzione. In questi settori, infatti, forme di intervento pre- ed extra-penalistiche in funzione educativa e di controllo, per la realizzazione delle quali un ruolo particolarmente significativo ben potrebbero svolgere i mezzi di informazione di massa, determinano il coefficiente di efficacia della singola norma incriminatrice. Ciò significa una politica-criminale  come l’extrema ratio della politica sociale. A spingere in tale direzione sono d’altra parte le stesse Convenzioni internazionali, che richiamano gli Stati Parti sulla importanza della funzione educativo-promozionale che i mass-media possono e devono svolgere nei confronti dei giovani. A tale proposito vale la pena di richiamare l’art. 17 della Convenzione sui diritti del fanciullo, New York, 20 novembre 1989: <<Gli Stati Parti riconoscono l’importanza della funzione esercitata dai mass-media e vigilano affinché il fanciullo possa accedere ad una informazione ed a materiali provenienti da fonti nazionali e internazionali varie, soprattutto se finalizzati a produrre il suo benessere sociale, spirituale e morale nonché la sua salute fisica e mentale. A tal fine gli Stati Parti:

a)incoraggiano i mass.media a divulgare informazioni e materiali che hanno utilità sociale e culturale per il fanciullo e corrispondono allo spirito dell’art. 29; …….>>.    

[51] Essa sarà pubblicata negli atti del Convegno Internazionale  “La rappresentazione televisiva”, cit., in corso di pubblicazione.

[52] La rappresentazione televisiva del crime: la  ricerca criminologia, cit., p. 79.

[53] Cfr. anche van der BROECK, “Recht Brisant” – Kriminalitaet im Ferenshen. Beobachtungen und Analysen zu einem Ferensehgerichtsmagazin, diss. Mainz, 1996,  passim, dalla ricerca svolta, avente ad oggetto l’osservazione e l’analisi di un programma di informazioni dal titolo “Recht Brisant” su temi scottanti del mondo della giustizia, (tribunali, polizia, criminalità) hanno trovato conferma le seguenti ipotesi:.

-          La criminalità violenta, in particolare di quella contro la persona e la sua integrità fisica,  è oggetto di maggiore attenzione da parte dei mezzi di informazione televisiva, anche rispetto a forme di criminalità più diffuse nella realtà ma non violente, come i furti. La prima è quindi sovrarappresentata, mentre i delitti che costituiscono nella realtà la parte più significativa del fenomeno criminale non trovano spazio nei mezzi di informazione come invece dovrebbero avere.

-          Le origine e le conseguenze dalla criminalità sono poco rappresentate, mentre viene dedicata particolare attenzione alla criminalità nella fase dell'’accertamento o del giudizio. In particolare le conseguenze per il reo, punizione, trattamento, risocializzazione rimangono nell’ombra.

-          Per quanto riguarda l’autore, la tendenza è verso una astrazione, verso una informazione che prescinde dalla individualità dell’autore del fatto illecito. Esso è un soggetto senza passato e senza futuro. Non interessa se il fatto è stato programmato, mentre i motivi che hanno spinto il soggetto al reato sono oggetto di informazione se si tratta di motivi di avidità (23%), di natura personale (10,6%) ovvero politici, ideologici, religiosi (12,5). Una esigenza di individualizzazione emerge solo là dove essa è necessaria per illustrare, chiarire il caso.

-         Nel presentare le notizie sulla criminalità si tende a fornirle secondo una base e un inquadramento giuridico, anziché adeguarsi alle attitudini e conoscenze dei fruitori abituali di esse.

[54] CALLANAN, The Determinants of Punitiveness: The Effects of Crime Related Media Consumption and Crime Salience on Californians’ Support for Three Strikes Sentencing, diss. California Riverside, 2001, passim

[55] Per questa critica, da ultimo, v. CALLANAN, The Determinants of Punitiveness, cit., p. 50.

[56] In proposito v. INNES, Signal Crimes and Collective Memory: The Politics of Media-Police Interactions, Relazione presentata al Convegno Internazionale “La rappresentazione televisiva del crimine”, cit., p. 3 ss. datt, il quale definisce come signal crime quel reato che <<è costruito dai giornalisti attraverso particolari tecniche di rappresentazione e che viene percepito dal pubblico come un indicatore del livello della situazione e dell’ordine sociali>>. Conseguentemente un reato civetta, secondo l’A., costituisce una lente attraverso la quale uno stato iniziale e generalizzato di insicurezza e di ansia viene di fatto focalizzato su un particolare evento o su un fascio di problemi, anziché su altri>>.

[57] Cfr. PROTESS, LEFF e altri, Uncovering Rape: the Watchdog Press and the Limits of Agenda Setting, in Pubblic Opinion  Quarterly, 1985 , p. 19 ss e ivi la bibliografia.

[58] Cfr. in proposito GEBOTYS e altri, News Media Use, cit., p. 11 ss, i quali rilevano una relazione positiva fra uso dei mass media e valutazione della gravità dei reati. Nel senso che più frequente è l’esposizione a notizie televisive,ma anche giornalistiche sul crimine più aumenta la percezione della pericolosità e della gravità di tale reato, ad eccezione però dei crimini sessuali, rispetto ai quali la valutazione di gravità del pubblico godrebbe già di un elevato e pressoché costante  indice di gravità; v. anche lo studio di 0’CONNELL, Is Irish  public opinion towards crime distorted by media bias, in Europian J. of Communication 1999, p.191 ss, dal quale emerge che i reati violenti sarebbero ipertrattati nei giornali irlandesi, in particolare gli omicidi, ma anche i reati sessuali che rappresenterebbero il 6,7% delle notizie criminali dei giornali oggetto della ricerca a fronte di una percentuale del fenomeno reale dello 0,07%. I reati sessuali e in particolare il rape sarebbero rappresentati nella stampa 87 volte di più rispetto al loro reale andamento  e con indici (qualitativi) di sensazionalismo, rappresentati dal numero di parole dedicate a simili reati, pari al 13,24% di tutte le parole usate nelle cronache criminali del periodo esaminato.    

[59] V. La rappresentazione televisiva del crime: la  ricerca criminologica, cit., p. 66 datt: Le <<categorie meno rappresentate nelle testate (sia in termini di testo che di immagini; sia in tutto il giornalr che in prima pagina) sono quelle degli abusi sessuali su minori (soprattutto quelli in famiglia: in media 0,35 % per numero di notizie e 0,2 % per spazio); dei reati contro l’onore (0,75 % per numero di notizie e 0,35 % per sapzio) e dei crimini sessuali (0,85 % e 0,45%)>>.

[60] OUIMET, GUAY, PROULX, Analyse de la gravité des aggressions sexuelles de femmes adultes et des ses déterminants, in Revue internationale de criminologie et de politice technique et scientifique, 2000, p. 157 ss., i quali sottolineano che la gravità di un’aggressione sessuale dipende da una molteplicità di fattori e dunque valutare la gravità di essa guardando solo all’entità della forza fisica impiegata per costringere la vittima ovvero al tipo di rapporto sessuale perpetrato non dà conto della reale gravità del fatto.

[61] In particolare, quando la collera precede e accompagna l’atto di aggressione sessuale, questo sarebbe generalmente violento e verrebbe giustificato dall’autore di esso con il fatto che la vittima l’avrebbe meritato. Mentre, quando prevale la libido sessuale, quale forza motivazionale all’aggressione, quest’ultima si manifesterebbe per lo più come atto di penetrazione (genitalizzazione) e il reo sarebbe propenso a ritenere che la vittima in realtà desideri una relazione sessuale di tal genere.  Le motivazioni di natura più strettamente sessuali, quali indici del grado di gravità del fatto, sarebbero perciò per lo più presenti con riferimento alle aggressioni, in cui l’uso della forza, della coercizione o la presenza di lesioni è minore, ma più alto è il grado di intrusione sessuale dell’atto stesso (livello di genitalizzazione), cfr. HOWITT, Crime, the Media, and the Law, West Sussex, 1998, p. 90 ss

[62] Cfr. HOWITT, Crime, the Media, cit.,  p. 91 ss. Ai mezzi di comunicazione si rimprovera dunque di confermare il  modello esplicativo di genere sessuale, secondo il quale cioè la violenza sessuale sarebbe da interpretare come una manifestazione del desiderio sessuale, mentre le componenti di violenza anche psichica e di coercizione che caratterizzano tale tipo di violenza vengono minimizzate, se non addirittura dimenticate.

[63] Così SOOTHILL, WALBY, Sex Crime in the News, London 1991, p. 146

[64] Il fatto che le violenze sessuali prevalgano fra persone conosciute o addirittura all’interno della famiglia (solo il 21,9% avviene fra persone sconosciute, secondo l’indagine Istat, La sicurezza dei cittadini, Roma 1998) e che non dipendano da particolari patologie sessuali o mentali o da pulsioni meramente sessuali conferma l’interpretazione “culturalista” dello stupro: la violenza sessuale come atto di prevaricazione e dominanza nei confronti della vittima-donna. Cfr. anche per una conferma di tale conclusione i dati raccolti da Soccorso per la violenza sessuale della clinica Mangiagalli di Milano, operativo dal 1996:  tra il 1996 e il 2002 nel 59,4% dei casi rilevati la vittima conosceva il suo aggressore. V. anche BERTOLINO, Libertà sessuale e tutela penale, Milano 1993, p. 35 ss.

[65] Sui miti, v. BERTOLINO, Libertà sessuale, cit., p. 55 ss. In particolare, quando non sembra possibile inquadrare l’autore del reato sessuale secondo lo stereotipo, il mito comune del mostro o del malato, lo stupro verrebbe trasformato dalla stampa in  un caso controverso e l’interesse di essa sembrerebbe spostarsi sul processo. Ma anche le violenze sessuali in cui l’autore al momento delle indagini viene presentato come un mostro continuano ad attirare l’attenzione della stampa al momento del giudizio. Infatti l’immagine del mostro sembra perdersi durante il processo e nei suoi resoconti, e anche questi casi diventano nei mass media casi controversi che fanno discutere, così. HOWITT Crime, the Media, cit., p. 91 ss. 

[66] LEES, Media Reporting of Rape: The 1993 British “Date Rape” Controversy, in KIDD-HEWITT, OSBORNE (a cura di), Crime and the Media, London, Chicago, 1995, p. 107 ss.

[67] Cfr. LEES, Media Reporting, cit., p. 110 s.

[68] BENEDICT, Virgin or Vamp: How The Press Covers Sex Crimes, New York, Oxford, 1992, p. 35 ss., la quale in proposito giustamente rileva che entrambe le rappresentazioni sono distruttive della donna. La prima, la versione vamp perché implica un biasimo per la vittima, la seconda perché genera l’idea che le donne o sono della madonne o delle prostitute.

[69] V. per esempio in Inghilterra il Sexual Offences  (amendement) Act  del 1976 e il Criminal Justice and Public Order del 1994. Quest’ultimo ha abolito la regola probatoria, valida solo in materia di reati sessuali, secondo la quale non era possibile condannare l’imputato sulla base della sola testimonianza della persona offesa. Negli Stati Uniti d’America la maggioranza degli Stati ha introdotto dei limiti al prior sexual history evidence  attraverso la c.d. rape shield reform.

[70] Cfr. HOWITT, Crimes, the Media, cit., p. 92 ss, che per la stampa inglese cita il News of the World

[71] Cfr. per queste osservazioni LEES, Media Reporting, cit., p.111, secondo la quale la stampa avrebbe la responsabilità di aver generato nell’opinione pubblica l’idea che le condanne per stupro sono aumentate, come sarebbero aumentate anche le false accuse da parte delle vittime. In realtà dai dati raccolti dall’A. risulta che solo nel 32% dei casi  in cui vi sarebbe stato un presunto consenso si è arrivati alla sentenza di condanna e che comunque queste sentenze non sarebbero aumentate, anzi tra il 1985 e il 1993 sarebbero scese dal 24% al 10%. Mentre dal 1983 si sarebbe triplicato il numero delle denunce. Cfr. anche SOOTHILL, WALBY, Sex Crime, cit., p.145 ss; BENEDICT, Virgin or Vamp, cit., p. 41 ss., la quale sottolinea come la stampa preferisca fare riferimento a  spiegazioni di tipo individualistico piuttosto che sociale o culturale dello stupro.

[72] Cfr. WILLIAMS, DICKINSON, Fear of Crime: Read all about it?, in Brit. J. Criminol., 1993, p. 33 ss. Per DITTON, DUFFY, Bias, cit., p. 65, secondo un fattore numerico di distorsione pari a 8,1, nel senso che questi reati sarebbero trattati nei giornali 8 volte più spesso di quanto giustificato dalla loro reale presenza e con un fattore numerico di superficie pari a 9,5 volte superiore a quello necessario. Essi osservano come questo risultato sia diverso da quanto emerso in precedenza, sesso e violenza sarebbero oggi le componenti più significative delle notizie criminali dei giornali. Tuttavia una precedente indagine.

[73] E infatti secondo una indagine del 1976 (CUMBERBATCH, BEADSWORTH, Criminals, Victims and Mass Communications, in Crime, Victims and Society, a cura di VIANO, Lexington, 1976, p. 72 ss.), i resoconti sui reati sessuali fino a quella data sarebbero stati ancora <<consistently low, indeed almost negligible>>.

[74] La rappresentazione televisiva del crime: la  ricerca criminologica, cit., p. 58 datt.: <<Rilevantissimi, al contrario, gli indici di gravità (in prima pagina sui giornali addirittura –100%>>. 

[75] Nell’anno 2000 i delitti sessuali per i quali è iniziata l’azione penale sono stati in tutto 4838, pari allo 0,2% dei delitti complessivamente denunciati e per i quali è iniziata l’azione penale e nel periodo 1-1-2002-- 30-6-2003 sono stati 4039 pari allo 0,3% dei delitti complessivamente denunciati e perseguiti

[76] Nel 1991 le denunce per violenza carnale furono 733 con un incremento del 10% nel 1992, 806 denunce; nel 1989 e 1990 furono 687; nel 1988 le denunce per violenza carnale e atti di libidine furono 2297 e tra il 1993 e il 1995 le denunce sono state 5311.

[77] Da un’indagine Istat il 93,2% delle tentate violenze sessuali e l’82,7% delle violenze sessuali non sarebbero  state denunciate, cfr. SABBADINI, Molestie e violenze sessuali, La sicurezza dei cittadini, Roma, 1998, Rapporto Istat.

[78] Mentre categoria a sé costituisce quella degli abusi su minori in famiglia e fuori dalla famiglia. Due categorie di illeciti in assoluto meno rappresentate.

[79] Su tale sentenza, v. BERTOLINO, Libertà sessuale e blue-jeans, in  questa Rivista, 1999, p. 692 ss.

[80] Cass. 6-11-2001, in Foro it, 2002, p. 287.

[81] Cass. 30-10-1996, in Giur. Cost., 1997, p. 1149 ss; cfr. anche Cass. 10-10-1978, in Giust. pen., 1979, p. 662. 

[82] GULOTTA, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Milano, 2000, p. 1094 ss.

[83] Proprio a proposito di un diritto penale ridotto al nucleo essenziale e con riferimento ai suoi sostenitori, da ultimo DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in  questa Rivista, 1999, p. 17, ricorda che il rispetto del principio di offensività come principio costituzionale  non significa <<affatto che il diritto penale debba limitare il proprio raggio d’azione alla tutela di pochi, classici beni individuali: il principio di offensività non sbarra le porte all’intervento penale in settori come quelli dell’economia e della finanza, per lasciare integralmente il campo ad altre tecniche di controllo, sanzionatorie e non>>. Sui rapporti fra diritto penale minimo e diritto penale economico, v.  MARINUCCI , DOLCINI, Diritto penale ‘minimo’ e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, p. 802 ss. 

[84] Cfr.VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, in JZ 1982, p. 86.

[85] PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in STILE (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli 1985, p. 308.

[86] Riconosce il carattere artificiale di alcune parti del droit penal des affaires, DELMAS-MARTY, Droit penal des affaires, Paris 1990, p. 7 s, l’A considera il diritto penale degli affari come quello costituito dal diritto penale commerciale, economico, finanziario e sociale. Sulla natura atificiale del diritto penale economico, v. anche ARROYO ZAPATERO, Derecho penal economico y Costitutión, in Revista penal 1998 , p. 3.

[87] TIEDEMANN,  Il diritto penale dell’economia: suo ambito e significato per il diritto penale e l’economia, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988,  p. 8. Tuttavia, secondo ARROYO ZAPATERO, I delitti contro l’ordine socio-economico nel nuovo codice penale del 1995, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale, p. 124 s., in diversi settori dell’economia, come ad esempio quello fiscale, la collettività percepisce ormai il disvalore etico dei delitti economici: <<la dannosità sociale materiale dei delitti economici corrisponde con la valutazione morale negativa dei medesimi da parte della comunità... In tempi di crisi la dannosità sociale dei delitti economici viene captata più acutamente da parte dei soggetti sociali>>. Nello stesso tempo però l’A. sottolinea che le <<esigenze di razionalizzazione dell’economia richiamano il diritto ed i postulati economici e giuridici costruiscono gli imperativi morali nella collettività sociale>>.

[88] I beni tutelati diventano perciò altamente controversi e <<incontrano un limitato grado di accettazione in seno alla collettività>> (PEDRAZZI, Interessi economici, cit., p. 302 s).  Date queste premesse, appare indispensabile un particolare impegno del legislatore <<al fine di ottenere un duplice risultato: ….. che, mediante la descrizione delle condotte penalmente rilevanti e la conseguente stigmatizzazione delle stesse (effetto primario della minaccia penale), sia aiutato il riconoscimento da parte delle vittime del proprio essere tali; vittime alle quali molto spesso sfugge, sul piano della conoscenza, la dinamica che ha condotto a una certa situazione negativa. E’ opportuno inoltre segnalare, appunto con l’impiego della più grave delle sanzioni, la dannosità sociale dei  comportamenti in questione, superando le difficoltà di comprensione prodotte (anche) dal tecnicismo della materia, ed attaccando la diffusa, talora inconsapevole, complicità che si instaura tra white collar crime e membri della comunità>> ( ALESSANDRI, Parte generale, in AAVV., Manuale di diritto penale dell’impresa,  Bologna 1999, p. 22); cfr. altresì SEMINARA, Insider trading e diritto penale, Milano 1989, p. 310 ss., il quale sottolinea come proprio dalla natura del diritto penale dell’economia consegua che il legislatore <<non può - pena un’assoluta inerzia - subordinare il suo intervento alla ricezione collettiva del valore da tutelare>> e dunque la necessità di una riformulazione del concetto di meritevolezza di pena, nel senso di un diritto-dovere da parte del legislatore penale <<di sanzionare determinati fatti anche quando ciò, pur non trovando un immediato riscontro in regole sociali già cristallizzate, appaia rispondente a interessi collettivi di primaria importanza>>;v. infine PATALANO, Beni costituzionali e tutela penale degli interessi economici, in Studi in onore di G. Vassalli, Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale, vol. I, Milano, 1991, p. 636, il quale osserva che quello dell’oggetto, dell’area di intervento del diritto penale dell’economia non è un problema di facile soluzione e che, <<soprattutto, può dar luogo a soluzioni valide solo in relazione ad un dato sistema economico, e non mai in assoluto. In tal senso, si deve sottolineare il carattere di storicità della scienza economica e, per conseguenza, delle risposte che l’ordinamento volta a volta ha dato nell’apprestare i propri rimedi per garantire l’attuazione delle scelte politiche>>.

[89] A tale proposito si è parlato di una “democratizzazione” del reato economico, divenuto comportamento anche delle persone appartenenti alle classi comuni e non solo di quelle appartenenti a classi specialistiche o medio alte, così come evidenziato inizialmente dalla definizione soggettivo-funzionale (secondo il punto di vista dell’autore) della criminalità economica offerta da SUTHERLAND, Il crimine dei colletti bianchi, trad, it. a cura di FORTI, Milano 1987, p. 8: <<Crimine dei colletti bianchi può definirsi approssimativamente il reato commesso da una persona rispettabile e di elevata condizione sociale nel corso della sua occupazione>>.

[90] Mette in evidenza  queste peculiarità  SCHÜNEMANN, Alternative control of economic crime, in ESER, KAISER, (ed. by), Old Ways and New Needs in Criminal Legislation, Freiburg i. Br. 1989, p. 288, il quale precisa altresì che <<perfino se i sentimenti morali della comunità fossero forti e sufficientemente espliciti da prevenire comportamenti individuali devianti, essi non sarebbero comunque in grado di svolgere alcun effetto preventivo nei confronti dei corporate crimes, che rappresentano la parte più rilevante dei crimini economici. Le ricerche sia criminologiche sia psicologiche hanno d’altra parte chiarito come i soggetti inseriti in un’organizzazione gerarchica obbediscano alle regole comportamentali prevalenti in tali strutture, anche se i comportamenti che ne scaturiscono sono in conflitto con la legge. Ciò dipenderebbe dal fatto che l’analisi costi-benefici è la regola guida fondamentale di ogni condotta economica. Nessun uomo governato da princìpi economici desisterà dal tenere condotte devianti ma economicamente favorevoli solo per ragioni morali o di rispetto della legge, a meno che i costi del suo comportamento per sanzioni sociali, civili o infine criminali siano così alti che annullano i vantaggi da esso derivanti>>. Ricorda EUSEBI, Brevi note sul rapporto tra anticipazione della tutela in materia economica, extrema ratio  ed opzioni sanzionatorie, in AAVV, Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario, Torino 1996, p. 50, come si sia tuttavia cercato di sviluppare un controllo di tipo etico. Esso rappresenterebbe una delle forme più innovative di prevenzione extrapenalistica. <<Il fatto che alla considerazione di beni giuridici penalmente rilevanti vada affiancandosi la crescita di interesse per una gamma significativa di valori etico-sociali connessi all’esercizio dell’attività economica assume, d’altra parte, un indubbio significato di prevenzione generale positiva, indotto non già da interventi autoritativi, ma dal radicarsi (fra i consumatori, nella comunità dei ricercatori, ecc.) di una sensibilità diffusa per una utilizzazione non spregiudicata del libero mercato>>. In proposito v., da ultimo, anche DE MAGLIE, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano, 2002, p. 245 ss; STELLA , Giustizia e modernità, La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003, passim, spec. p. 601 ss.   

[91] SEMINARA, Insider trading, cit., p. 310, e ivi la bibliografia, il quale a proposito del grado di  corrispondenza fra valori penalmente tutelati e valori etici della collettività, questione di cui si sono occupate la teoria del consenso e quella del conflitto, sottolinea che questa contrapposizione implica un’impostazione di tipo sociologico che dovrebbe comunque <<distinguere tra quei fatti che vengono elevati a reato perché contrari ai valori unanimemente condivisi e rispetto alla cui tutela non si pongono controinteressi (ad esempio, il bene della vita, dell’integrità fisica e morale ecc.), quelli contrari a valori pure saldamente recepiti ma la cui protezione urta contro specifici interessi (ad esempio, il bene dell’ambiente) e quelli contrari a valori non chiaramente percepiti dalla collettività il cui riconoscimento implica il ripudio di determinati controinteressi (in genere, i reati economici). Ora, è evidente che, in riferimento ai reati economici, la notazione che ad essi non si associa lo stigma di una diffusa riprovevolezza morale non può condizionare il problema della loro criminalizzazione. Se il termine di riscontro per determinare l’ambito di operatività del legislatore penale fosse sempre costituito da una chiara e unanime consapevolezza in ordine alle condotte lesive degli interessi economici generali, invero, il diritto penale si avvierebbe verso la paralisi giacché, mentre sussiste un ampio accordo rispetto alla necessità di sanzionare le condotte dannose per le sfere patrimoniali individuali, tale consenso è raramente rinvenibile nei confronti di quei fatti, complessi ed articolati, produttivi di una lesione verso vittime anonime>>.  Cfr. anche PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 1023, il quale fra le ragioni della carenza di legittimazione e di effettività dei precetti in materia economica annovera proprio la mancanza nella coscienza sociale di una loro penetrazione e <<di un riconoscimento dei sottesi modelli deontologici anche per l’alto tasso di tecnicismo che li contraddistingue>>.

[92]Caratterizzata da <<una sorta di produzione a pioggia>>, da disposizioni incriminatrici che <<- gravate da durissime sanzioni privative della libertà dell’individuo -, ricorrono, sovente a fattispecie di pericolo astratto; redatte spesso con formule generalmente tecnicistiche e, più in generale, mediante l’uso di un linguaggio di difficile riconoscibilità, scarsamente coordinate con le norme di diritto civile, con frequenti rinvii e, pertanto, in evidente contrasto con il principio di tassatività/determinatezza della fattispecie legale>> (MOCCIA, Riflessioni sui nodo problematici della normativa italiana in materia di criminalità economica, in Riv. trim. dir.  pen.  ec., 1997, p. 19).<<Ogni legislazione è in un certo qual modo simbolica. Nella lotta contro la criminalità economica.... il legislatore si preoccupa sempre meno della praticabilità e dell’efficacia delle nuove leggi>> (VOLK, Diritto penale ed economia, in CANESTRARI (a cura di), cit., p. 176 s.).

[93] Così, da ultimo, ALESSANDRI, op. cit., p. 22,

[94]Per un’indagine sul sentire della collettività con riferimento alla criminalità economica, cfr. DI GENNARO, PEDRAZZI, Criminalità economica e pubblica opinione, Milano 1982, p. 79 ss: << A comprensibili rigorismi fanno riscontro indulgenze sospette. Ci si rende conto che la criminalità economica ha radici più profonde e ramificate di quanto le definizioni astratte lascerebbero sospettare e che l’effetto di vittimizzazione non è sempre univoco. Attorno al “colletto bianco”, protagonista incontrastato, si avviluppa talvolta una rete di complicità e cointeressenze. Non si spiega altrimenti la diffusa tolleranza nei confronti dei certificati medici compiacenti. Altre risposte .....sembrano tradire un diffuso ottundimento dei valori di lealtà e schiettezza. O quanto meno un lassismo generato da crisi di fiducia>> (PEDRAZZI, Presentazione, ivi, p. 6). 

[95] Alla luce anche delle funzioni che alle notizie sul crimine sono state attribuite e così schematizzate: 1)mantenimento e legittimazione dello status quo (definizione di ciò che è normale e di ciò che non lo è; 2)offerta di modelli di identificazione per il cittadino normale; 3)sensibilizzazione della consapevolezza riguardo al problema della criminalità, cfr. SMAUS, Funktion der Berichterstattung ueber die Kriminalitaet in den Massmedien, in Kriminologisches Journal, 1978, p. 193.

[96] PALAZZO, Riflettendo su trasformazioni, cit., p. 109.

[97] PALAZZO, Riflettendo su trasformazioni, cit., p.109.

[98] Cfr. KUHN, Opinion publique et sévérité des juges, in CASSANI, MAAG, NIGGLI (a cura di), Medien, cit.,  p. 217 s.  

[99] In tema di reati ambientali, cfr. da ultimo LYNCH, STRATESKY, HAMMOND, Media Coverage of Chemical Crimes, Hillsborough County, Florida, 1987-97, in Brit. J.  Criminology, 2000, p. 112 ss. con riferimento  a gravi condotte di inquinamento chimico.

[100] V. LYNCH, NALLA, MILLER, “Cross-cultural Perceptions of Devianc: the Case of Bhopal”, in J. of  Research in Crime and Delinquency,  1989, 26, p. 7 ss., i quali hanno studiato la rappresentazione da parte dei mass media (americani e indiani)dei danni gravissimi (2.000 morti) provocati da una fuga di gas letale da una fabbrica (Unione Carbide) di pesticidi a Bhopal in India; ad analoghi risultati perviene  la ricerca di WRIGHT, CULLEN, BLANKENSHIP, The social constuction of corporate violence: media covarage of the imperial food products fire, Crime and Delinquency 1995, p. 20 ss. relativa alle morti (26) e alle lesioni provocate alle persone  da un incendio in uno stabilimento di lavorazione dei polli (Imperial Food Products), che rappresentava la principale fonte di lavoro per gli abitanti della comunità.

[101] Cfr  WRIGHT e altri,  The Social Construction, cit., p. 25, i quali osservano che, pur avendo i giornali riferito i fatti in termini di comportamenti gravi e violenti da parte della società e pur non avendo cercato di minimizzare le responsabilità attribuendo il fatto al caso, alla sfortuna o addirittura a errori dei lavoratori, la stampa avrebbe comunque mostrato poca consapevolezza sul fatto che la violenza societaria (il danno fisico) potesse essere definito in termini di reato. All’inizio gli articoli non hanno infatti definito le morti come omicidi, non trattando della circostanza di un’eventuale incriminazione dei responsabili della società, se non quando le autorità competenti hanno accusato i responsabili societari del  reato di omicidio. Piuttosto che definire le morti dei lavoratori in seguito all’incendio come veri e propri fatti di omicidio, la stampa ha piuttosto puntato l’attenzione sulle violazioni alle norme di sicurezza e anche quando il caso è diventato ufficialmente un reato, la stampa avrebbe continuato a trattarlo in maniera marginale e poco attenta.

[102] Cfr. LYNCH, STRATESKY, HAMMOND, Media Coverage of Chemical Crimes, cit., p. 122. Secondo gli autori le informazioni sui reati ambientali verrebbero omologate secondo gli stereotipi più diffusi concernenti il crimine, nel senso che esse rifletterebbero la normalità piuttosto che le particolarità, l’inusualità dei fatti. Così solo uno degli otto casi riportati sui giornali oggetto della ricerca è stato definito come crimine contro l’ambiente. Negli altri casi la tendenza era a ricondurre il fatto alla responsabilità di singoli soggetti e alla loro incapacità di prendere le dovute decisioni.

[103] Cfr. LYNCH, STRATESKY, HAMMOND, Media Coverage of Chemical Crimes, cit., p. 122 s.

[104] Cfr. CHERMAK, The Presentation of Terrorism in the News, Relazione presentata al Convegno Internazionale “La rappresentazione televisiva del crimine”, p. 3 ss. datt..

[105] Cfr.GOFF, The Westray Mine Disaster:Media Coverage of a Corporate Crime in Canada, in PONTELL,  SHICHOR (a cura di), Contemporary Issues in Crime and Criminal Justice: Essays in Honor of Gilbert Geis, Upper Saddle River, New Jersey, 2001, p. 195 ss.

[106] Cfr. WRIGHT e altri,  The Social Construction, cit., p. 107 s.

[107] SOUBIRAN-PAILLET, Presse et delinquance ou comment lire entre les signes, in Criminolgie, 1987, p. 59 ss.  Cfr. anche PAVARINI, Ricerca in tema di “criminalità economica”, in La questione criminale, 1975, p. 337 ss: <<In altre parole, i c.d. detentori del potere possono anche essere perseguiti penalmente per la loro condotta illegale senza per questo “diventare” criminali: non tanto di criminalità economica converrebbe parlare, quanto di illegalità economica non criminalizzata. Si suggerisce quindi di analizzare – comparativamente a forme tipiche di repressione penale dei “soggetti al potere” -  i meccanismi di immunità che permettono agli autori di reati economici di sfuggire al processo di criminalizzazione, con particolare attenzione: a) al livello delle immunità c.d. legali (criminalizzazione primaria); b) al livello delle immunità sociali (criminalizzazione secondaria)>>.

[108] Cfr. LYNCH, STRATESKY, HAMMOND, Media Coverage of Chemical Crimes, cit., p.113, i quali sulla base dello studio da loro condotto su alcuni giornali concludono che i reati ambientali, nel caso di fuoriuscite apparentemente accidentali di sostanze chimiche, non corrispondendo all’immagine pubblica del crimine, non vengono trattati dai giornali.

[109] GOFF, The Westray Mine Disaster, cit., p. 211, il quale giunge alla conclusione che sono stati proprio i comportamenti dei politici ad attirare l’attenzione dei media sul disastro della miniera di Westray oggetto della indagine. Secondo l’A. la determinazione dei mass media  avrebbe fatto sì che il governo e i suoi apparati istituzionali riflettessero a lungo prima di decidere se interrompere o rallentare le indagini governative sul disastro. L’attenzione su di esso da parte dei media avrebbe a sua volta fatto sì che la società mineraria e i suoi dirigenti venissero incriminati.

[110] Cfr. FORTI, L’immane concretezza, Milano, 2000, p. 362. Cfr. anche l’analisi di SHILL SCHRAGER, SHORT, How serious a Crime? Perceptions of Organizational and Common Crimes, in GEIS, STOTLAND (ed. by), White-collar  Crime, London 1980, p. 14 ss., i quali osservano conclusivamente come il giudizio di gravità del  reato da parte del cittadino comune assuma gli stessi indici di gravità sia che si tratti di reati economici ovvero comuni quando da essi siano derivati gravi danni alle persone, come la morte. Entrambi i reati sono considerati egualmente gravi, anche quando la legge tratta in maniera decisamente differente le due tipologie di illeciti.

[111] Cfr. per tale trasformazione SWIGERT, FARRELL,  Corporate Homicide: Definitional processes in the creation of deviance,  in Law and Society Review, 1980-81, p. 161 ss.

[112] Cfr. LYNCH, STRATESKY, HAMMOND, Media Coverage of Chemical Crimes, cit., p. 115 ss. Inevitabili in quanto: a)la tolleranza di ampi rischi per l’ambiente sarebbe il prezzo da pagare per lo sviluppo tecnologico; b)per essere competitive le industrie sarebbero obbligate a utilizzare specifiche tecniche di produzione, nonostante esse comportino l’inquinamento dell’ambiente; c)ciò non si potrebbe evitare trattandosi di tecniche altamente complesse, mentre l’ambiente sarebbe in grado di alti margini di tolleranza prima che dalle condotte di inquinamento possa derivare un danno alle persone. Sulle prospettive di tutela delle vittime dell’attività produttiva nella società contemporanea, divenuta la <<società del rischio>>, cfr. STELLA, Giustizia e modernità, cit., passim, spec.  p. 221 ss.

[113] Oltre a quella già riferita di tangentopoli, il caso più recente  riguarda le condotte di inquinamento dello stabilimento dell’Enichem di Priolo, alle quali andrebbe ricondotta, tra l’altro, la morte di numerose persone.  

[114] V. i riferimenti in BONDI, Problematiche dell’aggiotaggio. Questioni interpretative e necessità di riforma,  in  Studi Urbinati, 1999/2000, p. 9.

[115] Cfr. il riferimento in FORTI, La corruzione tra privati nell’orbita di disciplina della corruzione pubblica: un contributo di tematizzazione, in ACQUAROLI, FOFFANI (a cura di), La corruzione tra privati, Milano, 2003, p. 287 ss. Per corruzione privata, illecito di ampia diffusione ma di scarsa visibilità sociale, si intendono le condotte degli amministratori, dirigenti ecc. della società che a seguito della dazione o della promessa di utilità compiono atti contrari all’interesse della società stessa e che la legge del 2002 per la prima volta incrimina come condotte di “Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, all’art. 2635 de l codice civile.

[116] Cfr. l’indagine in  DI GENNARO, PEDRAZZI, Criminalità economica, cit., p. 146 s, dalla quale emergerebbe che solo il 20,8% degli intervistati valuta il comportamento di infedeltà del dipendente dietro dazione o promessa di utilità meritevole di una sanzione criminale, in particolare detentiva; di contro per il 44,5% sarebbe sufficiente il risarcimento del danno. Mentre il livello di incertezza e di incomprensione è risultato particolarmente alto, l’11,2%.

[117] Cfr. CORRERA, MARTUCCI, PUTIGNANO, Valori, disvalori e crimine, cit., p. 209, i quali rilevano anche la severità dei giudizi espressi sulla guida pericolosa e sulle violazioni stradali

[118]Cfr.  La rappresentazione televisiva del crimine , cit., p. 59 ss. datt. Rimane tuttavia difficile fare un raffronto con il reale andamento della criminalità, le cui rilevazioni statistiche attengono alla sola categoria codicistica dei delitti contro l’economia pubblica l’industria e il commercio, che, come è noto, rappresenta la parte meno rilevante e meno attuale della criminalità economica.

[119] Per quanto attiene alla carta stampata, gli indici di gravità sono risultati molto più bassi (complessivamente l’indice medio di gravità relativamente al testo è di –62,3%:  -81,3% nei telegiornali, -43,3% nei giornali e del –71,6% in termini di immagini/prima pagina: telegiornali –81,2%; -57,1% giornali), ma non inferiori comunque all’indice di gravità legislativo elaborato dai ricercatori tenendo conto anche di fattispecie economiche disciplinate in leggi speciali, (72 fattispecie in tutto), che è risultato ancora più basso (9,34%), cfr. La rappresentazione televisiva, cit., p. 59 ss. datt.

[120] La rappresentazione televisiva, cit., p. 60 ss. datt. Da qui un indice di gravità medio-alto soprattutto nei telegiornali (-68,3% riferito al testo, -58,2% riferito alle immagini; nei giornali –58,1%, -44,1%; media testo: 63,2%; media immagini/prima pagina: -51,1%),

[121]La rappresentazione televisiva, cit., p. 68. <<Le tabelle del TG4 e del TG1 espongono sul punto un dato isolato che potrebbe far pensare ad una precisa linea editoriale: tra le notizie meno rappresentate vi sono quelle della criminalità economica (nel TG1 sono le meno rappresentate con una sola notizia in 5 mesi), reati la cui giustificazione sociale (sproporzionata rispetto alla loro dannosità) è stata d’altronde denunciata già da diversi decenni.

La media delle notizie della criminalità economica è 1,75% e in termini di spazio 1,2%.

Per quanto riguarda la criminalità politico amministrativa i dati sono più consistenti (5% e 3,75%)

Non solo: ma nel TG4 le categorie della criminalità economica e politico-amministrativa espongo bassissimi indici di gravità (per quanto riguarda la seconda categoria citata, si ha nelle due testate un dato positivo, sintomo della prevalenza della giustificazione sulla condanna)>> ((La rappresentazione televisiva, cit., p. 67 datt.). Rimane tuttavia difficile fare un raffronto con il reale andamento della criminalità, le cui rilevazioni statistiche attengono alla sola categoria codicistica dei delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, che, come è noto, rappresenta la parte meno rilevante e meno attuale della criminalità economica.

[122] Cfr. per tutti ANDENEAS, La prevenzione generale nella fase della minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena, in ROMANO, STELLA, (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione dei reati, Bologna, 1980, p. 33 ss.

[123] ANDENEAS, La prevenzione generale, cit., p. 34.

[124] ANDENEAS, La prevenzione generale, cit., p. 40; v. l’importante sentenza della Corte cost. 24 marzo 1988, n.364, in questa Rivista, 1988, p. 685 ss, tema di conoscibilità del precetto penale ai fini del giudizio di colpevolezza.

[125] Conclusione suffragata da ricerche empiriche, in particolare cfr. CASSANI, MAAG, NIGGLI (a cura di), Medien, cit., p. 220.

[126] Sul ruolo dei mass media per la prevenzione dei reati, ad esempio attraverso programmi di pubblica informazione finalizzati alla prevenzione dei reati di violenza familiare, v. SACCO, TROTMAN, Pubblic Information Programming and Family Violence: Lessons from the Mass Media Crime Prevention Experience, in Canadian J. Crim., 1990, p. 91 ss; per la prevenzione dei reati di violenza sessuale, v. LINZ, WILSON, DONNERSTEIN, Sexual Violence in the Mass Media: Legal Solutions, Warnings, and Mitigation Through Education, in J. Social Issues, 1992, p. 145 ss.

[127] V., in proposito, PORTIGLIATTI BARBOS, Mass media e prevenzione criminologica, in Rass. it. crim., 1998, p. 351 ss. e ivi i riferimenti bibliografici, il quale ricorda come dalle ricerche in proposito sia emerso che <<-i mass media sono in grado di mutare il livello sia di paura del crimine sia della criminalità obiettivamente rilevata; -occorre un più accurato disegno nella programmazione delle ricerche; -i programmi devono ripromettersi di raggiungere non solo gli ascoltatori più interessati (che pertanto rispondono meglio), ma anche gli altri (che per di più sono sovente maggiormente vulnerabili); -occorre ripromettersi scopi realistici e modesti; -bisogna dare suggerimenti precisi e non generiche indicazioni di cautela; -le informazioni devono essere molto esplicite, non generare paura, accompagnarsi ad un miglioramento delle comunicazioni interpersonali e della conoscenza delle risorse concretamente disponibili>>.

[128] Rispetto alla quale ad esempio in America i tassi relativi all’anno 2000 sono stati i più bassi dal 1985, SNYDER, Juvenil Arrests 2000, Washington, DC: Office of Juvenil and Delinquency Prevention, 2000.

[129] Così ZACHARY, Perché le buone notizie non fanno notizia? Guerre e attentati hanno il primo posto in tv e sui giornali. Ma non è vero che nel mondo cresce il disordine. Sono i media a falsare la visuale, in Global, La Stampa, febbraio 2001, n. 7, p. 41.

[130] Così concludono CASSANI, MAAG, NIGGLI (a cura di), Medien, cit., p. 222.

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