La incertezze della scienza...

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    La incertezze della scienza e le certezze del diritto a confronto sul tema della infermita mentale    
   

Por Bertolino Marta

   
   

 

  inicio
   

1. Enunciazione preliminare dei problemi. 2. Della scienza incerta, ovvero dei paradigmi psicopatologici e della loro scientificità. 3. Il tentativo di superamento della “crisi” attraverso l’elaborazione di sistemi diagnostici condivisi (DSM III-IV e ICM). 4. La dimensione teorica della collaborazione fra diritto penale e scienze empirico-sociali. 5.(segue) La dimensione pratica: gli ultimi approcci della giurisprudenza alla malattia mentale. 5.1. La tecnica peritale: affidabilità e  ruolo dell’esperto. 6. Alla ricerca di regole probatorie per andare “oltre il ragionevole dubbio” sulla infermità mentale alla base del vizio di mente.  6.1. Il sapere psicopatologico come scienza dell’uomo e la regola giuridica dell’oltre il ragionevole dubbio.

 

<<Al sistema della prova legale e dell’aritmetica della dimostrazione, è stato opposto il principio che va sotto il nome di intimo convincimento; principio che oggi si ha l’impressione, quando lo si vede applicare e quando si vede la reazione della gente ai suoi effetti, autorizzi a condannare senza prove>> (M. FOUCAULT, Les anormaux. Cours au collège de France. 1974-1975, trad it. Gli anormali, Milano, 2000. p. 18).

 

1. Enunciazione preliminare dei problemi. <<Volendo fare un bilancio del dibattito sul metodo scientifico, dobbiamo prendere atto della circostanza che l’incertezza regna sovrana anche su questo grande tema…>>. Peraltro, ancora secondo le parole del Maestro che in questi Scritti onoriamo, uno <<sguardo d’insieme delle diverse concezioni del metodo scientifico consente ….. di individuare un sistema di prescrizioni-descrizioni o, se si preferisce, di “consigli pratici” agli scienziati>>[1]. Gli stessi consigli, prosegue Stella, vanno ovviamente offerti anche ai giudici chiamati a valutare l’opera degli scienziati. Ai giudici spetta infatti il <<compito della costruzione giuridica della scienza: questa costruzione – questa selezione delle prescrizioni e dei “consigli pratici” – non può che compiersi attraverso l’impiego delle regole giuridiche del processo civile e penale. E sono le regole dell’oltre il ragionevole dubbio per il processo penale, e del più probabile che no per il processo civile, che consentono di capire quali siano le prescrizioni e i “consigli pratici” da seguire. Per il processo penale, in particolare, dovranno essere seguite quelle prescrizioni e quei consigli che garantiscono al meglio decisioni giudiziarie esenti da dubbi ragionevoli>>.

Dunque, se fino a qualche decennio fa la società moderna, la società del rischio si era illusa di trovare nelle scienze risposte certe, in particolare sulle cause e sulle responsabilità di eventuali gravi danni sociali, attualmente sono gli stessi scienziati, ma anche i giudici che a quelle scienze si appellano, che devono essere consapevoli della mutabilità e della precarietà del sapere scientifico. In breve, oggi non si può non avere la consapevolezza dell’incertezza scientifica. 

Questa consapevolezza non sembra peraltro diffusa nei cittadini, in particolare in quelli <<del mondo occidentale>>, i quali ancora <<si aspettano di essere protetti da rischi provenienti da qualsiasi fonte diversa da quella alla quale si sono esposti per propria scelta personale e si comportano pensando che i biblici settanta anni di vita siano un loro diritto>>. Questo perché poco <<alla volta i rischi sono stati considerati inaccettabili e ridotti grazie all’azione politica o all’impatto delle scoperte scientifiche>>[2]. Il risultato dei molteplici progressi tecnologici, in campo organizzativo e politico, è infatti stato che ancora oggi pensiamo di vivere in una società che sembra non essere mai stata così sicura. Conseguentemente, se si verifica un incidente non siamo disposti ad imputarlo a cause naturali, alla volontà di Dio ovvero a prendercela con incontrollate forze sociali. Pensiamo invece che ci sia una colpa e vogliamo sapere con l’aiuto delle scienze a chi vada addossata, sia esso un individuo o un’organizzazione, al fine di pretendere un risarcimento attraverso un processo civile o una punizione in seguito a un processo penale.

A queste pretese non si sottrae nemmeno la scienza medico-legale, e in particolare la psichiatria forense, che con le altre scienze condivide però incertezze metodologiche, rischi, indeterminatezza e ignoranza. Ciò rende ancora più problematica la posizione degli psichiatri, ai quali si attribuisce la particolare responsabilità di garantire che la malattia mentale dei loro pazienti non sia la causa di comportamenti socialmente pericolosi, mentre agli psichiatri forensi si addossa altresì il difficile compito di cercare e di spiegare il nesso fra la malattia mentale e il comportamento deviante. Insomma, agli psichiatri e in particolare a quelli forensi si chiede di ridurre i rischi creati dai loro pazienti, nonostante la psichiatria non sembri in grado di indicare quale sia il livello del rischio accettabile e quale sia il disastro, contro il quale lo psichiatra dovrebbe garantire. Questo perché in realtà non si tratta qui di operare in condizioni di rischio, in cui cioè <<le variabili caratterizzanti un problema sono conosciute e la probabilità rispettiva di esiti differenti, positivi e negativi, è quantificata>>, quanto piuttosto di assumere decisioni in condizioni di incertezza; vale a dire,  <<pur essendo noti i parametri  di un sistema, l’incidenza quantitativa dei fenomeni in gioco non è nota, e dunque si ignora la probabilità di un evento>>[3]. Questo evento, poi, che in psichiatria dovrebbe identificarsi con il fallimento della cura in sé, nella sua dimensione pubblica si trasforma nelle conseguenze socialmente dannose o pericolose di tale fallimento, come ad esempio quelle rappresentate dal comportamento omicida del paziente. Ecco allora che allo psichiatra forense si chiede di spiegare le ragioni di tale comportamento, in particolare nei suoi nessi con la malattia mentale al fine di rendere possibile una traduzione giuridica del sapere scientifico, che consenta di giudicare della responsabilità o meno del soggetto agente.

Peraltro, là dove la scienza <<non risulti compatta, ma si presenti come una varietà di tesi o previsioni>>, come si verifica nel caso della valutazione della malattia mentale[4], <<il diritto, chiamato a risolvere in via normativa una questione ad esito incerto>>, dovrebbe sciogliere <<prescrittivamente un ‘nodo’ non districato del sapere descrittivo>>[5]. Ma finora ciò non è avvenuto nella disciplina del vizio di mente come causa di esclusione totale o parziale dell’imputabilità penale. La questione della definizione della infermità mentale alla base del vizio di mente, infatti, non solo non ha ancora trovato una risoluzione in via normativa, ma sembra lontana dal trovarla, data l’estrema incertezza che regna nella psichiatria forense sul tema[6]. D’altra parte qualsiasi opzione normativa a favore di una definizione o previsione scientifica a scapito di altre richiederebbe una esplicitazione dei criteri che il diritto adotta per decidere tale assunzione <<in base alle migliori procedure scientifiche>>[7].

Ma in campo psichiatrico-forense molti dubbi sorgono – come meglio si vedrà – circa le reali possibilità di rispettare tale requisito di esplicitazione. In primo luogo, per il suo conseguimento occorrerebbe comunque un cambiamento del rapporto fra il diritto e la scienza, che tenga conto della notevole incertezza scientifica, sia in senso oggettivo sia in senso soggettivo[8], che caratterizza il sapere psichiatrico in tema di malattia mentale. La costruzione giuridica della scienza non può più limitarsi, infatti, come fino ad ora ci si era illusi, <<a recepire, conformemente a una visione della scienza certa e neutrale, le proposizioni che la scienza porge>>, ma è necessario passare <<a una condizione di reciproco scambio critico in cui il diritto, trovandosi a regolare una scienza incerta nei due significati precedentemente indicati, deve da un lato esprimere valutazioni sul sapere scientifico, dall’altro rendere ragione (anche) della scientificità delle proprie scelte>>[9]. Di questa realtà sembrano ormai essere consapevoli anche i giudici, quando affermano che, allorché <<le conclusioni degli esperti che hanno ricevuto incarico di eseguire perizia psichiatrica sull’imputato … siano insanabilmente divergenti, il controllo di legittimità sulla motivazione del provvedimento concernente la capacità di intendere e di volere deve necessariamente riguardare i criteri che hanno determinato la scelta tra le opposte tesi scientifiche: il che equivale a verificare se il giudice del merito abbia dato congrua ragione della scelta e si sia soffermato sulle tesi che ha creduto di non dover seguire e se, nell’effettuare tale operazione, abbia tenuto costantemente presenti le altre risultanze processuali e abbia con queste confrontato le tesi recepite>>[10]

Tutto ciò significa che anche nei confronti della psichiatria forense il diritto deve emanciparsi da un atteggiamento di soggezione alla scienza e elaborare <<una posizione critica che dia rilievo all’ignoranza>>? In altre parole, nei rapporti fra diritto penale e psicopatologia forense ai fini della valutazione del vizio di mente capace di escludere o diminuire l’imputabilità, è possibile elaborare uno statuto epistemico dell’ignoranza, che consenta di non considerare più quest’ultima come semplice assenza di conoscenza, come <<dato negativo, non ulteriormente definito>>?[11]. Legittimi appaiono questi interrogativi, dato che, come è noto, non esiste una definizione univoca e scientificamente affidabile di infermità di mente, per la presenza di diversi paradigmi esplicativi della malattia mentale e per l’assenza di criteri psicopatologici certi in base ai quali compiere un’opzione scientifica a favore di uno di essi. La moderna scienza psicopatologica è dunque connotata da incertezza e ignoranza; è una scienza in crisi[12]. Se pure queste connotazioni negative caratterizzano anche altri campi della scienza, in esse peraltro è registrabile una maggiore consapevolezza di tali connotazioni e del ruolo di queste ultime nella implementazione giuridica, al fine di ridurne gli effetti negativi. Infatti <<la necessità di prevedere l’impatto di tecnologie nuove e potenzialmente pericolose ha spinto a ricercare un più dettagliato inquadramento epistemologico per l’ignoto. Lo “statuto epistemico dell’ignoranza” è stato elaborato di pari passo con la progressiva consapevolezza delle molteplici sfaccettature e implicazioni della incertezza scientifica>>[13].  

 

 

2. Della scienza incerta, ovvero dei paradigmi psicopatologici e della loro scientificità       

   Punto di partenza per uno studio su un possibile statuto epistemico da attribuire all’ignoranza in tema di malattia mentale è allora la verifica dello stato di incertezza della scienza psicopatologica, condotta in primo luogo attraverso la verifica della scientificità dei diversi modelli o paradigmi esplicativi della malattia mentale. A tal fine non posso che richiamare i risultati ai quali ero già pervenuta con l’aiuto della epistemologia, in particolare di quel settore di essa che ha indagato i fondamenti scien­tifici della psicopatologia.

Già avevo segnalato infatti come il verdetto di non scientificità, espresso da alcune correnti epistemologiche, ma anche quello di pari scientificità espresso da altre interpretazioni dei filosofi della scienza sembrino precludere la possibilità di una costruzione giuridica della scienza che privilegi un paradigma rispetto agli altri in nome di una sua presunta scientificità o di una sua presunta affidabilità scientifica superiore a quella dagli altri modelli.

E, come allora preconizzavo, queste conclusioni non sembrano nemmeno oggi contestabili. La posizione della filosofia della scienza non appare infatti cambiata in particolare rispetto all’atteggiamento che nega ogni carattere di scientificità a tutte le teorie psicopatologiche, in quanto la psicopatologia, pur atteg­giandosi a scienza, sarebbe una scienza in fieri e quindi una pseudo­scienza o «scienza mitica>>, come l'astrologia rispetto all'astrono­mia[14]. Tutte le spiegazioni psicopatologiche sarebbero in realtà una promessa di futura spiegazione: esse prometterebbero «future sco­perte di una generalizzazione che insieme con enunciazioni singole do­vrà spiegare una costante osservata», ma ciò «equivale a non spiegarla »[15]. Il tutto sarebbe tipico di una  scienza che si trova ancora nella fase preteorica[16].

Il carattere di scientificità delle varie teorie psicopatologiche è stato messo in discussione soprattutto da chi vede – come è noto - nel criterio della falsifica­bilità la linea di demarcazione tra il mondo della <<esperienza possi­bile» - cioè della scienza - e il mondo della « metafisica»[17] . Una teoria quindi che non possa venire confutata da nessun evento conce­pibile - che non possa cioè essere falsificata - non potrebbe aspirare ad alcun fondamento di scientificità[18]. E le teorie psicopatologiche sembrerebbero di fatto essere costantemente confermate, in quanto ap­parentemente compatibili con i più disparati comportamenti umani[19]. Sarebbe insomma «praticamente impossibile l'indicazione di un com­portamento umano non idoneo ad essere adottato come conferma di tali teorie»[20].

Ciò vale persino per quelle teorie che sembrerebbero non sottrarsi del tutto ad un controllo empirico. Si pensi ad esempio al modello medico[21]: nemmeno quando se ne è dimostrata l'in­sufficienza o la falsità esso è stato definitivamente abbandonato; anzi, con abili manipolazioni, si è cercato viceversa di sottrarlo alla confuta­zione facendo ricorso ad assunzioni o reinterpretazioni ad hoc[22].

Ancora più precaria è poi la posizione del paradigma psicologico[23]. Nel quadro di questa prospettiva, come è noto, la chiave di lettura del concetto di malattia mentale è dato dalla psicoanalisi. Le critiche mosse a quest’ultima in particolare da Popper, che la definisce una pseudoscienza,  <<hanno dato avvio al filone epistemologico della riflessione epistemologica sulla psicoanalisi. Questo è contrassegnato in generale dalla convinzione che la situazione clinica non possa fornire il tipo di garanzia che si richiede a una teoria scientifica>>[24]. In special modo Popper richiede anche per la psicoanalisi standards elevati di controllabilità empirica analoghi a quelli delle scienze naturali e che non potrebbero essere individuati nei dati clinici. Anzi, alla psicoanalisi si contesta proprio la pretesa di utilizzare i dati clinici quale strumento di verifica della validità scientifica delle assunzioni psicoana­litiche. Tale verifica infatti consisterebbe - secondo i fautori di questo para­digma - nella coerenza dell'interpretazione del terapeuta con quanto il paziente ha rivelato durante la seduta. Ma per la natura stessa del procedimento psicoanalitico «la vera misura dell'intervento dell'anali­sta» - si è rilevato - « non è controllabile da terzi », mentre « l'obiettività scientifica si raggiunge mediante la critica di materiale accessibile a tutti da parte di una comunità di ricercatori indipendenti»[25]. La semplice coerenza di una interpretazione con i dati forniti dal paziente non sarebbe quindi una valida verifica della stessa[26]. Mentre la man­canza di procedure standardizzate, l'uso criticabile del criterio della coe­renza, l'utilizzazione arbitraria di interpretazioni e la passiva accettazione di presunte relazioni fra esperienze pregresse e comportamento attuale del paziente renderebbero priva di fondamento la pretesa di utilizzare i dati clinici come strumenti di validazione delle ipotesi psicoanalitiche[27].

Le spiegazioni psicoanalitiche - si è aggiunto - non sarebbero che spiegazioni mitologiche[28] , in quanto non offrirebbero che con­getture, qualcosa cioè «che precede persino la formazione di una ipo­tesi ». Non ci sarebbe infatti «modo di mostrare che il risultato gene­rale dell'analisi non potrebbe essere  ‘inganno’»[29]. D'altra parte ­si sostiene ancora - lo stesso « Freud non chiarisce mai come possiamo sapere dove fermarci, dove sia la soluzione giusta»[30]. Non si può dire che lo stesso Freud non fosse consapevole della necessità della dimensione della giustificazione accanto a quella della soggettività della psicoanalisi, ai fini di una psicologia scientifica. Ma preferì privilegiare la dimensione soggettiva dell’esperienza psichica, <<senza vedere tuttavia in questa una forma di razionalità dimidiata o secondaria. Per Freud era importante sottolineare che la nuova teoria che egli andava delineando aveva al suo interno risorse sufficienti a garantirle legittimità teorica>>. Lo statuto epistemologico spurio della psicoanalisi risale dunque alle sue origini e porta a quella duplicità di metodo che <<si riflette anche nella discussione contemporanea>>[31].  

Le interpretazioni offerte dal paradigma sociologico della malattia mentale, infine, non sa­rebbero che espressione di un impegno ideologico di difesa dell'individuo malato di mente e di protesta contro i mezzi finora usati dalla psi­chiatria tradizionale. Nessuna base empirica giustificherebbe infatti la tesi che sia la società a creare il deviante e diffìcilmente potrà mai giu­stificarla. Al paradigma sociologico si potrebbe perciò attualmente attribuire solo e soprattutto un valore di « sensibilizzazione» a quelli che sono i problemi più importanti da risolvere per quanto attiene alla cura e all’as­sistenza del malato mentale[32].

Sembrerebbe quindi inevitabile la conclusione alla luce della epistemologia classica, basata sul criterio del controllo empirico: alla psicopatologia è negato ogni carattere di scientificità[33]. Una conclusione, questa, che rende irreperibile un concetto scien­tifico di malattia mentale che possa legittimamente aspirare a una uti­lizzazione esclusiva nella giurisprudenza.

A non diverso esito si perviene, almeno nell'ambito proprio del discorso giuridico, quand'anche si accolga l'opinione di chi, muovendo da diverse premesse, afferma la scientificità del1e teorie psicopatologi­che[34]. Il raggiungimento di un livello « adeguato di elaborazione scientifica» si otterrebbe con la formulazione di un sistema di proposizioni vere[35], rispondenti ad un certo linguaggio, a proposito di certi og­getti[36]. La verità o falsità di tali proposizioni verrebbe decisa in via immediata in base a criteri definiti di «protocollarità »; in base cioè a certi criteri che esplicitamente, o almeno implicitamente, siano stati as­sunti da ciascuna scienza come criteri di verità immediata [37].

Sarebbe perciò importante che all’interno dei diversi indirizzi psi­copatologici venissero resi il più espliciti possibile tali criteri. In tal modo si comprenderebbe che ciascun paradigma si occupa di una realtà diversa e di oggetti diversi[38] e, con ciò, perderebbe di significato an­che il conflitto metodologico. Verrebbe meno insomma l'attuale «con­fusione generale », alimentata dalla pretesa di ciascun paradigma di oc­cuparsi di « oggetti altrui ».

Le conseguenze da trarre sono quanto mai evidenti: se da un punto di vista strettamente epistemologico non sarebbe possibile scegliere fra le varie dottrine psicopatologiche in base ad un verdetto di falsità o ve­rità, se ne deve arguire che non si dovrebbe più parlare di una psico­logia, ma di diverse psicologie, in quanto ciascuna di esse si occupe­rebbe di oggetti almeno in parte distinti, considererebbe cioè le « cose» da un punto di vista differente[39].

La scientificità della psicopatologia non escluderebbe quindi la molteplicità dei paradigmi, ognuno dei quali potrebbe, una volta che siano adempiute le condizioni di validità, legittimamente rivendicare il proprio valore epistemologico.

Non dissimile è la conclusione cui si giunge allorché si prendano in considerazione quelle teorie della scienza che riducono la fondazione di quest'ultima a una questione di rilevanza storica[40].

Sembra quasi inutile ricordare come in effetti, secondo queste dottrine, il primato di una teoria rispetto ad un'altra non dipenderebbe dal fatto che in base ad un processo di verifica una di esse si possa definire scientifica, ma piuttosto dal solo fatto che essa trovi il maggior consenso fra gli scienziati: quando questo non si verifichi, la scienza entrerebbe in «crisi» a cagione della coesistenza di diversi paradigmi, nessuno dei quali possa ritenersi prevalente. Ciò è quanto si è verificato per la psicopatologia, dove, come si è visto, sopravvivono contemporaneamente diversi paradigmi esplicativi della malattia mentale, senza che sia possibile disporre di standards razionali per la loro verifica o per il loro confronto. Ogni paradigma conterrebbe i propri standards che la « crisi» spazzerebbe via con le teorie. Non ci sarebbero, in altre parole, standards superparadigmatici che permettano di scegliere fra un paradigma e l'altro[41].

Ciò significa che nella scienza psicopatologica non si può parlare di autorità della conoscenza scientifica, perché mancano le colonne su cui tale conoscenza dovrebbe poggiare. Esse sono state così descritte: <<primo, i fatti precedono le convinzioni, delle quali si dice che forniscano le prove, e sono indipendenti da esse; secondo, ciò che emerge dall’attività scientifica sono verità, verità probabili o approssimazioni di verità relative a un mondo esterno indipendente dalla mente e dalla cultura>>[42]. Ma tutto ciò non dovrebbe comunque essere considerato un problema, in quanto dal punto di vista dello sviluppo scientifico, ancora secondo Kuhn, <<le difficoltà che hanno intaccato l’autorità della scienza>> andrebbero piuttosto considerate come <<le caratteristiche necessarie di ogni processo di sviluppo o di evoluzione. Questo cambiamento consente di ripensare quello che è il prodotto dell’attività degli scienziati e come avviene che essi lo producano>>[43]. Peraltro, nemmeno un ripensamento di tal genere, che porta al c.d. cambiamento rivoluzionario, è rintracciabile nella scienza psicopatologica, ove sono ancora presenti molteplici teorie esplicative della malattia mentale.

Ciascuna di queste teorie è stata anche interpretata come un programma di ricerca in competizione per la supremazia senza che uno di essi sia riuscito a prevalere sugli altri[44]. Infatti, da una parte il programma medico, seppure settorialmente, rispetterebbe ancora un modello di euristica positiva[45], dall'altra quello psicolo­gico si sarebbe rivelato in grado di spiegare solo alcuni fatti nuovi, ma non altri come la schizofrenia. Proprio per questo all'interno del programma psicologico si è svilup­pata una molteplicità di teorie esplicative, le quali sono andate a ingi­gantire la sua «cintura protettiva ».

L'esistenza di una proliferazione di articolazioni disorganiche ed una accumulazione caotica di soluzioni parziali divergenti ha provo­cato la degenerazione del programma. Ma tutto ciò, se pure non è stato sufficiente a determinare l'abbandono e la successiva eliminazione del programma[46], ha però preparato la nascita e lo sviluppo di un altro programma di ricerca: quello sociologico, il cui nucleo sembra consi­stere nell'ipotesi che un comportamento è da ritenersi psicopatologico quando risulta deviante rispetto alle norme della struttura sociale cir­costante. Se quest'ultimo programma riesce ad affermarsi accanto agli altri, ciò è dovuto al fatto che appare progressivo rispetto ad essi, dato che si mostra in grado di giustificare oltre ai fatti vecchi (ad es. la schi­zofrenia), anche fatti nuovi, quali i sempre più frequenti fenomeni di disadattamento ma il suo «potere euristico» non sembra suffi­ciente per farlo ritenere scientificamente preferibile a «pro­grammi rivali». Sicché si deve concludere per l’inesistenza di criteri decisivi in base ai quali poter operare una scelta fra i vari «programmi di ricerca ».

L'analisi epistemologica compiuta dimostra allora che è im­possibile risolvere la «crisi» della psichiatria attraverso l'individua­zione di un concetto di malattia mentale scientificamente valido, o, quantomeno, scientificamente ‘più valido’ degli altri[47]. Le ra­gioni dovrebbero essere a questo punto sufficientemente chiare: la psi­copatologia, sia essa psichiatrica ovvero psicologica, o è troppo poco scientifica, secondo la linea del realismo epistemologico alla Popper, che definisce la psicopatologia una disciplina ancora allo stadio mitologico; o lo è troppo, si pensi alla epistemologia storiografica o alla posizione di Agazzi, secondo il quale tutti i diversi paradigmi psicologici, rispettate certe condizioni, presenterebbero i caratteri della scienza.

Né per il superamento del disorientamento derivante da siffatte conclusioni sembrano utili alcune proposte interne alla psichiatria forense (endopsichiatriche) di composizione epistemologica della complessità e del relativismo del post-modernismo scientifico: come quando si è affermato che la <<”scienza” psichiatrico-forense, ad esempio, si esprime in linguaggio non fattuale, che non soddisfa quindi criteri di verificazione empirica, poiché è linguaggio non provato sui fatti, ma in ultima analisi interpretativo e valutativo>>[48]. In tal mondo si giustifica una <<configurazione ermeneutica del sapere criminologico e psichiatrico-forense>>, nel senso di <<un approccio ermeneutico che tenga conto del linguaggio e delle prassi delle nostre attività>>. Ciò significa per gli psichiatri forensi la rinuncia alla ricerca di <<uno statuto epistemologico della psichiatria (clinica e/o forense)>> e cioè la rinuncia a <<porsi irrisolvibili problemi di “scientificità”>> della disciplina e del ruolo dello psichiatra forense. La psichiatria forense finisce così con l’essere equiparata ad un <<discorso ermeneutico che non ha referenza e la cui spiegazione filosofica>> è autoreferenziale, mentre ogni ipotesi esplicativa viene fatta dipendere <<dal peculiare modo di vedere e di costruire l’oggetto da parte del clinico>>. Insomma, allo psichiatra forense sarebbe preclusa <<la possibilità di raggiungere una obbiettività (una scientificità) tale da essere riconosciuta e accettata da tutti e da indicare univocamente la strada da percorrere sul piano della sua attività che si rivolge interamente su di un piano (un contesto) sociale e politico>>[49].  

Abbastanza evidenti dovrebbero essere a questo punto le implicazioni che in particolare da queste ultime impostazioni conseguono sul piano più propriamente giuridico: la giurisprudenza non potrebbe avere alcun punto di riferimento per rintracciare un parametro di ma­lattia mentale sufficientemente preciso ed univoco, che assicuri un mi­nimo di uniformità in relazione al giudizio sulla imputabilità del­l’agente.

Soltanto per determinati tipi di disturbo psichico[50] si potrebbe sostenere che il giudice può fare affidamento su ipotesi scientifiche for­nite di un alto grado di probabilità logica e tali quindi da attri­buire un sufficiente margine di attendibilità alla decisione concreta sulla capacità di intendere e di volere dell'imputato. Sono questi i casi in cui il disturbo presenta un substrato organico conclamato o alta­mente probabile[51]. In questi casi infatti la validità scientifica delle ipotesi esplicative del fenomeno è giustificata dall'accordo, pressoché generale, delle varie correnti psico­patologiche sulla sua sicura (ad es. psicosi esogene) o almeno altamente probabile (ad es. psicosi endogene) origine organica. Sono forse queste le uniche ipotesi in cui al giudice sembra aprirsi la possibilità di un convincimento circa la capacità di intendere e di volere dell'imputato all’apparenza fondato scientificamente, nel senso però, almeno ai fini ristretti del diritto penale, «della non remota possibilità di mancanza o di notevole diminuzione della capacità in questione».[52].

Ma, in primo luogo, come vedremo oltre, le ipotesi di disturbo da ricondurre al modello medico rappresentano una categoria marginale per la prassi, la quale molto più spesso è costretta a confrontarsi con valutazioni di infermità dalla natura sfuggente ed indefinita, come i disturbi di personalità, le anomalie del carattere o i disturbi borderline. Con riferimento ad essi l’unica certezza della psicopatologia sembrerebbe essere quella dell’incertezza della loro natura, nel senso che non sarebbe possibile dimostrare né parimenti escludere la loro natura di disturbo mentale[53]. Mentre, rispetto a infermità di questo tipo, oggi sempre più spesso la prassi è impegnata a verificare la tenuta delle tradizionali categoria dommatiche del reato e della prova.

In secondo luogo, occorre ricordare come anche nella psicopatologia si vada affermando un modello circolare di spiegazione causale, a fianco o in sostituzione del tradizionale paradigma lineare, che appare del tutto insufficiente a chiarire situazioni patologiche particolarmente complesse[54]. Questa visione della causalità ha portato alla elaborazione di una nozione c.d. integrata di malattia mentale, secondo la quale il disturbo psichico andrebbe interpretato, spiegato e studiato alla luce di differenti ipotesi esplicative circa la sua origine, natura e influenza sul comportamento del soggetto che ne è affetto[55]. Ciò che caratterizza siffatto modello è l’idea che si debba abbandonare qualsiasi tentativo di spiegazione monocausale della malattia mentale a favore di una spiegazione plurifattoriale integrata. Così, anche nelle ipotesi in cui la causa della patologia mentale viene individuata in una di natura biologico-organica, questa può essere valutata semplicemente come <<il supporto necessario ma non sufficiente al realizzarsi del disturbo psichico>>[56]. Da qui l’esigenza di rinunciare a qualsiasi forma di riduzionismo insito nella eziologia monocausale, e in particolare a quello più debole rappresentato dal riduzionismo psicologico e psico-sociale. Quest’ultimo infatti <<enfatizza in psichiatria il ruolo, pur importante, delle scienze umane>>, ma minimizza <<arbitrariamente la radice medico biologica della psichiatria stessa>>[57]. Mentre alla psichiatria biologica andrebbe riconosciuto il merito del recupero della prospettiva eziologica, che, come è noto, era stata considerata al di fuori delle competenze della psicopatologia, in quanto al di là dei suoi confini, ad opera della psichiatria ad orientamento fenomenologico a partire da Jaspers. Oggi invece si sottolinea l’insostituibilità della eziologia, in quanto la dimensione causale sarebbe <<conditio sine qua non della scientificità del sapere (il sapere è essenzialmente conoscenza delle cause), taglio discriminante tra “scienza” e “non scienza” cosicché la parziale insufficienza del modello medico che deve essere integrato dall’approccio psico-sociale-antropologico non comporta la rinuncia al metodo dell’erklären>>[58]. Ne deriva l’approccio multifattoriale alla malattia, che si orienta verso <<una concezione sinergica e sintetica di causalità ascendente e causalità discendente>>, secondo un principio di circolarità della causalità. Tuttavia <<la ferma difesa della legittimità dell’indagine eziologica in psichiatria non poggia su una fede dogmatica di certezze in ambito causale: è evidente che la ricerca della causa tanto è essenziale al modello conoscitivo della scienza quanto è in ultima analisi un ideale regolativo>>[59]. Esso servirebbe fondamentalmente ad evitare che la psichiatria si riduca fatalmente <<a letteratura edificante>>[60]. Perché ciò non avvenga, occorre che la psicologia e la psichiatria possano fare affidamento sul metodo scientifico.

Ma è proprio la mancanza di metodo scientifico che ancora da ultimo si rimprovera alla psicologia e alla psichiatria, avanzando una serie di ragioni. In primo luogo, i disturbi e i sintomi non potrebbero essere sottoposti ad una obbiettiva misurazione. Inoltre, sembrerebbe insuperabile il fatto che i dati di natura soggettiva rimangono comunque non falsificabili  e le interpretazioni di essi sono metafisiche. In terzo luogo, a differenza dalle scienze naturali, nelle quali entità e fenomeni possono essere assegnati a classi e costituiscono un genere di natura, la medicina che si occupa di psicologica ha a che fare con individui, entità spazio-temporalmente limitate. E, infine, perché il sistema mente-cervello sarebbe fondamentalmente indeterministico[61].

L’accertamento della imputabilità penale in caso di infermità sembrerebbe dunque destinato alla incertezza scientifica, dato che in quest’ambito di realtà appare difficile se non impossibile completare la descrizione del fenomeno con la sua interpretazione e spiegazione.

Peraltro, stando ancora ai filosofi della scienza, se pure con riferimento al sapere psichiatrico e psicologico non si possa parlare di scienza in senso classico, ma piuttosto di un sapere più limitato, di tipo descrittivo, classificatorio o ermeneutico, anche a questo sapere si potrebbe comunque riconoscere il requisito della scientificità. Infatti, si precisa, oggi <<abbiamo attenuato i requisiti della scientificità, e siamo disposti a parlare di scienze anche nel caso di discipline esclusivamente (o quasi esclusivamente) di osservazione e classificazione, pur conservando l’aspirazione, quando sia possibile, a pervenire anche alla spiegazione>>[62]. In altre parole, occorre prendere atto della generale inaccessibilità dei processi mentali, che – si afferma – sfuggirebbero a qualunque ricerca scientifica seria[63]. E ciò, nonostante l’aiuto delle più recenti tecniche diagnostiche elaborate dalla psicopatologia moderna.

L’invito ad accontentarsi della osservazione e della classificazione tuttavia si scontra in sede penale con la necessità di valutazione del disturbo mentale in relazione alla sua incidenza sulla capacità di intendere e di volere del soggetto. In altre parole, con la necessità di spiegare e capire il rapporto fra infermità e comportamento criminale, onde poter muovere il rimprovero di colpevolezza relativamente al fatto di reato.

 

3. Il tentativo di superamento della “crisi” attraverso l’elaborazione di sistemi diagnostici condivisi (DSM III-IV e ICM).

L’elaborazione di nuove tecniche diagnostiche rappresenta un tentativo di risposta alla situazione di crisi e di incertezza in cui da anni si dibatte la scienza della malattia mentale e una presa d’atto da parte della comunità degli psichiatri del grave disorientamento psicopatologico derivante dalla coesistenza di molteplici modelli interpretativi della malattia mentale. La conseguenza è stata la formazione di un sistema diagnostico, il DSM[64], con l’obbiettivo di farne il nuovo paradigma, in quanto oggetto del consenso della maggioranza degli scienziati[65] e, sul piano metodologico, la fonte di un linguaggio comune con il quale comunicare senza fraintendimenti. Per realizzare tale obbiettivo si punta sul sintomo e si mette in secondo piano il problema della spiegazione causale del disturbo psichico.

In particolare sul piano metodologico l’elaborazione classificatoria offerta dall’emergente paradigma diagnostico-sintomatologico vuole rappresentare una soluzione che consenta alla psichiatria di godere finalmente di un periodo, secondo la terminologia kuhniana, di scienza normale, dopo quello di crisi in cui da troppo tempo si dibatteva. Così, come apertamente riconosciuto dagli stessi psichiatri, i cambiamenti nella nosografia psichiatrica attraverso la generalizzata adozione del manuale diagnostico, il DSM, <<sono stati finalizzati ad evitare un eccesso di importanza delle teorie prevalenti in psichiatria sul rilievo dei sintomi e quindi sulle diagnosi>>. In breve, <<la meta ideale proposta a partire dal DSM-III è ... una nosografia neutrale, depurata da modelli eziologici e teorie>>[66]. Il sistema classificatorio del DSM dovrebbe dunque caratterizzarsi per la sua neutralità descrittiva e ateoreticità.  

In realtà, nemmeno il DSM sembra in grado di offrire una risposta rassicurante. Il DSM, o meglio la sua psicopatologia, infatti, se pure sembrerebbe, e così si è voluto far credere,  <<la sintesi e il felice “superamento” della psicopatologia classica>>, di fatto assumerebbe <<una posizione del tutto incompatibile con la psicopatologia classica, sia strutturalista  (nelle sue due versioni: riduzionistica e integrazionistica), sia funzionalista, oltre che con la metodologia diagnostica della clinica medica in generale>>. In realtà, <<malgrado la sua ostentata professione di “ateoreticità”>>, il DSM non sarebbe <<affatto immune da ogni presupposto teoretico, anche se la sua posizione epistemologica corrisponde a quella del riduzionismo più estremo, rappresentato dal funzionalismo operazionistico radicale>>[67]. Se queste sono le caratteristiche del DSM, ecco allora che anche il metodo scientifico che esso impone si caratterizza per un estremo riduzionismo secondo una prospettiva meramente operazionistica ed economicistica della scienza[68]. Secondo tale prospettiva il criterio della affidabilità scientifica della diagnosi diventa allora <<la probabilità che due o più clinici indipendenti si trovino d’accordo nella definizione diagnostica del disturbo>>[69]. E infatti proprio a riguardo del valore da riconoscere alla diagnosi occorre rilevare che con il DSM si abbandona il principio classico dell’organizzazione gerarchica del materiale clinico psichiatrico introdotto da Jaspers, e dunque di una nosografia nella quale era implicita una gerarchia che giustificava la c.d. diagnosi differenziale. Il DSM, ponendo sullo stesso piano tutte le diagnosi, attraverso il concetto di comorbidità introduce la possibilità di evidenziare nella stessa persona  l’esistenza contestuale o in successione di patologie diverse e quindi di formulare diagnosi multiple nei confronti dello stesso soggetto[70]. Tutto ciò dal punto di vista del rigore scientifico rappresenterebbe però un’involuzione rispetto ai risultati già raggiunti dalla psicopatologia classica, risultati, peraltro, dei quali già l’analisi epistemologica precedente ha mostrato i limiti scientifici.

Al DSM si rimprovera allora di aver ridotto <<la nosografia psichiatrica a un inventario rapsodico di quadri clinici privi di un’autentica giustificazione epistemologica>>[71], in seguito alla soppressione della diagnosi psicopatologica differenziale, in particolare tra psicosi e psicopatie, fondamentale per la teoria e la prassi clinica della psichiatria classica. Insomma, attualmente in psicopatologia grazie al DSM, che inquadra tutti i disturbi mentali in esso contemplati come entità nosografiche alle quali corrispondono altrettante diagnosi cliniche, dal metodo paradigmatico della spiegazione, tradizionalmente valido per le psicosi, si sarebbe ormai passati ad un uso generalizzato e indifferenziato di quello della comprensione, esteso cioè anche alle psicosi o alle psicopatie sintomatiche di psicosi e non solo alle tipologie o fenomeni psicopatici di natura non sintomatica. Rinunciare però a spiegare l’eziopatogenesi della malattia mentale[72] significa non superare i limiti concettuali che impediscono alla psichiatria di definire i quadri clinici in termini scientifici malattie in senso medico e quindi non poter equiparare la prassi psichiatrica a quella medica[73]. La psicopatologia infatti potrebbe definirsi scientifica, solo qualora la clinica venisse integrata da una psicopatologia <<fonte di categorie e di parametri organizzativi che unifichino il molteplice dell’esperienza orientando la ricerca verso una nosologia critica aperta alla connessione causale, pur nella consapevolezza dei limiti di ogni costruzione teorica>>[74].  

    Tutto ciò ha naturalmente avuto gravi riflessi anche nella psicopatologia forense, dove, come da ultimo si è sottolineato, l’<<estensione superficiale della diagnosi, unita alla perdita del criterio verticale e quindi della profondità del disturbo e quindi della considerazione del minore o maggiore coinvolgimento da parte della patologia della capacità di determinarsi sembra aver di molto allentato i legami fra le diagnosi e quella “capacità di intendere e volere” la cui perdita o grave riduzione per ”infermità” è il primo quesito chiesto  ai consulenti psichiatrici nelle perizie>>[75].

Un’insoddisfazione generalizzata verso il DSM-IV sembra dunque ormai serpeggiare anche nella comunità scientifica di riferimento, nella quale si sta sviluppando una profonda riflessione proficua e ad ampio raggio. Da questa riflessione è emersa l’esigenza di ridimensionare il ruolo attribuito al <<descrittivismo aneziologico: in altri termini, l’interesse per l’eziologia (genetica ma anche ambientale…) sembra recuperato e valorizzato non solo a fini clinici, ma anche per una diagnosi più solidamente fondata>>. Mentre <<il giustificato interesse per le moderne tecniche di neuroimaging e per i vari markers biologici non va a scapito dell’importanza che è doveroso attribuire alle determinanti ambientali>>[76]. Alla luce di queste riflessioni già si parla di un superamento del modello diagnostico-sintomatologico del DSM, mentre - come si vedrà – di esso incominciano a rinvenirsi tracce nella giurisprudenza più attuale in tema di imputabilità[77]. A metterlo in crisi dovrebbe essere un nuovo e rivoluzionario modello diagnostico, quello del DSM-V, che è in fase di elaborazione[78]. Quest’ultimo paradigma del disturbo mentale sarebbe caratterizzato dal recupero della teoreticità; dalla definizione dei disturbi della personalità secondo una prospettiva processuale (evolutiva) più relazionale, secondo un’ottica dimensionale; dall’analisi del disturbo secondo un modello fattoriale su base statistica (base empirica); dal recupero quindi del metodo empirico, alla cui base si pone l’esigenza di una classificazione empiricamente fondata. È questo il modello della complessità, dal quale però non si possono pretendere risposte in termini di certezza  ma di semplice probabilità. Seguire questa complessità significa abbandonare ottiche settoriali; non cedere alla tentazione di facili semplificazioni ovvero a quella di costruire il mito risolutore, che potrebbe oggi essere rappresentato dal paradigma delle neuroscienze e dalla predominanza della cultura neopositivista; valutare invece con attenzione l’interpretazione integrata, multifattoriale della malattia mentale. L’obbiettivo sarebbe quello di non rinunciare a una nosologia scientifica, <<pur sapendo che il modello che possiamo raggiungere è indubbiamente riduttivo e impreciso e, di conseguenza, soggetto a revisioni continue>>[79].  Una nosologia scientifica, infatti, presenta l’indubbio vantaggio di ridurre gli influssi <<”parrocchiali”>> e i <<nazionalismi, che hanno ostacolato il progresso verso un unico sistema classificatorio e la possibilità di differenziare gli ambiti di cui si ha una conoscenza parziale da quelli in cui si procede “facendo finta” di sapere o generalizzando impropriamente funzionamenti mai verificati>>[80]. Una parte rilevante della stessa comunità scientifica manifesta dunque apertamente la consapevolezza che solo un superamento dei preconcetti può migliorare la nosologia e che <<molti quesiti nosologici importanti in psichiatria sono sostanzialmente non empirici. Quando la psichiatria fa proprio lo “stendardo” della classificazione scientifica, dobbiamo stare attenti a non promettere più di quanto possiamo mantenere>>[81].

Frutto di questa consapevolezza è senza dubbio il DSM-V: una risposta alle sempre più numerose voci, e non solo degli psichiatri forensi, che invocano un ritorno alla psicopatologia classica, almeno quanto al metodo diagnostico. Troppo spesso infatti occorre registrare il fallimento della prassi del vizio di mente per la mancanza nella disciplina della previsione di standards qualitativi della diagnosi di infermità ai quali la perizia psichiatrica dovrebbe attenersi da un lato, dall’altro per l’impossibilità di qualsiasi controllo da parte del sistema penale circa le tipologie di disturbi mentali qualificabili come infermità di mente in grado di escludere o diminuire la capacità di intendere o di volere dell’imputato.

Per ovviare a siffatte lacune non si è mancato di sostenere come inevitabile un ritorno ai valori teoretici, clinici e didattici della psicopatologia classica[82] o, in particolare, un recupero del modello metodologico di tipo medico, in quanto questo sarebbe l’unico in grado di fornire la prova più affidabile per decidere se rinunciare a condannare una persona in quanto inferma di mente. Si propone quindi un modello medico di diagnosi di malattia, che per essere tale però dovrebbe caratterizzarsi per una chiara descrizione in grado: a)di identificare i segni e i sintomi della malattia, le modalità di insorgenza e le caratteristiche del suo sviluppo; b)di distinguere questa malattia dalle altre (la c.d. diagnosi differenziale); c)di prevedere con ragionevole certezza, sulla base di attenti studi successivi, gli esiti spontanei della malattia[83].

Quanto poi al secondo piano del giudizio di non imputabilità e cioè quello comunemente definito normativo-psicologico e cioè relativo alla incidenza del disturbo sulla capacità di intendere e di volere, si precisa che il modello medico assunto da questo orientamento sarebbe in grado di offrire affidabili parametri valutativi. In particolare il metodo di indagine di questo modello medico sarebbe un processo investigativo di natura scientifica che ha per oggetto la malattia mentale e che può essere considerato scientifico in quanto rispetta i requisiti dell’osservazione, classificazione e verifica dei comportamenti delle persone psichicamente disturbate nei limiti in cui lo consente l’oggetto di indagine, che poi, in ultima analisi, è l’essere umano. Solo un sistema di catalogazione di tal genere, basato cioè sull’osservazione, consentirebbe diagnosi accurate, che rappresentano il primo e fondamentale gradino dell’approccio del modello medico alla malattia mentale. Esse infatti, derivando da descrizioni cliniche della malattia, precise, differenziate o non ambigue, rappresentano un “termine operazionale” che tutti gli osservatori esterni possono immediatamente applicare ad uno specifico comportamento, senza particolari sforzi interpretativi. Un termine siffatto offrirebbe maggiori garanzie che oggetto comune di osservazione sia lo stesso fenomeno, in particolare quando si tratta di decidere circa l’influenza del disturbo sulle capacità mentali del soggetto. A tal fine indispensabili si rivelano precise descrizioni delle diverse tipologie di scelta sulle quali ciascuna malattia mentale tipicamente interferisce[84] e dei sintomi che la caratterizzano, onde verificare se essi rispondano al requisito di impedire alla persona di compiere scelte pertinenti[85].    

Anche gli psichiatri sono ormai convinti che per continuare ad avvalersi dei moderni schemi diagnostici ai fini della valutazione della diminuzione o eliminazione della capacità di intendere o di volere occorre affiancare alla diagnosi “DSM” altri e diversi criteri. In particolare, da ultimo, questi sono stati individuati in quello di tipo biologico-medico, di tipo clinico-psichiatrico e di tipo psicologico. Un’operazione di tal genere garantirebbe di <<usare non un puro ed unico riferimento clinico nosografico ma l’adozione di un procedimento complesso che preveda di procedere come brevemente schematizzato: 1- Diagnosi clinica descrittiva secondo i criteri dell’ultimo D.S.M., oggi il IV Tr. 2- Apprezzamento clinico diagnostico del tipo di organizzazione prevalente (nevrotica, psicotica ….) o del tipo di modalità di esperire, con particolare riguardo anche alle ipotetiche azioni criminose. 3- Solo alla luce dei primi due punti la valutazione psicodinamica potrà aiutare a far luce sulla criminogenesi, apportando importanti elementi di comprensione del rapporto fra storia, psicologia della persona e comportamenti>>[86].

Dal riconoscimento che la classificazione categoriale non basta ai fini forensi, deriva l’ulteriore e diversa proposta di introdurre anche una classificazione dimensionale. Il compito del perito sarebbe allora quello di definire anche secondo specifici gradi di manifestazione, le esperienze psichiche e quelle comportamentali che caratterizzano il disturbo mentale diagnosticato secondo il modello categoriale del DSM. Ciò significherebbe precisare la portata del disturbo diagnosticato tenendo conto anche di aspetti c.d. dimensionali; il che in ultima analisi significherebbe descrivere, quantificandole, le manifestazioni relative a ciascuna dimensione del disturbo e formulare interpretazioni sul modo in cui esse insieme operano, in particolare al fine della loro valutazione sulla capacità di intendere e di volere del soggetto. Si riconosce peraltro che non si potrebbe comunque arrivare ad una precisa ed oggettiva delimitazione, ad esempio, del lieve disturbo di personalità da quello grave in grado di compromettere le capacità volitive dell’individuo[87]

Ancora nella psichiatria, in particolare forense, sono rinvenibili altresì opzioni a favore di un’interpretazione rigorosa del DSM, nel senso di uno sfoltimento dei disturbi che concorrono a formare lo schema nosografico da utilizzare in sede peritale, onde poter disporre di uno schema di riferimento diagnostico il più possibile sottratto alla sensibilità del singolo perito. In particolare, secondo questo orientamento andrebbero esclusi ai fini della definizione di infermità di mente i tratti e i disturbi della personalità, come le psicopatie, gli stili nevrotici e le perversioni[88].

Giustificata appare allora l’affermazione che i modelli diagnostici attuali manifestano la <<crisi dell’attendibilità della nosografia, che tende a rivelarsi sempre più come una dimensione “economica” piuttosto che scientifica, nel senso che rappresenta uno strumento tanto indispensabile nella pratica clinica quanto fragile ed insufficiente sotto l’aspetto critico-interpretativo>>[89]. Emerge dunque una generalizzata sfiducia verso i moderni manuali diagnostici, dei quali si contesta apertamente l’affidabilità scientifica nonostante la loro ampia diffusione e il consenso di cui godono nella comunità degli scienziati. Psichiatri, psichiatri forensi ma anche giuristi concordano sul fatto che lo strumento diagnostico più moderno e diffuso, il DSM, non offre sufficienti garanzie di scientificità. Anzi, sarebbe un modello puramente operativo privo di radici epistemologiche, la cui trasposizione pura e semplice nel mondo del diritto rende problematica la collaborazione fra scienze giuridiche e scienze empirico-sociali. Collaborazione peraltro ineludibile quando per decidere sulla responsabilità penale si tratta di valutare le capacità mentali del soggetto affetto da una patologia psichica.

 

 

4. La dimensione teorica della collaborazione fra diritto penale e scienze empirico-sociali.

Ma parlare di collaborazione nel giudizio di imputabilità significa affrontare la questione dei rapporti fra scienza giuridico-penale e scienze empirico-sociali e in particolare ai nostri fini fra scienze giuridico-penali e psicopatologia. L’interrogativo che costantemente si ripropone e che ha trovato nel corso degli anni molteplici e divergenti risposte attiene infatti al tipo di funzione che queste discipline extragiuridiche devono rivestire rispetto al diritto: in breve, se si tratta di una funzione di complemento o di una funzione simmetrica. Sempre più emerge la convinzione della necessità di una collaborazione in termini di necessaria complementarità e interdipendenza tale da allon­tanare il pericolo di facili opzioni riduzionistiche a favore delle scienze da un lato, e dall'altro di tendenze di segno opposto a vantaggio di un esasperato tecnicismo formalistico, che rivendichi il predominio assoluto di una pura dogmatica penale[90].

Ma perché tutto ciò si realizzi, come da tempo ha indicato Stella, occorre rispettare il «fondamentale criterio metodologico che vieta di ricercare, al di fuori del diritto, il significato dei concetti 'giuridici', che impone invece di percorrere la strada sicura che va dall'analisi delle esigenze e delle finalità del giudizio civile e penale (dalla individuazione dell"immagine del mondo' pro­pria del giudice, ossia - appunto - del 'punto di vista' giuridico) alla formulazione dei concetti»[91]. ­Ancora aperta rimane tuttavia la questione metodologica di fondo circa il modo in cui rendere compatibili, <<rispettivamente, il punto di vista normativo e quello proprio delle scienze empirico-sociali, tanto più che, specie sul terreno penalistico, la specificità dell'approccio giuridico-normativo continua ad assolvere (tra l'altro) ineludibili funzioni garantistiche di limite alla potestà punitiva statale»[92].

Anche le conoscenze del dato meta-giuridico devono adeguarsi alle esigenze garantistiche di lega­lità e di certezza giuridica. E’ quanto ha sostenuto la stessa Corte costituzionale a proposito del recepimento normativo del dato extragiuridico. Secondo la Corte infatti, per non violare il principio di legalità (art. 25 Cost.) sotto il profilo della esigenza di determinatezza della fattispecie, le norme penali devono fare <<riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiono verificabili>>[93]. Ma è ancora la stessa Corte costituzionale a precisare che tale requisito di verificabilità è da considerare irrealizzabile solo qualora <<i dati sui quali la legge riposa siano incontrovertibilmente erronei o raggiungano un tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice>>[94]. E tali non potrebbero essere giudicati i dati per il solo fatto di essere riconducibili a diversi e mutevoli orientamenti scientifici, come ad esempio è dato riscontrare a riguardo del concetto di infermità.   

 La verità è che, soprattutto in questi ultimi anni, l’interazione fra il sapere giuridico e quello delle diverse scienze non solo appare ineludibile ma è diventata sempre più stretta ed estesa sia per l’accertamento processuale sia per la verificabilità della tenuta empirica delle categorie dommatiche sostanziali, come emblematicamente avviene in tema di imputabilità. La diversità di scopi, di metodi di prova e perfino il differente modo di concepire la ‘verità’ si coglie infatti in modo inquietante quando si tratta di valutare la capacità di intendere e di volere dell’imputato. Il giudice su tale questione vorrebbe una prova scientifica ‘forte’, richiesta questa che troppo spesso si scontra con la natura idiografica della psicologia e psichiatria cliniche, in particolare forensi e che, conseguentemente, mette in difficoltà lo stesso giudice alla ricerca spesso disperata di un ‘convincente’ inquadramento nomotetico della valutazione dello stato mentale del soggetto al momento del fatto[95].

Tutto ciò peraltro non può essere interpretato nel senso di un abbandono del tentativo di costruire categorie dommatiche dotate di una affidabile base empirico-fattuale. Emblematica sul punto è ancora la questione dell’imputabilità. La sua analisi ha fatto emergere infatti l’esigenza, sempre più sentita e fatta propria dalla prima delle sentenze della Consulta sopra richiamate, della interpretabilità em­pirica delle categorie giuridico-penali, quale prerequi­sito di un sistema penale, nel quale <<le norme penali descrivano fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo attraverso i criteri messi a disposizione dalla scienza e dall’esperienza attuale>>[96]; con la conseguenza che princìpi fondamentali, quali quello di tassa­tività e di protezione dei beni giuridici, tanto meno verranno elusi quanto più le forme di offesa si concretizzeranno in comportamenti empiricamente afferrabili e suscettibili di reale accertamento.

Da ciò consegue che  le <<scelte normative non possono essere mai compiute, e tanto meno giustificate, solo in base a valutazioni o a valori », dal momento che « il problema della giustizia di una scelta normativa non può essere scisso da quello della sua reale effettività: ciò che è importante non è la 'dichiarazione' del 'diritto giusto'  bensì la sua 'realizzazione'>>[97]. Ma parimenti non si può pretendere che la scienza «si astenga dal fornire giudizi e valutazioni oltre che fatti ed informazioni... Ciò che... si può, invece, e si deve pretendere è che giudizi e valutazioni non siano contrabbandati - in buona o mala fede - per fatti o risultati della ricerca empirica ». Per converso, occorre tener presente che i dati empirici di per sé non sono mai idonei a smentire <<la validità di scelte normative: decisiva è sempre la valutazione del dato, la cui rilevanza discende solo dal suo inserimento in un complesso di elementi ben più articolato dell'informazione empirica trasmessa dal dato stesso»[98].

Quanto poi alle scelte giudiziali, soprattutto in materie complesse e controverse, <<nelle quali i dati offerti dalla scienza si incrociano con i precetti giuridici>>, per un verso occorre riconoscere che le decisioni del giudice <<sono sempre vie d’uscita da un labirinto, nel quale l’orientamento è quello dei valori di fondo da cui il giudice parte>>[99]. Per altro verso occorre sottolineare però come nel confrontarsi con la scienza il giudice debba essere ben consapevole delle incertezze delle prove c.d. scientifiche e non debba accettare l’idea di una presunta oggettività assoluta delle expert evidences. Anzi, deve essere consapevole dei pericoli a cui va incontro allorché si confronta con esse[100]. In particolare due sono i pericoli evidenziati: il primo <<quello di cader nell’inganno della junk science, di quella cattiva scienza che può presentarsi nel processo in modo pomposo ed apparentemente credibile agli occhi del non-specialista. Incombe quindi sul giudice un dovere di selezionare in modo adeguato gli esperti chiamati a consulenza>>. Mentre il secondo pericolo per il giudice consisterebbe nel fatto di <<ammettere soltanto il margine di incertezza delle operazioni peritali e limitare l’accuratezza del suo controllo soltanto alle applicazioni tecniche della scienza operate nel processo, senza tenere conto dell’incertezza, in sé e per sé, delle metodologie scientifiche adottate>>[101].   

L’informazione empirica, se precisa e rigorosa, dovrebbe perciò concorrere semplicemente a porre le circostanze favorevoli alla assunzione di decisioni giuridiche parimenti serie, rigorose e consapevoli. Appare infatti  particolarmente pertinente e generalizzabile anche alle problematiche psicopatologiche l’osservazione svolta a proposito dei contributi che la matematica può dare alla decisione giudiziale, secondo la quale <<esiste sempre il rischio che il vero e proprio mistero che circonda le questioni matematiche – la relativa mancanza di chiarezza che le rende, per il profano, allo stesso tempo impenetrabili e sorprendenti – faccia sì che venga loro attribuito un credito quasi certamente immeritato ed un peso che, dal punto di vista logico, non potrebbero rivendicare>>[102]. Con la conseguenza di riconoscere alla prova scientifica una <<forza schiacciante>>, che <<rischierebbe di far risorgere un sistema rigido di prove legali>> con la conseguente svalutazione del ruolo del giudice[103]. Queste osservazioni appaiono ancor più significative se, come con sorpresa è emerso, il contributo delle scienze forensi avrebbe favorito la condanna di un innocente piuttosto che la sua assoluzione[104].

Insomma, il mondo del diritto non può più ignorare la rivoluzione scientifica che lo ha raggiunto in seguito all’irrompere delle scienze, soprattutto sociali, nel suo regno e che vede la prassi, esperti e giudici, coinvolta in prima linea[105]. Ma spettano ancora ai giudici, come si vedrà, le sorti di tale rivoluzione. La dottrina, da parte sua, continua a giocare un ruolo importante: difendere il vecchio ovvero sostenere il nuovo. In quest’ultimo caso su di essa ricade la responsabilità di preparare la rivoluzione, ai giudici e agli avvocati di realizzarla. Gli esperti a loro volta, pur travolti dalla tempesta, dovrebbero cercare di unire le proprie forze per resistere, affinando le proprie tecniche e il proprio sapere, alle nuove pretese del diritto, altrimenti dovrebbero abbandonare il campo[106]. La rivoluzione scientifica però si vince solo se il giudice e l’esperto ‘giocano la stessa partita’, quella cioè dell’accertamento della responsabilità penale nel rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Partita che, ai nostri fini, significa esigenza di un accertamento di responsabilità che tenga conto delle effettive condizioni psichiche del soggetto (principio di colpevolezza) e del suo reale bisogno di risocializzazione attraverso la pena (principio di rieducazione).

E’ questa la moderna dimensione della collaborazione, nella quale occorre che il diritto abbia una maggiore consapevolezza della scienza e che ad essa si congiunga, imparando a coglierne i progressi, quei risultati cioè, che in quanto stabilizzati e corroborati, sono scientifici[107]. Perché ciò si realizzi, per quanto qui di interesse, occorre in primo luogo una formazione professionale dei giuristi che, attenta anche alle scienze sociali e del comportamento, offra loro gli strumenti per scegliere l’esperto “migliore”, nel senso di quello più competente a dare un contributo tecnico in ragione delle particolarità del caso concreto da esaminare e parimenti assicuri gli strumenti per valutare criticamente l’apporto tecnico-scientifico dell’esperto psichiatra forense[108].

Dovrebbe rappresentare, questa,  la fase matura del processo di interazione fra diritto e sapere extragiuridico, in particolare psichiatrico-psicologico, in cui l’esperto rispetta il proprio ruolo di scienziato in grado di aiutare il giudice nella decisione, soprattutto se si tratta di decidere sullo stato mentale dell’imputato. Per raggiungere tale stadio occorrerebbe però essere in grado di abbandonare quello più primitivo, dell’esperto-sciamano, nell’autorevolezza del quale il giudice vede la garanzia di scientificità della valutazione e occorrerebbe aver respinto anche l’idea che l’affidabilità dell’esperto derivi dal fatto che egli sia rappresentativo della categoria professionale di appartenenza. Secondo questa idea infatti la garanzia di scientificità starebbe nella generale accettazione della metodologia e della teoria impiegate nella singola perizia da parte della comunità degli esperti. E’ quanto si verifica, ad esempio, a proposito del metodo diagnostico del DSM, quando il giudice fonda su di esso la motivazione della sentenza in tema di imputabilità, accontentandosi del fatto che il DSM risulta il più diffuso e accettato sistema di diagnosi della malattia mentale. Tale fatto viene infatti interpretato come garanzia di affidabilità scientifica.[109]. Peraltro, quando la scienza esperta è la psichiatria o la psicologia e la questione riguarda la capacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto, ancora altamente controverso è se il processo di maturazione verso la ‘scientificità’ della collaborazione sia realmente ipotizzabile.       

      

 

5. La dimensione pratica: gli ultimi approcci della giurisprudenza alla malattia mentale.

Se questa è la posizione della dottrina, in parte avallata dalle decisioni della Corte costituzionale richiamate, quella della giurisprudenza non sembra meno significativa, in particolare quando si tratta di decidere sulla base di valutazioni divergenti e contraddittorie in tema di infermità mentale.

Così, sul fronte processual-probatorio, quanto alla metodologia della decisione, è la stessa Cassazione, come già ricordato, a precisare che, in caso di conclusioni peritali sullo stato mentale dell’imputato insanabilmente divergenti, il giudice deve esplicitare i criteri in base ai quali ha operato la sua scelta tra le opposte tesi scientifiche e deve dare congrua ragione di tale scelta[110].

Mentre, per quanto attiene alla collaborazione fra i diversi saperi in caso di conflitto, è ancora la Corte di Cassazione, sul presupposto di un primato assoluto del diritto sulla scienza psicopatologica, a fissare la regola giuridica che in tema di stati emotivi o passionali l’accertamento di uno stato patologico che giustifichi l’esclusione o l’attenuazione dell’imputabilità va sì effettuato <<sulla base degli apporti della scienza psichiatrica, (questa), tuttavia, nella vigenza dell’attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di “infermità” …. ad alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi o passionali di cui si sia riconosciuta l’esistenza>>[111]. Ma, sempre nella giurisprudenza della Corte, è rinvenibile anche l’orientamento di segno opposto, secondo il quale, in una visione esoterica del sapere psichiatrico, <<la valutazione dell’idoneità del vizio di mente riscontrato in sede peritale a produrre una notevole diminuzione>> della capacità di intendere e di volere <<sfugge alle conoscenze tecniche del giudice di merito, sicché essa deve ritenersi implicita nella valutazione clinica operata dal perito>>[112].  E’ in quest’ottica che si giustifica allora l’affermazione in altra sentenza, secondo la quale appare contraddittorio, anche alla luce dell’art. 220 c.p.p., che autorizza la perizia quando necessitano particolari conoscenze tecniche, scientifiche o artistiche, <<pretendere dal giudice la autonoma dimostrazione della esattezza delle conclusioni raggiunte dal perito, quando a tali conclusioni egli ritenga di prestare adesione, dovendosi invece ritenere sufficiente che dalla motivazione del provvedimento giurisdizionale risulti come detta adesione non sia stata acritica e passiva, ma sia stata frutto di attento e ragionato studio, necessariamente condotto, peraltro, nel presupposto che le suddette conclusioni peritali, sia per la “particolare competenza” di cui il perito deve presumersi fornito ..., sia per l’impegno che egli deve assumere all’atto del conferimento dell’incarico ..., siano, fino a prova contraria, affidabili>>[113]

Sul fronte invece della fondatezza empirica delle categorie dommatiche, la questione della natura o meno di vizio di mente si pone in termini particolarmente controversi con riferimento a quei disturbi, come quelli di personalità, ai confini con la normalità e ai quali gli indirizzi moderni della psicopatologia riconoscono la qualifica di infermità o meglio, secondo una accezione più in voga, di disturbo mentale.

Poiché la Cassazione aveva affrontato e risolto la delicata questione in maniera contraddittoria a seconda del paradigma psicopatologico applicato, con la conseguenza di divergenti e contrastanti indirizzi giurisprudenziali sul punto[114], sono intervenute le Sezioni unite della Cassazione[115], in adempimento alla funzione di nomofilachia innescata dalle difficoltà di una materia nella quale l’affermazione del principio di diritto affonda le sue radici nel mondo empirico-fattuale della scienza medico-legale e psichiatrico-forense.

A queste scienze si è rivolta la sentenza, per seguirne giustamente le ultime acquisizioni in campo psicopatologico a favore di una interpretazione ampliativa e adeguatrice della categoria infermità. I giudici hanno perciò ritenuto che anche <<i disturbi della personalità, come, in genere quelli da nevrosi e psicopatie, quand’anche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle “malattie” mentali, possono costituire anch’esse “infermità”, anche transeunte, rilevante ai fini degli artt. 88 e 89 c. p., ove determinino lo stesso risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive. Deve, perciò, trattarsi di un disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi…>>.

Ma è ancora merito delle Sezioni unite l’aver finalmente riconosciuto e valorizzato nella sua giusta dimensione, come requisito fondamentale e indispensabile per dare rilevanza al disturbo di personalità, la presenza di un legame causale fra il disturbo e il comportamento deviante[116]. Queste le parole della Corte: <<E’, infine, necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo.

Invero, la dottrina ha da tempo posto in rilievo come le più recenti acquisizioni della psichiatria riconoscano spazi sempre più ampi di responsabilità al malato mentale, riconoscendosi che, pur a fronte di patologie psichiche, egli conservi, in alcuni casi, una “quota di responsabilità”, ed a tali acquisizioni appare ispirarsi anche la L. n. 180/1978, nel far proprio quell’orientamento psichiatrico secondo cui la risocializzazione dell’infermo mentale possa avvalersi anche della sua responsabilizzazione in tal senso.
L’esame e l’accertamento di tale nesso eziologico si appalesa, poi, necessario al fine di delibare non solo la sussistenza del disturbo mentale, ma le stesse reali componenti connotanti il fatto di reato, sotto il profilo psico-soggettivo del suo autore, attraverso un approccio non astratto ed ipotetico, ma reale ed individualizzato, in specifico riferimento, quindi, alla stessa sfera di possibile, o meno, autodeterminazione della persona cui quello specifico fatto di reato medesimo si addebita e si rimprovera; e consente, quindi, al giudice - cui solo spetta il definitivo giudizio al riguardo - di compiutamente accertare se quel rimprovero possa esser mosso per quello specifico fatto, se, quindi, questo trovi, in effetti, la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo “settoriale”), che in tal guisa assurge ad elemento condizionante della condotta: il tutto in un’ottica, concreta e personalizzata, di rispetto della esigenza generalpreventiva, da un lato, di quella individualgarantista, dall’altro>>.

La Corte a Sezioni unite ha così adempiuto alla sua funzione affermando <<il seguente principio di diritto, ai sensi dell’art. 173.3 disp. att. c.p.p.: ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di “infermità” anche i “gravi disturbi della personalità”, a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa>>.

In tal modo, le Sezioni unite hanno fatto  proprio quell’orientamento, già accolto da una parte della giurisprudenza sull’imputabilità, favorevole a un concetto meno medico e più psicologico di malattia mentale. Per fare ciò, le stesse Sezioni unite hanno richiamato il più moderno e diffuso manuale diagnostico, il DSM e in particolare il IV, che classifica fra i disturbi mentali anche i disturbi di personalità. Ad essi però la sentenza riconosce la qualifica di infermità ex artt. 88 e 89 c.p. solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere[117].

Le affermazioni delle Sezioni unite incominciano a far sentire i loro effetti, come emerge da alcune recenti sentenze, che hanno recepito il principio di diritto espresso dalle Sezioni stesse. Emblematica in proposito una recente decisione che ha riconosciuto il vizio parziale di mente nei confronti di un soggetto <<portatore di quel disturbo di Personalità, inquadrato nel DSM IV, indicato come disturbo NAS (Non altrimenti specificato) tale da comprometterne in modo serio le capacità cognitive, l’esame di realtà e la sua capacità di adattarsi alle situazioni esterne e controllare gli impulsi che derivano dalle situazioni di stress>> e tale da risultare legato eziologicamente alla specifica azione criminosa. Nesso, si chiarisce, da intendersi nel senso di <<concreta e diretta correlazione tra la condizione mentale compromessa dell’ agente, che può avere un’incidenza anche solo “settoriale”, e il particolare reato commesso, correlazione che con un giudizio individualizzato al singolo caso può consentire di affermare che la genesi e la motivazione di quel reato trovano la loro spiegazione proprio nel disturbo mentale>>[118].

Questo orientamento, che si richiama espressamente alla sentenza delle Sezioni unite, è rintracciabile anche in un’altra decisione, secondo la quale il <<disturbo di una personalità borderline di grado medio-grave>> può incidere sulla capacità di intendere e di volere, in quanto <<anche ai disturbi della personalità può essere attribuita un’attitudine, scientificamente condivisa, a proporsi come causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente>>[119]. Ma, ricorda la Cassazione, solo se sussistono anche le due condizioni sancite dalle Sezioni unite: che il disturbo sia di tale consistenza e gravità da aver inciso sulla capacità di intendere o di volere e che sussista un nesso eziologico fra il disturbo mentale e il fatto–reato, <<che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo>>[120]. Se mancano queste condizioni al disturbo mentale non può essere riconosciuto alcun rilievo ai fini del giudizio di imputabilità, anche se si tratta di un disturbo astrattamente riconducibile alla nozione di infermità alla luce del nuovo orientamento.

In questi termini sembra dunque ormai orientata la giurisprudenza, che ancora da ultimo dichiara che anche <<il “disturbo antisociale della personalità” può rientrare nella nozione di infermità e può incidere, escludendola o scemandola grandemente, sulla capacità di intendere o di volere>>[121]. Precisa infatti la Corte, ricordando anche in questa occasione la decisione a Sezioni unite: <<Non rileva tanto la possibilità di ricondurre il disturbo mentale a una precisa classificazione clinica, dunque, quanto la sua effettiva incidenza sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto di cui si discute nel processo penale>>. In tale ottica, si può allora riconoscere valore parzialmente esimente anche al <<disturbo psichico da stress>>, di natura acuta e dunque passeggera, che, <<anche se non rientrante nel concetto di “infermità mentale” in senso stretto>>, in quanto normalmente riferibile agli stati emotivi o passionali come nel caso delle reazioni a corto circuito, può, come queste ultime, essere manifestazione di vera e propria infermità, in quanto status patologico incidente sulla capacità di intendere o di volere. <<L’importante - evidenzia la Corte – è che tali situazioni siano individuate sulla base di adeguati schemi logici, normativi e scientifici che consentano di distinguere lo stato emotivo e passionale dalla infermità mentale, anche transitoria, nel senso sopra specificato>>[122].  

 

Occorre tuttavia evidenziare come la decisione della Corte di cassazione a Sezione unite non dia indicazioni, lasciando di fatto aperta la questione, in base a quali criteri valutativi si possa affermare che il disturbo di personalità è di tale consistenza, intensità, rilevanza e gravità da aver inciso, eliminando ovvero attenuando, la capacità di intendere o di volere del soggetto.

In questo ambito allora il rischio di un non controllo da parte del diritto non è stato superato; esso anzi è aumentato in seguito all’adozione di una nozione di infermità allargata anche ai disturbi di personalità[123]. Al giudice rimane ancora una volta il difficile compito di riempire quello spazio; esso non può farlo se non affidandosi al sapere “scientifico” dell’esperto e, nel caso di  più saperi, a quello che appare più convincente anche alla luce delle esigenze politico-criminali sottese al caso in esame. Il problema dunque si manifesta anzitutto sul piano probatorio, riproponendo peraltro a livello più generale la questione circa il tipo di risposta che uno Stato di diritto deve prevedere nei confronti dei soggetti affetti da patologia mentale.

Sono questi i problemi irrisolti, con i quali la prassi quotidiana già si doveva confrontare e che l’intervento ampliativo delle Sezioni unite inevitabilmente acutizzerà. Basti in proposito ricordare le contrastanti valutazioni e le contraddittorie decisioni circa l’incidenza dei disturbi di personalità, peraltro unanimemente diagnosticati, sulla capacità di intendere e di volere delle tre ragazze minori al momento del fatto, che uccisero la Madre Superiora della Comunità religiosa dell’Immacolata di Chiavenna. Nel procedimento di primo grado alla diagnosi di disturbo di personalità per tutte e tre le imputate, le conclusioni dei consulenti del p.m. furono di piena capacità per una delle imputate e di semi-imputabilità per le altre due. Per i consulenti della difesa si trattava invece per tutte e tre le imputate di un disturbo borderline  assimilabile ad una condizione psicotica, tale da giustificare la totale incapacità di intendere e di volere. La perizia d’ufficio disposta dal g.i.p. concluse invece, sempre sulla base di una diagnosi di disturbo di personalità, per la totale inimputabilità per tutte e tre le imputate. I giudici di primo grado, disattendendo in parte le conclusioni della perizia d’ufficio, decisero a favore della totale incapacità per una sola delle imputate, mentre per le altre due riconobbero solo uno stato di semi-imputabilità. La Corte d’Appello non ritenne di dover disporre una nuova perizia, valutando di poter giudicare avvalendosi del contributo tecnico degli esperti, componenti laici del collegio. I giudici di secondo grado a differenza da quelli di primo grado giunsero alla conclusione che tutte e tre le autrici del delitto erano affette da vizio parziale di mente dipendente da un disturbo di personalità. La Cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado.[124]

Ma vale la pena richiamare anche una recente sentenza della giurisprudenza di merito, nella quale si rinviene l’affermazione che, ai fini del riconoscimento del disturbo di personalità come infermità mentale ai sensi degli artt. 88 o 89 c.p., <<operare un giudizio non significa pervenire ad una certezza scientifica o dogmatica di qualsiasi tipo ma assumere quella scelta che presenta il più alto grado di compatibilità con quello che può essere accaduto>>[125].  E, se questa scelta porta a dare rilievo penale ai disturbi di personalità, il problema diventa allora politico-criminale, trattandosi di conciliare il riconoscimento di tale disturbo come causa di diminuzione della imputabilità con esigenze di prevenzione generale nonché di retribuzione. Così, per un verso si afferma che <<un disturbo della personalità inquadrabile, secondo la classificazione del più recente Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (il DSM - IV del 1995) con caratteristiche intermedie tra il disturbo narcisistico e il disturbo schizotipico può essere considerato un disagio clinicamente significativo, che, secondo l'interpretazione più recente delle dinamiche mentali, accolta ormai anche da alcune sentenze della Corte di Cassazione, consente di affermare in molti casi l'esistenza di un vizio di mente ed è adeguato in particolare al riconoscimento di una parziale incapacità di intendere e di volere>>.  Ma, per altro verso, si decide che non << è escluso che un giudizio particolarmente severo, che comporta, come conseguenza ma non unica conseguenza sotto il profilo della retribuzione morale, l'irrogazione di una pena assai elevata stimoli in futuro una riflessione e una rielaborazione compiuta, percepibile anche all'esterno ed aiutata eventualmente a manifestarsi dal sostegno, dalle cure e dal trattamento carcerario>>[126].

Simile prospettiva porta drammaticamente allo scoperto la difficoltà della questione della fondatezza scientifica della nozione di infermità mentale e dell’affidabilità scientifica del suo accertamento anche dal punto di vista del trattamento penale. Da tale questione dipende infatti anche quella relativa alla legittimità costituzionale della scelta sanzionatoria alla luce del dettato costituzionale dell’art. 27, 3° comma Cost., che impone una sanzione penale tale da rispettare le reali condizioni ed esigenze del singolo soggetto. E’ quanto si coglie in recenti pronunzie della Corte costituzionale sulla disciplina delle misure di sicurezza per i soggetti affetti da vizio di mente totale o parziale[127]. Si tratta infatti di decisioni che valorizzano la dimensione costituzionale nella quale anche la patologia mentale, una volta riconosciuta, va inquadrata ai fini della decisione sul trattamento sanzionatorio. Quest’ultimo dovrebbe comunque risultare il meno restrittivo possibile per il principio costituzionale di tutela della salute[128]. Tali sentenze rappresentano così un significativo monito a favore del superamento dell’attuale sistema, rigido e povero di tipologie di misure di sicurezza, in particolare non detentive. Nelle decisioni della Corte costituzionale[129] sembra infatti potersi cogliere l’idea che le scelte per soggetti psichicamente disturbati debbano essere orientate al bisogno di trattamento, anche se contemperato da esigenze di controllo della pericolosità. Queste ultime non possono quindi rappresentare il criterio guida, altrimenti i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, inerenti alla persona e in primo luogo quello della salute, vengono illegittimamente calpestati e offesi. Questo orientamento, se per un verso manifesta un’importante opzione a favore delle misure meno restrittive della libertà del soggetto e, in quanto tali, più adeguate alle esigenze di cura della persona, ma parimenti in grado di assicurare un controllo sulla pericolosità sociale, per altro verso rende ancora più centrale l’altra questione: quella non meno controversa, dell’affidabilità scientifica delle prognosi di pericolosità. 

 

 

 

5.1 La tecnica peritale: affidabilità e ruolo dell’esperto.

La prognosi di pericolosità rappresenta l’altro quesito, oltre a quello sullo stato mentale dell’imputato al momento del fatto di reato, al quale si chiede al perito di dare una risposta mediante la perizia psicopatologica. Ma, come per il primo, anche per questo la risposta non è facile, comportando compiti delle cui difficoltà oggi gli esperti forensi sono particolarmente consapevoli; come sono consapevoli delle accuse di <<apoditticità, di sommarietà e dunque, in buona sostanza, di ascientificità>>[130] che vengono mosse allo strumento, la perizia psichiatrica, con il quale assolvere quei compiti. Di tale strumento si denunciano la scarsa <<affidabilità sul terreno della documentazione della prova, i rischi di strumentalizzazione e di degenerazione, fino a metterne in dubbio la sua stessa ragione d’essere>>. Non solo, ma, dati i diversi orientamenti e scuole psicopatologiche dei periti, si segna a dito anche <<l’aumentata discrezionalità dei giudizi peritali>>[131]. Con la conseguenza, come da ultimo osservato, che nell’attuale dibattito sulla prova in medicina legale la psichiatria forense rischia << di essere considerata – in larga parte a ragione - l’anello più debole della catena, la “cenerentola” del settore scientifico disciplinare. Giudizio in parte fondato, duole ammetterlo, per l’intrinseca debolezza del procedimento diagnostico in psichiatria, per l’ineliminabile componente soggettiva in essa presente e per la carenza di una diagnostica “biologica” in grado di restituire oggettività all’osservazione clinica. A tutto questo si aggiunge – con peso a nostro avviso maggiore - un difetto di metodologia ed una carenza di impostazione che possa dirsi pienamente scientifica in una larga componente di professionisti che opera in questo contesto>>[132].  

Si deve però a queste consapevolezze se oggi l’approccio al malato di mente viene <<spogliato di qualsiasi precostituzione ideologica, a volte financo filosofica>> e si cerca di realizzarlo <<terapeuticamente con modalità individualizzate>>[133], ciò grazie anche alla visione integrata della malattia mentale accolta dalla maggioranza degli psichiatri forensi. Sempre secondo gli psichiatri forensi, da tutto ciò sarebbe derivata <<una ridefinizione dell’intervento dello psichiatra forense  nell’ambito delle diverse categorie giuridiche che si è tradotto … in un maggiore rigore valutativo; comunque, in  un radicale cambiamento della prassi>>[134].

Questo cambiamento sembra caratterizzato in particolare dall’idea che se il riconoscimento che <<la scienza psichiatrica non è in grado di fornire certezze assolute .. e dunque, anche in ambito forense, non potranno essere formulate risposte “certe”, scientificamente indiscutibili>>[135], ciò non deve significare una rinuncia al mandato che la giustizia dà allo psichiatra forense di pronunciarsi sulla questione imputabilità. Poiché dunque le risposte dell’esperto a tale questione implicherebbero comunque un <<percorso interpretativo dello psichiatra forense>>, che,  <<proprio per la sua natura “tecnico-scientifica”, ha un carattere essenzialmente probabilistico>>[136], si dichiara apertamente che <<le perizie non devono necessariamente condurre a “verità”, sebbene fornire pareri tecnici che il Magistrato può (e non “deve”) utilizzare …>>[137]. Non esisterebbero quindi criteri di giudizio inoppugnabili, ma solo criteri convenzionali fondati su conoscenze cliniche e sul buon senso. La fondatezza e validità di essi sarebbe garantita dalla standardizzazione degli strumenti diagnostici, come il DSM, e dalle metodiche sempre più perfezionate. Se allora anche i giudici sono consapevoli che <<nell’usare concetti quali imputabilità, valore di malattia, capacità di intendere e di volere si faccia sempre e comunque riferimento a scelte convenzionali>>[138], essi stessi dagli psichiatri forensi dovrebbero aspettarsi solo pareri tecnici in base a criteri convenzionali, <<alla ricerca di “certezze” in senso giuridico, e non di “verità”, il che postulerebbe l’accesso alla filosofia se non addirittura alla metafisica>>[139].

Ma la realizzazione di simili risultati non è certamente facile per il giudice, ma nemmeno per lo psichiatra forense, che si trova a svolgere un’attività diagnostica in un contesto ad essa estraneo se non incompatibile, come quello peritale penale e ciò per una serie di ragioni. In primo luogo, rispetto alla situazione clinica, quella peritale non è né attività terapeutica svolta nell’interesse dell’individuo-paziente, né attività diagnostica finalizzata al trattamento, alla terapia. Si tratta di attività realizzata nell’interesse del giudice che rappresenta la collettività e il suo bisogno di giustizia; in secondo luogo la valutazione psichiatrica  deve retrocedere nel passato, al momento del fatto di reato, attualizzarsi al momento dell’indagine peritale e proiettarsi sul futuro comportamento dell’imputato; ancora, la valutazione psichiatrica si muove in un contesto punitivo-repressivo; tale contesto rappresenta un <<setting profondamente divergente dal setting dell’intervista psichiatrica>>, non distinguibile dalla situazione processuale[140] e, infine, gli interrogativi peritali sono giuridici e non psichiatrici, con la conseguenza che anche la diagnosi viene formulata in termini direttamente giuridici. <<Dato tutto ciò, si comprende come rischi di svanire la possibilità di addivenire ad una diagnosi corretta dal punto di vista psichiatrico, e come questa possa essere sostituita da pseudo-diagnosi, burocratizzate, arbitrarie, fondate su stereotipi e su ricostruzioni narrative non validabili…>>[141]. Questa realtà si pone inoltre in contrasto con <<l’immagine attuale della psichiatria come “sapere in movimento”>>, perché <<tende … a riconfermarla come una “scienza (perché no, neutrale), e come tale fondata su “certezze” ed ampiamente fornita di capacità predittive>>[142].

Ma, come ormai appare a tutti chiaro, non sono queste ultime le capacità della scienza psichiatrica. Anzi, punto di partenza delle riflessioni moderne sulla perizia psichiatrica è proprio la comune consapevolezza della incerta affidabilità del metodo peritale e dei risultati[143], ma per quanto attiene ai rimedi “ognuno dice la sua”.

Peraltro, un primo tentativo di affinamento della perizia psichiatrica potrebbe essere quello di rendere più affidabile già la scelta stessa del perito da parte del giudice, introducendo ad esempio procedure standardizzate di reclutamento dell’esperto psichiatra forense, che sottraggano al caso e all’arbitrio personale del giudice tale scelta[144]. E’ quanto già si verifica in Svezia, dove esiste una speciale organizzazione psichiatrico-forense competente per lo svolgimento della indagine e della realizzazione della perizia. E’ stato altresì creato un ufficio centrale statale con la competenza su tutte le perizie psichiatrico-forensi, affiancato da uno speciale collegio competente per le “seconde” perizie[145], o, potremmo dire, superperizie. La scelta del perito, dalla quale - come è noto - troppo spesso dipendono le sorti del processo, avviene così ad opera di questa organizzazione centralizzata di distribuzione degli incarichi peritali, con la conseguenza che tale scelta è sottratta ai protagonisti del processo e le questioni circa la pretesa neutralità o al contrario parzialità del perito sarebbero superate o quantomeno minimizzate[146]. Tutto ciò presuppone naturalmente la capacità e la competenza del giudice di valutare il parere peritale, competenza e capacità troppo spesso ancora sottovalutate e non ritenute elementi necessari della formazione dei giudici[147].

Non solo, ma ai fini di una riduzione del rischio di snaturamento del ruolo dell’esperto come conseguenza di un eccessivo coinvolgimento di esso nel processo un rimedio, desumibile ancora una volta dalle regole processuali svedesi in tema di perizia, potrebbe essere quello di privilegiare la sola lettura del parere peritale, che conseguentemente dovrebbe sempre essere redatto per iscritto, e lasciare invece l’audizione e la partecipazione del perito al processo come ipotesi eccezionali[148].  Si ridurrebbe così anche il rischio della c.d. “falsa perizia psichiatrica”[149] e il pericolo che lo psichiatra forense subisca l’influenza del giudice o delle parti, venendo così meno al mandato di una risposta di natura esclusivamente tecnica. Ma un’adeguata prestazione professionale si ottiene solo grazie ad una corretta e parimenti adeguata formazione professionale dello psichiatra forense. Si va così sempre più diffondendo la convinzione che quest’ultima non può più <<essere intesa solo come frutto di una mera preparazione teorica, ma deve essere ampliata all’acquisizione di una più generale capacità operativa ricuperabile con una diretta esperienza nel contesto di strutture che offrano le più ampie garanzie di un continuo rinnovamento ed aggiornamento culturale>>[150]. L’obiettivo sarebbe quello di garantire che il perito abbia una adeguata preparazione clinica e le conoscenze e gli strumenti per formulare una diagnosi e ipotizzare il trattamento più opportuno; una adeguata preparazione giuridica e una indispensabile preparazione medico-legale; una adeguata formazione criminologica e infine una specifica preparazione professionale attraverso la diretta esperienza sul campo e, soprattutto, il continuo aggiornamento culturale e professionale[151].

Sono, tutti questi, requisiti professionali indispensabili nel momento in cui, come precisano gli stessi esperti, la perizia psichiatrica moderna non è più solo psichiatrica, ma anche criminologica e medico-legale. Sempre più si va diffondendo infatti la convinzione che al criterio clinico-diagnostico, inteso in termini estensivi e che rappresenterebbe il momento statico della perizia,  andrebbe affiancato un criterio valutativo fondamentale e rigoroso, il momento dinamico, per accertare le connessioni causali di natura psichica fra fatto e autore. A tal fine la perizia diventa allora anche ricostruzione criminogenetica e criminodinamica della vicenda, che dà “spessore” al sintomo. Anzi, si afferma, la ricostruzione dello vicenda delittuosa dovrebbe essere considerata <<il processo di validazione (o sconfessione) dell’esistenza di un dato quadro clinico al momento del fatto>>[152]. Infatti, è proprio grazie alla ricostruzione criminodinamica che la diagnosi differenziale retrospettiva si può avvalere del confronto fra gli elementi psicopatologici direttamente ricavati dal perito e i dati emergenti da acquisizioni documentali e testimoniali. Ciò consentirebbe attraverso un ripetuto processo di verificazione/falsificazione di porre al vaglio dei riscontri documentali le ipotesi diagnostiche, finché una fra queste ipotesi formulate non mostri di mantenere sufficiente coerenza e tenuta[153].

Ma la perizia dovrebbe essere anche medico-legale, per il collegamento tra l’aspetto psicopatologico e quello giuridico-normativo, allorché cioè, indagati i rapporti fra il fatto di reato e il disturbo psichico, stabilisce che il primo è manifestazione, “sintomo” del  secondo e che a quest’ultimo può essere attribuito il significato di infermità incidente sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato[154]. Una perizia di tal genere, vale la pena di ricordarlo, secondo gli stessi esperti si basa su criteri convenzionali e non prospetta “verità”, ma fornisce solo pareri tecnici. Spetta poi al magistrato decidere se e come utilizzarli[155], viste le conclusioni degli stessi medici forensi, secondo i quali non esistono <<criteri certi ed esaustivi, potendosi solo far ricorso a linee metodologiche di intervento da applicare rigorosamente, quanto meno a garanzia di una ragionevole uniformità valutativa>>[156]

   
   

 

   
   

6. Alla ricerca di regole probatorie per andare “oltre il ragionevole dubbio” sulla infermità mentale alla base del vizio di mente.

Se queste sono dunque le perizie psichiatriche, <<pareri, solo pareri tecnici, poiché la scienza, tutta la scienza non solamente quella psichiatrica, non fornisce verità, ma conoscenza, comprensione dell’accaduto, spesso solo tentativi di comprensione>>[157], la questione diventa allora anche per le scienze psicopatologiche quella del loro grado di affidabilità, in particolare nella loro trasposizione nel mondo del diritto, ove l’incertezza scientifica si riverbera inesorabilmente sul livello degli standards di prova. Ciò è emblematicamente già emerso con riferimento alla valutazione della colpa professionale dello psichiatra in caso di suicidio del paziente. La giurisprudenza di merito ha infatti sostenuto che tale colpa va valutata in termini disomogenei rispetto agli altri settori della medicina; e questo per <<il minor grado di certezza che nella psichiatria si è sinora raggiunto rispetto alle conoscenze acquisite negli altri settori della stessa scienza>>[158].

Ciò sembra valere anche a proposito del problema della infermità mentale ai fini del giudizio di imputabilità, ove la particolare incertezza scientifica che lo caratterizza inevitabilmente si riflette sul grado di certezza della prova. Conseguentemente in tema di accertamento della non imputabilità e della pericolosità del soggetto, sono ancora gli stessi psichiatri forensi ad avvisare che <<ove si intendesse attribuire alla perizia psichiatrica significato di vera e propria documentazione della prova, …, risulterebbe chiara l’inadeguatezza e l’impossibilità dell’indagine ad assolvere correttamente un simile mandato, che introdurrebbe peraltro elementi di notevole ambiguità nella definizione dello stesso ruolo del perito>>[159].

Della perizia psichiatrica tuttavia non si può fare a meno, fin tanto che, come prevede l’art. 85 c.p. <<nessuno può essere punito …. se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile>> e fin tanto che ex artt. 88 e 89 l’imputabilità può essere esclusa o risultare grandemente scemata per vizio di mente[160]. Anzi, il vizio di mente ci rimanda ad una realtà, quella della infermità, rispetto alla quale, secondo la recente sentenza delle Sezioni unite sopra richiamata, sarebbe da escludersi <<allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, e pur nella varietà dei paradigmi al riguardo proposti e della relativa indotta problematica difficoltà, che possa pervenirsi ad un conclusivo giudizio di rinvio a fatti “non razionalmente accertabili”, a fattispecie non “corrispondenti a realtà”, “da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice”, situazione che, ove sussistesse, sarebbe senz’altro indiziata di evidente contrasto con il principio di tassatività (Corte Cost., n. 96/1981; id., n. 114/1998), per altro verso inducente ad un conseguente giudizio di impossibilità oggi, e verosimilmente domani, di dare attuazione al disposto dell’art. 85 c.p. e, prima ancora, di mantenere tale norma….>>[161].  

Se questo è l’orientamento, e dato il ‘pluralismo’ della scienza psicopatologica, nei confronti del quale – come si è visto – il DSM non rappresenta certo un rimedio[162], il vero problema diventa allora quello della soglia massima di incertezza tollerabile, oltre la quale cioè l’interpretazione e l’applicazione perdono di razionalità. In altre parole, di fronte ad orientamenti scientifici contrastanti che legittimano nel caso concreto pareri contraddittori degli esperti circa il ruolo che la patologia mentale, anche quando uniformemente diagnosticata, ha avuto sulla capacità dell’autore del fatto di reato di comprenderne il significato e la portata, occorre chiedersi quali siano le condizioni probatorie minime in base alle quali il giudice possa scegliere tra gli orientamenti scientifici in concorrenza[163].

Una prima indicazione metodologica si può già cogliere là ove la Cassazione, ancora nella sentenza a Sezioni unite, afferma che con riferimento al caso concreto da giudicare <<il giudice deve procedere avvalendosi degli strumenti tutti a sua disposizione, (del)l’indispensabile apporto e contributo tecnico, (di) ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali>>[164]. Un’altra importante indicazione metodologica è offerta dalla giurisprudenza delle Corti americane, in particolare dalla sentenza sul caso KumhoTire Co. v. Carmichael (1999)[165], la quale ha stabilito che, poiché la linea di confine fra scienza e non scienza non è ben definita, i principi elaborati dalla nota sentenza Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, Inc (1993)[166] sull’affidabilità scientifica delle prove fornite dagli esperti vanno applicati a qualsiasi tipo di expert testimony. Ne è derivata l’introduzione di standards comuni di valutazione del contenuto del parere degli esperti come soluzione metodologica da utilizzare anche per la testimonianza esperta di natura psicologico-psichiatrica[167].

Se ciò significhi l’indebolimento del principio della libera valutazione delle prove, sostituito da regole alle quali il giudice deve attenersi per la valutazione in caso di pareri scientifici contrastanti è una questione che occorre porsi[168], dal momento che, anche con riferimento al parere psicologico o psichiatrico e alla sua valutazione da parte del giudice, sembra farsi strada l’orientamento a favore di una elaborazione di regole processuali in base alle quali poter decidere sulla affidabilità e validità scientifica del parere[169]. Queste regole hanno trovato una ampia e consapevole elaborazione nella giurisprudenza civile delle Corti americane, che già dal 1923[170] stabilivano che una consulenza poteva essere considerata scientifica e dunque ammessa, in particolare se si fondava su un test con pretesa scientifica, solo qualora il principio o la teoria ovvero l’esperimento oggetto della consulenza fosse generalmente accettato dalla comunità scientifica di riferimento. <<Veniva così stabilito il general acceptance test, o Frye test, in funzione del quale l’ammissibilità della prova scientifica viene fatta dipendere dal “mercato intellettuale”, ossia dall’esistenza di un diffuso e consolidato consenso, nella relativa area scientifica, sulla validità di tale prova>>[171]. La c.d. Frye Rule, come è noto, nelle Corti federali è stata sostituita dalla Daubert Rule[172], secondo la quale ai fini della ammissione di una prova scientifica come rilevante occorre che essa sia affidabile non solo in base al criterio della <<generale accettazione>> da parte della comunità scientifica interessata, ma anche ad altri criteri; in particolare al criterio della controllabilità e falsificabilità e cioè che la teoria o la tecnica su cui si fonda la prova possa essere e sia stata <<testata>>; a quello secondo il quale la teoria o la tecnica deve avere avuto riscontro positivo nella comunità scientifica e infine a quello del noto o potenziale margine di errore e degli standards relativi alla tecnica impiegata[173].

Nel fissare questi criteri la Corte, se da una parte richiama i giudici al compito di <<gatekeeper>> della validità scientifica delle teorie o delle tecniche che solo in quanto scientifiche possono essere ammesse nel processo, dall’altra li sollecita ad <<articolare risposte non generiche ed evasive all’esigenza di attendibilità e controllabilità delle nozioni metagiuridiche che influenzano l’accertamento dei fatti>>[174]. In seguito alla decisione KumhoTire Co. v. Carmichael a queste regole non si sottrae più alcuna teoria o tecnica in funzione probatoria, nemmeno quelle teorie o tecniche cliniche, che, come quelle psicologiche o psichiatriche, sono affette da presunta natura non scientifica. In tal modo, qualsiasi teoria o tecnica psichiatrica e psicologica, per essere ammessa attualmente come prova nelle Corti americane, deve risultare scientificamente attendibile ed affidabile secondo i criteri della Daubert Rule. Cosicché anche nei confronti delle conoscenze psichiatrico-psicologiche si introduce <<uno sbarramento preliminare finalizzato ad impedire l’ingresso nel processo di junk science o comunque di prove che non siano certamente valide sul piano della metodologia scientifica>>[175]. Una volta ammessa, della prova scientifica spetterà ancora al giudice il compito della valutazione di idoneità ai fini dell’accertamento specifico dei fatti oggetto del giudizio[176].

Un ulteriore passo in avanti sarebbe stato infine compiuto nel 2000, con la modifica di una delle norme che regolano la disciplina delle prove nel processo penale, la Rule 702. Essa andrebbe oltre le sentenze Daubert e Kumho, richiedendo l’applicazione della tecnica più corretta o meglio più pertinente al caso concreto da giudicare. Insomma, una regola che impone un criterio di stretta coerenza interna fra tipo di prova presentata ed esigenze probatorie connesse alla particolarità del caso. In altre parole, la verifica di affidabilità e di attendibilità scientifica della prova non è tanto un giudizio generale ed astratto, ma orientato in funzione delle concrete esigenze probatorie dettate dalla realtà dei fatti oggetto di indagine, il c. d. Frye-Daubert plus issue[177]

Non si possono però ignorare le difficoltà dei giudici americani ad utilizzare quelle regole[178]. Recenti studi –come si vedrà- hanno infatti in particolare messo in evidenza i limiti entro i quali si possono dare applicazione pratica ai quattro criteri Daubert, soprattutto dopo la altrettanto nota sentenza General Eletric Co. v. Joiner. In tale sentenza infatti si precisa che il giudice può ignorare le conclusioni peritali solo allorché esse siano fondate su tecniche e metodi scientifici non validi. Ma a questo risultato – precisa ancora la sentenza Joiner - il giudice può pervenire solo dopo avere valutato la coerenza e la consistenza del rapporto fra tecnica e metodologia peritali da un lato e conclusioni  dell’esperto e profili fattuali del caso concreto (le c.d. questions of “fit”) dall’altro[179]. Si tratta comunque di valutazioni che, come emerge dalla decisione sul caso Kumho, sono lasciate in ultima analisi alla discrezionalità del giudicante, il quale alla fine non viene vincolato ai parametri Daubert. La decisione Kumho infatti rinforza ulteriormente il principio della discrezionalità del giudice nel suo ruolo di custode, di garante della scientificità dei dati su cui basa la sua decisione, riconoscendogli broad latitude e considerable leeway[180].

L’impatto delle tre sentenze sulla giurisprudenza americana è stato notevole. I criteri da esse elaborati hanno trovato molteplici applicazioni anche in campo psichiatrico e psicologico forense. Così, ad esempio, non solo essi sono stati ampiamente utilizzati per verificare la ammissibilità scientifica della perizia psicologica sulla credibilità della testimonianza, in particolare della vittima di violenze e abusi sessuali[181], ovvero del parere dell’esperto circa la rilevanza da riconoscere alla sindrome della donna maltrattata o a quella derivante da trauma da violenza sessuale, ma anche ai fini della ammissibilità scientifica delle tecniche peritali impiegate per la valutazione del rischio di fenomeni depressivi e di suicidio nei minori[182], ovvero per i pareri nel campo della psicologia industriale e delle organizzazioni[183] o ancora con riferimento alla tecnica della comparazione microscopica del capello, in particolare per la identificazione delle persone[184] e infine a proposito dei test “poligrafici”, o più semplicemente “macchina della verità”, che attraverso la misurazione delle variazioni e reazioni fisiologiche dovrebbero consentire di accertare se il soggetto stia mentendo[185]. Ma ai nostri fini interessa soprattutto ricordare come in base agli standards delle tre sentenze siano stati verificati e in parte convalidati ai fini forensi numerosi test psicologici di personalità, normalmente usati per la diagnosi dei disturbi di personalità[186].        

Attraverso l’esperienza personale dei giudici emerge però che esiste una frattura fra la dimensione teorica e quella pratica del ruolo del giudice come gatekeeper. A questo risultato sono pervenuti alcuni studi, che hanno “fatto parlare i giudici stessi” attraverso interviste e questionari[187]. Se per un verso infatti i giudici coinvolti nella ricerca empirica ritengono i criteri Daubert utili e importanti per decidere sulla ammissibilità o meno della “prova esperta” sotto il profilo della sua scientificità, per altro verso quegli stessi giudici incontrano notevoli ostacoli a rendere operativi tali criteri, in particolare quando si tratta di applicare i criteri della falsificabilità e del tasso di errore, dei quali sembra infatti non essere chiaro il significato scientifico. Con la conseguenza di appellarsi a tali criteri più in termini retorici che sostanziali. Ma i giudici non manifestano una consapevolezza di tale ignoranza se, come emerge ancora dalla ricerca, da una parte dichiarano che i criteri Daubert rappresentano parametri guida ai fini della decisione, ma nello stesso tempo non riconoscono o forse non ammettono la loro mancanza di conoscenza circa il modo di applicare tali linee guida. Se le cose stanno in questi termini,  <<occorre conseguentemente mettere in dubbio la capacità delle Corti di verificare la affidabilità scientifica e la validità della prova presentata come scientifica e riflettere sulla possibilità di una applicazione inconsistente dei criteri Daubert>>[188]. Il risultato appare ancora più inquietante, allorché si consideri che l’impatto innovativo della sentenza Daubert dovrebbe essere in parte ridimensionato se, come sembra, nella prassi il criterio maggiormente applicato dai giudici è risultato in realtà ancora quello della general acceptance, già da tempo elaborato dalla decisione sul caso Frye[189]. Secondo le dichiarazioni degli intervistati, infatti, questo criterio è apparso particolarmente adatto per decidere della validità scientifica delle “prove esperte“, in special modo quando si trattava di prove di natura clinico-psicologica (in particolare i metodi diagnostici del DSM-IV). Questo genere di prove è d’altra parte risultato quello con il quale i giudici più spesso si confrontano ed è dagli stessi ascritto non tanto al mondo della scienza quanto piuttosto a quello delle conoscenze tecniche o altrimenti specialistiche[190]. Insomma, i giudici americani sembrano ben consapevoli del loro ruolo di gatekeeper, ma mancano delle conoscenze (scientifiche) necessarie per svolgerlo in maniera efficace e sostanziale[191], soprattutto quando si tratta di valutare le scienze sociali e del comportamento. Con riferimento ad esse, la dottrina americana non ritiene di dover concludere che sia impossibile raggiungere un elevato standard di ammissibilità. Piuttosto questo standard, pur flessibile, deve far parte del bagaglio di conoscenze dei giudici, per essere correttamente applicato. Infatti, riconoscere ampia discrezionalità ai giudici, come ha fatto la sentenza Kumho, ma non offrire strumenti adeguati per esercitarla, espone al rischio di decisioni contraddittorie e a una meccanica applicazione dei criteri Daubert. Nemmeno quest’ultima sentenza infatti offrirebbe linee guida per applicare i criteri di scientificità in essa indicati. Così la Corte non avrebbe precisato se tutti e quattro i criteri debbano essere considerati precondizioni ineludibili di ammissibilità della prova, se alcuni criteri siano più importanti di altri, e ancora non avrebbe chiarito a quali condizioni si possa dire soddisfatto il principio del peer review, né quale percentuale di errore sia da considerare ancora accettabile. Ma non avrebbe nemmeno spiegato come queste condizioni di scientificità avrebbero dovuto essere applicate alla stessa prova esperta della decisione Daubert. Insomma, residua quantomeno un problema di operazionalizzazione dei criteri Daubert, che non riguarda solo le scienze sociali e del comportamento[192]. Decisioni di tal genere denuncerebbero allora una generale falsa conoscenza dei fondamenti della scienza e dei suoi metodi[193].

Quali i rimedi?

Per la dottrina americana che ritiene comunque che la strada da percorrere sia quella tracciata dalla decisione Daubert[194], il rimedio fondamentale andrebbe ricercato sul versante dei giudici, imponendo una maggiore preparazione di essi ad affrontare i problemi scientifici che la crescente complessità della società attuale e delle scienze sempre più spesso presenta loro. In tale prospettiva, ciò che i giudici, ma anche gli avvocati, dovrebbero apprendere non è tanto come individuare la migliore ricerca scientifica a cui affidarsi, ma piuttosto come riuscire a giudicare quelle non scientifiche, da scartare. I giudici infatti non avrebbero bisogno di essere formati per diventare scienziati, quanto piuttosto essere ‘allenati’ per diventare critici consumatori della scienza esistente[195]. E questo sarebbe sufficiente per metterli in condizione di svolgere il loro ruolo di gatekeeper[196].

Ma si è anche criticamente sostenuto che, quando si tratta di giudicare l’infermità mentale di un soggetto in relazione al fatto di reato, bisognerebbe essere altresì pronti ad attenuare o addirittura a rinunciare ai criteri di ammissibilità scientifica elaborati dalla sentenza Daubert, quando il loro rispetto comprometterebbe il diritto di difesa costituzionalmente garantito[197]. Perché ciò non avvenga, si propone che la valutazione di ammissibilità sia svolta alla luce della c.d. factor-based incremental validity e cioè del fatto che la testimonianza dell’esperto, garantendo comunque informazioni e prospettive diverse da quelle che altrimenti assumerebbe il giudice in assenza della testimonianza o consulenza esperta, incrementi il grado di validità e accuratezza della decisione finale sullo stato mentale del soggetto al momento del reato[198].    

L’idea che il giudice non debba rinunciare a svolgere il proprio compito di custode della scientificità nemmeno con riferimento a quelle materie di più difficile valutazione sembra comunque prevalere nel dibattito americano. Diverse dunque  le proposte per aiutare il giudice ad adempiere al suo compito di gatekeeper. Così  si ritiene che l’adempimento di tale compito sarebbe facilitato se si mettesse a disposizione del giudice un gruppo di clinici con anni di esperienza, con l’aiuto dei quali verificare la affidabilità scientifica della testimonianza psichiatrico forense per decidere se ammetterla nel processo. In particolare, alla luce di quanto indicato dalla Corte suprema nelle tre sentenze più volte richiamate, questi clinici dovrebbero aiutare il giudice sia nella decisione se consentire all’esperto di pronunciasi sulla base della sua esperienza sia nella valutazione della metodologia impiegata e della sua applicazione o ‘coerenza’ rispetto ai fatti da giudicare[199]. Questa proposta, avvicinabile all’esperienza europea, rientrerebbe in quello che è stato definito <<un approccio più modesto alla riforma istituzionale>>, che <<punterebbe a rafforzare i supporti tecnici a disposizione dei giudici>>, ma che <<poggia sulla ipotesi, in gran parte non verificata, che sia possibile ottenere testimonianze scientifiche obiettive sottraendo l’accertamento dei fatti al controllo esclusivo delle parti>>[200]. Un approccio pragmatico-induttivo, tipico delle scienze sperimentali e che tiene conto della natura necessariamente idiografica della psicopatologia clinica, propone invece la creazione di una banca-dati, in cui raccogliere, sistematizzandoli, i casi già trattati. Ciò dovrebbe aiutare lo sviluppo di modelli uniformi di procedure di valutazione, di modelli comuni di relazioni e di testimonianze[201].  

Tutte queste indicazioni appaiono ancora più importanti se si considera che sul versante opposto gli esperti psichiatrico-psicologico forensi sembrano “aver preso sul serio” le indicazioni della sentenza Daubert, dato che degli effettivi cambiamenti sembrano essere intervenuti nella prassi della perizia psichiatrica e psicologica dopo la sentenza[202]. In particolare, gli psichiatri e gli psicologi forensi americani avrebbero modificato le loro metodologie peritali, rinunciando all’idea che per garantire l’affidabilità della testimonianza bastasse semplicemente appellarsi alla loro esperienza clinica. Si è diffusa invece una maggiore consapevolezza del fatto che la scientificità dei pareri e delle testimonianze non costituisce una qualità ontologica degli stessi e, conseguentemente, che le conclusioni peritali per essere ammesse come scientifiche devono piuttosto rispettare certi parametri di scientificità, sottostando ad un controllo esterno. Questa nuova consapevolezza avrebbe spinto gli esperti ad affinare la loro metodologia in particolare attraverso una selezione più rigorosa e un’utilizzazione più trasparente dei test diagnostici e di personalità[203]. Ma è proprio con riferimento a questi ultimi che la giurisprudenza americana incontra delle difficoltà ad applicare i parametri Daubert, come ad esempio si è verificato a proposito del disturbo dissociativo di personalità (Dissociative Identity Disorder, DID), ormai generalmente accolto fra le diagnosi di disturbo mentale dalla dottrina competente (l’80%), al quale però non è stato riconosciuto rilievo ai fini della insanity defense. Secondo i giudici, infatti, per la utilizzabilità della diagnosi di disturbo dissociativo o di personalità multipla in sede penale sarebbero state necessarie maggiori informazioni e prove scientifiche circa la sua idoneità ad incidere sulla responsabilità penale[204].            

b)Tornando all’Europa e prima di tutto all’Italia, non è solo della giurisprudenza, ma anche degli psichiatri forensi l’esigenza di una perizia psichiatrica che risulti scientificamente legittimata in sede giudiziaria. A tale proposito si evidenzia come il problema della scientificità della perizia psichiatrica si ponga soprattutto in chiave metodologica e come sia proprio sul piano metodologico <<che la psichiatria forense, intesa quale disciplina e corpo di studi afferente alla Medicina legale, è in grado di fornire un contributo, segnando la differenza fra semplice utilizzo, in ambito forense, di competenze di natura psichiatrica ed un prodotto specialistico che possa dirsi utile e fruibile in ambito giudiziario>>. La strada da seguire sarebbe allora quella di <<richiedere uno standard costruttivo della perizia che sia ad un tempo specchio del sentire scientifico del settore, della metodologia nella quale la comunità scientifica si riconosce, ed al tempo stesso espressione chiara del percorso compiuto dal singolo perito, delle scelte effettuate, delle ragioni che le hanno sostenute, perché possano essere valutate anche da non esperto e, se del caso, criticate>>[205]. Si tratta peraltro di indicazioni metodologiche che già l’Associazione italiana di psicologia giuridica ha formulato nel tracciare le Linee guida deontologiche per lo psicologo forense. Fra queste linee guida vi è anche quella  di <<rendere esplicito il quadro teorico di riferimento e le tecniche utilizzate, così da permettere un’effettiva valutazione e critica relativamente all’interpretazione dei risultati>>. Ma soprattutto si raccomanda all’esperto psicologo, se necessario, di vagliare ed esporre <<ipotesi interpretative alternative, esplicitando i limiti dei propri risultati, evitando altresì di esprimere opinioni personali non suffragate da valutazioni scientifiche>>[206]. Insomma, anche in Italia si riconosce la necessità di un cambiamento, anzi di <<una svolta nella modalità con la quale genericamente questo prodotto (la perizia psichiatrico-forense) viene fornito>>. A contribuire a questa svolta concorrerebbero anche le Daubert rules, alle quali infatti si fa riferimento <<come uno stimolo forte ad elevare il livello scientifico dei pareri che gli esperti presentano in Tribunale, ad agganciarlo alle competenze scientifiche esistenti, a stimolare i periti a documentarsi sugli strumenti in uso, a presentare i dati con metodo perché il nostro contributo possa essere realmente “utile”; e può esserlo, a nostro avviso, vuoi quando si è in grado di esprimere un parere fondato che dirime un dubbio, vuoi quando non lo si può fare per insufficienza di elementi, perché in entrambi i casi si aiuta il Giudice, che comunque dovrà esprimersi su quel caso, a farlo nel migliore dei modi>>[207]  

Quanto alla prassi applicativa, nella stessa giurisprudenza penale italiana, come in parte è già emerso a proposito delle controversie scientifiche in tema di infermità di mente, incomincia a manifestarsi l’esigenza di una costruzione giuridica del sapere scientifico, alla ricerca di una regola che dia certezza al diritto. Emblematiche a riguardo le seguenti affermazioni della Cassazione: <<Nel valutare i risultati di una perizia, il giudice deve verificare la stessa validità scientifica dei criteri e dei metodi di indagine utilizzati dal perito, allorché essi si presentino come nuovi e sperimentali e perciò non sottoposti  al vaglio di una pluralità di casi ed al confronto critico tra gli esperti del settore, sì da non potersi considerare ancora acquisiti al patrimonio della comunità scientifica. Quando, invece, la perizia si fonda su cognizioni di comune dominio degli esperti e su tecniche d’indagine ormai consolidate il giudice deve verificare unicamente la corretta applicazione delle suddette cognizioni tecniche>>[208]. Anche la Corte italiana riconosce dunque al giudice il ruolo di custode della integrità scientifica della prova peritale, richiamando anch’essa criteri quali quello della <<generale accettazione>> da parte della comunità scientifica[209], ovvero della tecnica ormai corroborata in quanto consolidata. Mentre, qualora non sia possibile applicare tali criteri, data la novità della teoria o della tecnica di indagine applicata nella perizia, il giudice deve assumere il compito di verificare la fondatezza del metodo di indagine, il quale deve avere i requisiti del metodo scientifico. Tali caratteristiche non sarebbero ad esempio da riconoscere a tecniche di indagine psicologica, come la validation o gradualità delle accuse, tecnica di indagine <<secondo cui le vittime degli abusi graduerebbero le loro accuse da quelle meno gravi a quelle più gravi>>, in quanto, sempre secondo la Corte di Cassazione, <<è soltanto un metro di valutazione che non ha nessuna valenza di certezza scientifica e che può, in taluni casi, costituire, in un quadro probatorio completo e certo, chiave di interpretazione delle difficoltà delle vittime delle violenze nel rivelare le vicende più riservate. Esso, però, non è applicabile sempre e, comunque, …, non è sostitutivo della prova>>[210]. Quali dunque i requisiti di affidabilità delle opinioni o pareri degli esperti secondo la Cassazione? Essi sono stati così sinteticamente enucleati: assenza di incertezze, correttezza scientifica, fondazione su argomentazioni logiche convincenti[211]. Sulla base di questi criteri al giudice si riconosce il compito fondamentale di assumersi la decisione finale: <<al giudicante spetta pur sempre l’ultima parola attraverso il vaglio critico delle nozioni acquisite alle quali non inerisce alcuna deterministica valenza ai fini decisionali>>[212].

Rimangono infine da ricordare alcune significative sentenze delle Sezioni unite della Cassazione, in tema di accertamento del nesso causale. Con riferimento ad esse ai nostri fini preme soprattutto evidenziare come in tali sentenze ci si appelli alla regola di giudizio dell’”oltre il ragionevole dubbio”[213] e conseguentemente si affermi che <<l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, ….., non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia “in dubio pro reo”>>[214] .    

Nel confronto con le expert evidences nemmeno i giudici tedeschi sfuggono a tutte queste problematiche. Queste le indicazioni desumibili dalla giurisprudenza del Bundesgerichtshof, che prima di tutto richiama il giudice alla necessità di conservare la propria autonomia e indipendenza rispetto all’esperto forense. A tal fine il giudice nella decisione deve ripercorrere i passaggi fondamentali ed evidenziare la metodologia peritale, in modo tale da dimostrare per un verso che la valutazione della prova peritale poggia su una realtà fattuale ripercorribile, per altro verso che le conclusioni giuridiche derivanti dalla perizia rispondono alle regole della logica, dell’esperienza della vita quotidiana, ma soprattutto alle conoscenze scientifiche. Perché tutto ciò si realizzi è indispensabile che il giudice, in particolare quello di merito, sia in grado di capire le affermazioni metodologiche e di contenuto della perizia e sia in grado di applicarle ai fini giuridici allorché le consideri definitive e si convinca della loro veridicità[215]

Ma il Bundesgerichtshof non si è limitato a queste indicazioni, in una recente e importante sentenza, da considerarsi una Meilenstein della prassi sull’imputabilità e sulle prognosi di pericolosità[216], in tema di disturbi della personalità ha indicato quali debbano essere gli standards minimi che la perizia psichiatrica e psicologica deve rispettare per essere considerata scientificamente affidabile e valida[217]. Si tratta peraltro di indicazioni che nelle intenzioni del Bundesgerichtshof  hanno come diretti destinatari non tanto i periti quanto i giudici, ai quali si rimprovera di essersi troppo spesso accontentati di perizie lacunose quanto a metodologia. Già con riferimento alle perizie fondate su interpretazioni psicoanalitiche, una precedente decisione aveva peraltro stabilito che esse possono tutt’al più rivelarsi utili per decidere sulla disponibilità e sul bisogno di trattamento del soggetto, ma che lo sarebbero meno per delineare la personalità dell’imputato ai fini della valutazione della sua capacità di intendere e di volere prima, al momento e dopo il fatto. Tali interpretazioni infatti, secondo i giudici, non sarebbero in grado di fare luce sui reali collegamenti fra il fatto e le condizioni personali del soggetto e quindi sulla sua capacità di tenere un comportamento normale[218].

Il problema si è posto in particolar modo con riferimento alla affidabilità della valutazione dell’incidenza sull’imputabilità dei disturbi al limite della normalità e in particolare dei disturbi di personalità[219], quale <<grave anormalità psichica> rilevante ai sensi dei par. 20 e 21 StGB[220] .

Questa la checklist della giurisprudenza.

Sul piano della metodologia peritale i giudici tedeschi sembrano proporre i criteri americani della accettazione generale e quello del peer review and pubblications, dal momento che riconoscono che il perito è libero nella scelta degli strumenti diagnostici, ma affermano anche che questi strumenti devono trovare positivo riscontro nello stato attuale delle conoscenze scientifiche. Solo così, secondo i giudici, si possono rispettare gli altri due obblighi fondamentali, quello della trasparenza e della ripetibilità del procedimento peritale, che la stessa sentenza impone al perito forense non solo nell’interesse del giudice, ma anche in quello del diritto di difesa dell’imputato[221].

Quanto agli altri standards, interessante è quello c.d. della Nullhypothese, secondo il quale il perito dovrebbe procedere verificando la validità dell’ipotesi iniziale attraverso un procedimento di falsificazione che dovrebbe portare ad escludere ipotesi esplicative alternative. E dunque adesione alla ipotesi formulata (Nullhypothese) finché non si arriva alla sua falsificazione[222], criterio questo, come abbiamo visto, già indicato dalla sentenza Daubert[223]. Anche in Germania è dunque sempre più sentita la necessità di criteri guida della perizia psichiatrica e psicologica, e la psichiatria forense appare sempre più impegnata nella definizione delle metodologie da utilizzare in sede peritale, ma soprattutto nella elaborazione di una Checkliste che incontri il massimo consenso anche fra i giuristi, in modo da diventare la base comune per la valutazione della qualità delle perizie.

   
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6.1 Il sapere psicopatologico come scienza dell’uomo e la regola giuridica dell’oltre il ragionevole dubbio.

Ma i requisiti di scientificità sopra illustrati possono essere realisticamente applicati anche alle teorie e alle tecniche metagiuridiche di natura sociale, relative cioè all’uomo e al suo comportamento? E’ questo l’interrogativo di fondo, al quale in parte sembrano aver risposto quelle sentenze che hanno cercato di applicare i requisiti di scientificità anche al sapere psicologico e psichiatrico, affinché la spiegazione del comportamento umano risultasse scientificamente affidabile e, in quanto tale, in grado di vincere il ragionevole dubbio, oltre il quale occorre andare per condannare. Secondo le parole del Maestro che in queste pagine onoriamo, è infatti <<l’oltre il ragionevole dubbio .. il criterio di riferimento, la regola di giudizio, che consente di individuare le ipotesi della scienza fornite di un grado di conferma o di probabilità logica sufficiente per orientare, in un senso o nell’altro, la decisione giudiziale. E’ quella regola, infatti, che consente di ritenere prive di dubbi ragionevoli le ipotesi della scienza che godono di un alto grado di conferma empirica (concezione induttivistica), siano provviste di corroborazione per aver superato i tentativi di falsificazione (concezione falsificazionista di Popper) e, in via sussidiaria, trovino il consenso generale della comunità scientifica (concezione sui paradigmi della scienza normale di Kuhn). In breve, è la regola giuridica dell’oltre il ragionevole dubbio che induce a ritenere rilevanti i criteri di affidabilità desunti dal metodo scientifico, quali risultano enunciati dalla sentenza Daubert>>[224], e che la sentenza Kumho, come abbiamo visto, ha inderogabilmente esteso a tutte le conoscenze: scientifiche, tecniche o semplicemente specialistiche. Dunque, anche per le scienze dell’uomo occorre soddisfare l’esigenza <<di individuare stereotipi, schemi, tipologie, modelli di comportamento che emergono nell’ambiente sociale e che possono essere rilevanti per individuare il contesto della decisione sui fatti del singolo caso>>. Ma il tentativo di <<fondare la decisione sulla social science evidence contiene implicazioni molto significative. Anzitutto, esso esprime l’esigenza che la decisione faccia per quanto possibile riferimento a conoscenze scientificamente controllate invece che a nozioni vaghe, incerte e inattendibili>>. Inoltre, questa esigenza impone <<una razionalizzazione analitica della valutazione, poiché richiede che si chiarisca e si renda esplicito il contesto degli standards  dai quali dipendono le inferenze e le valutazioni relative al singolo caso, e che questi stereotipi siano sottoposti a convalida scientifica>>[225].         

L’indicazione che deriva da questi orientamenti è dunque nel senso che anche per le scienze dell’uomo non ci si debba più accontentare del riferimento a massime d’esperienza tratte dal senso comune[226], in particolare quando il giudice chiede alla psichiatria e alla psicologia cliniche di valutare se l’imputato al momento del fatto fosse infermo di mente e se questo stato di infermità abbia danneggiato e in che misura la sua capacità di intendere o di volere. Per questa valutazione il giudice deve in primo luogo esigere dalla perizia psicopatologica scientificità del metodo, trasparenza metodologica, chiarificazione preliminare delle procedure peritali e delle conoscenze psicopatologiche che il perito intende seguire[227]. Solo così si mette il giudice in condizioni di esercitare il ruolo irrinunciabile di consumatore, consapevole, attento e selettivo del sapere extragiuridico[228]. Mentre in contrasto con queste esigenze è da considerare l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale non esisterebbe un obbligo di documentazione dell’attività svolta dal perito psichiatra[229].

A questo punto rimane però ancora aperta la questione se il giudice possa svolgere questo compito di garante della valenza scientifica del sapere pregiuridico, psicopatologico. Come ricorda Stella, infatti, fra <<tutte le scienze, la psicologia e la psichiatria sono sicuramente le più mutabili: lo dimostra il succedersi dei “paradigmi” lungo l’arco della loro storia (paradigma medico, paradigma psicologico, paradigma sociologico).

Di più: la psicologia e la psichiatria incontrano molte difficoltà nella conquista dello status  di “scientificità”; non hanno ancora ricevuto convincente risposta né il rilievo di Popper, secondo il quale la psichiatria non è scienza perché manca del requisito della falsificabilità, né la tesi di A. Grünbaum, che pur discostandosi dall’impostazione popperiana, vede nella psicoanalisi una “cattiva scienza”>>[230]

Peraltro, occorre anche sottolineare che la <<griglia di verifica>> della scientificità offerta dalla sentenza Daubert non sarebbe da intendersi <<come rigida e cogente>>. Essa <<si collega nella philosophy della decisione Daubert piuttosto alla assunzione di un atteggiamento più aperto e articolato da parte del giudice in ordine alla verifica della fondatezza dei presupposti scientifici delle expert opinions dedotte dalle parti>>[231]. Di fronte quindi alla mutabilità delle scienze psicopatologiche e al riconoscimento della natura comunque non cogente dei criteri selettivi di scientificità del sapere extragiuridico anche là dove essi sono stati espressamente introdotti,  diventa forte la tentazione di seguire pericolosi orientamenti di rinuncia al rispetto di precisi canoni di scientificità delle conoscenze extragiuridiche di natura psichiatrico-psicologica invocate nel processo come prove[232]. Ma a questa tentazione non bisogna cedere, perché, come denuncia Stella, si tratta di un tentativo <<semplicemente ignaro dei valori di immensa portata posti in gioco dal processo penale>>[233].

Questi valori, nel caso in cui l’accertamento verta sullo stato di infermità mentale dell’imputato ai fini del giudizio di imputabilità, attengono anche al diritto della persona alla cura e al trattamento del disturbo psichico. Ciò significa, nella dimensione garantistica dei principi costituzionali, il diritto a una risposta penale che rispetti il reale stato psichico dell’imputato al momento del fatto e dunque anche il coraggio di rinunciare a questa risposta quando tale accertamento risulti scientificamente impossibile.

Ma, quando sia scientificamente impossibile questo accertamento in realtà non siamo in grado attualmente di stabilirlo aprioristicamente e in termini generali, per il relativismo che ormai domina la scienza[234] e in particolare quella psicopatologica, relativismo che impedisce giudizi di scientificità assoluti e generali riguardo a una scienza nel suo complesso[235]. A questa conclusione metodologica è d’altra parte pervenuta la stessa sentenza Daubert e successivamente la decisione Kumho. Anzi, secondo una parte della dottrina americana tale conclusione rappresenterebbe il secondo importante principio, meno esplicito, ma non per questo meno fondamentale, sancito da Daubert per il controllo delle prove esperte, accanto a quello della responsabilità del giudice di gatekeeeper del rigore scientifico. Il giudizio cioè deve riguardare <<the “task at hand”, instead of globally in regard to the average dependability of a broadly defined area of expertise>>.[236] E questa esigenza di una valutazione alla luce del ‘compito da svolgere’ in ragione delle particolarità del caso concreto sarebbe irrinunciabile proprio quando si tratta di valutare l’affidabilità di pareri che applicano metodi di indagine appartenenti a discipline più tecniche che scientifiche[237]. D’altra parte, con particolare riferimento al problema della spiegazione causale si è da ultimo riconosciuto che la stessa fisica newtoniana può <<essere considerata (relativamente) “vera” nel suo campo di applicazione>> e, che, in ogni caso, <<il modello condizionalistico, integrato dal rinvio alle leggi di copertura, non può certo ritenersi soppiantato per l’incertezza delle fondamenta dell’intero edificio epistemologico>>[238]. Si tratta di osservazioni che trovano un significativo riscontro: <<Le decisioni sulla causalità dei giudici, basate sulle catene causali, vengono dunque a situarsi ..... “all’interno del raggio di validità delle leggi di Newton”.

Ha dunque ragione la Corte Suprema statunitense quando sostiene che, per giudicare la validità di una teoria, bisogna tener conto degli scopi cui essa serve: per le analisi causali dei giudici bisogna tener conto del loro scopo, e in tale prospettiva bisogna esprimere un giudizio di validità sulla visione corpuscolariana del mondo, offerto dalla fisica classica>>[239].   

Conseguentemente, per quel che riguarda le scienze psicopatologiche, il giudizio di scientificità di un sapere, in particolare se in evoluzione come quello psicopatologico, per i fini del processo penale non può attualmente che essere di tipo operativo. Esso cioè ha per oggetto non la psicopatologia come scienza in sé, ma la singola teoria esplicativa o la singola tecnica interpretativo-diagnostica del concreto comportamento umano e della sua eventuale patologia[240]. Il giudice dovrà perciò valutare caso per caso l’affidabilità probatoria della specifica teoria esplicativa dell’infermità o della specifica tecnica psicopatologica utilizzata, attraverso un’analisi bilanciata e combinata dei seguenti fattori, tratti appunto dalla sentenza Daubert: la verificabilità della teoria o della tecnica; la conoscenza del livello di errore ad essa relativo e la presenza di standards costanti di verifica; il fatto che la teoria o tecnica rimandi a dati o risultati di ricerche ad essa relativi accettati dalla comunità degli scienziati e pubblicati in riviste accreditate e infine che sia riscontrabile un’accettazione diffusa all’interno della comunità scientifica di tale teoria o tecnica. Si tratta pur sempre di un’applicazione dei criteri Daubert, ma meno puntuale e più flessibile secondo quanto indicato dalla successiva sentenza Kumho, che ha aperto la possibilità <<per il giudice di esplicare la più vasta “latitude in deciding how to test an expert’s reliability” valutando le caratteristiche delle prove dedotte nella specifica controversia>>[241]. Spetterà poi ancora al giudice sempre con riferimento al caso concreto valutare la forza probatoria di quella teoria o tecnica che risulta accreditata, corroborata cioè scientificamente, avvalendosi del suo potere discrezionale di valutazione delle prove[242].

Là ove tuttavia l’interpretazione esplicativa del disturbo e della sua incidenza sulla capacità di intendere o di volere del soggetto in relazione a quel preciso fatto non risulti convincente[243], il giudice dovrà concludere per l’assoluzione di cui all’art. 530, 2° co. c.p.p. L’’elaborazione del dubbio’ a favore della formula assolutoria è la strada indicata come l’unica praticabile anche dalla dottrina tedesca. Secondo tale dottrina infatti né la pena può essere applicata né la misura di sicurezza dell’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario può essere ordinata nel caso in cui permangano dubbi sulla imputabilità totale o parziale dell’imputato[244].

Due sono le questioni che a questo punto vengono in evidenza. La prima attiene alla concreta definizione del grado di convincimento che si deve chiedere al giudice; la seconda attiene all’oggetto su cui deve ricadere siffatto convincimento e che ci rinvia alla formula assolutoria dell’art. 530, 2° co., per la quale il giudice <<pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca o è insufficiente o è contraddittoria la prova che ….. il reato è stato commesso da persona imputabile>>.

 Quanto alla prima questione essa riguarda il grado di affidabilità probatoria da riconoscere a teorie, schemi, interpretazioni, che <<forniscono criteri di valutazione e di inferenza che servono a determinare il fatto nel caso concreto>>[245]. Il grado di affidabilità dovrà ancora una volta essere talmente alto da superare qualsiasi ragionevole dubbio sulla base di una attenta valutazione che solo il giudice può fare in base al suo potere discrezionale e al principio fondamentale del libero convincimento. La dimensione processuale priva infatti le teorie psicopatologiche del momento tecnico-operativo comune a tutte la teorie scientifiche, rappresentato dalla <<utilizzabilità e … riproducibilità tecnica>>. Questo, che è stato individuato come <<il criterio distintivo (anche se non esclusivo) della verità delle proposizioni scientifiche>>[246], per la scienza psicopatologica si traduce nel successo terapeutico[247].

In sintesi: fissato il principio che vi sono comunque delle regole giuridiche-guida fondamentali e vincolanti per il giudice e che esse sono valide per tutti i saperi extragiuridici, e quindi anche per quello psicopatologico che non può sottrarsi al rigore del metodo scientifico, spetterà al giudice decidere della affidabilità di tale sapere[248]. E sarà lo stesso giudice che dovrà avere il coraggio di assolvere ex art. 530, 2° co., tutte le volte in cui permanga un dubbio ragionevole sulle condizioni mentali del soggetto al momento del fatto[249].

E veniamo così all’altra questione. Quello che infatti finora è mancato nella giurisprudenza italiana in tema di imputabilità è stato il coraggio di applicare la formula assolutoria di cui al 2° co. dell’art. 530 c.p.p. Ma occorre anche osservare con le parole del Maestro che la svolta realizzata con la riforma del codice di procedura penale del 1988, in realtà sotto il punto di vista oggetto del nostro esame, è stata <<una svolta largamente incompleta.

Non è vero che l’art. 530, comma 2 e 3 c.p.p. codifichi la regola dell’”oltre il ragionevole dubbio”: è vero che la prova insufficiente o contraddittoria è equiparata alla prova mancante, ma cosa vuol dire insufficiente, insufficiente rispetto a che cosa? E’ una domanda che ho già ripetutamente formulato: rispetto alla regola della preponderanza dell’evidenza o a quella dell’”oltre il ragionevole dubbio”? E contraddittoria entro quali limiti? Se le prove della “reità” sono in contrasto con quelle dell’innocenza, e sono ad esse superiori o rispetto ad esse prevalenti, in che modo dovrà decidere il giudice?

La verità è che l’art. 530, comma 2 c.p.p., rappresenta il vero “buco nero” della riforma del 1988>>[250]  

Nessuna meraviglia dunque se i dubbi irrisolti sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato in realtà sono stati rimossi o affermando la piena imputabilità del soggetto o ricorrendo alla via di fuga della semi-imputabilità a seconda delle diverse esigenze politico-criminali del caso concreto. Non può che essere questa la spiegazione del fatto che fino ad ora non risultano decisioni di assoluzione per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova sull’imputabilità; e ciò va contro ogni aspettativa, data la mutabilità della scienza psicopatologica e le incertezze che da sempre la caratterizzano e considerato che la stessa Cassazione impone al giudice di <<indicare la causa di assoluzione nel dispositivo anche nelle ipotesi previste dall’art. 530 secondo comma c.p.p.>>[251]. Mentre la stessa Corte costituzionale ha sollecitato i giudici a risolvere i problemi che si manifestano nella concreta applicazione della disciplina in tema di imputabilità, <<facendo applicazione, nel dubbio, proprio delle regole di giudizio espressamente stabilite nei commi 2 e 3 … dell’art. 530 del codice di procedura penale>>[252].

Ma occorre anche sottolineare che questa prassi è stata ulteriormente favorita dal fatto che l’orientamento prevalente nella giurisprudenza è nel senso di ritenere che l’imputabilità sia presunta fino a prova contraria e che questa prova contraria incomba sull’imputato[253]. Conseguentemente in assenza, contraddittorietà o insufficienza di tale prova il soggetto viene considerato imputabile. Ecco allora che per vincere tale presunzione, secondo la Cassazione, la difesa deve prospettare <<elementi specifici potenzialmente atti a vincere la detta presunzione; attitudine questa, che può essere riconosciuta solo quando i detti elementi si appalesino idonei a dimostrare l’esistenza di una vera e propria “infermità” la quale, pur non dovendo necessariamente identificarsi in una infermità propriamente psichica …, deve tuttavia essere caratterizzata (poiché altrimenti non si tratterebbe neppure di “infermità”), da inequivocabili connotazioni patologiche, obbiettivamente rilevabili, indipendentemente dalla loro classificabilità o meno in una o in un’altra categoria nosologica>>[254]. Ne deriva che la perizia può essere disposta <<solo quando ricorrono gravi, fondati e rilevanti indizi circa una lamentata infermità, che devono avere un substrato in fatti emergenti dalla istruttoria, dai quali si possa ricavare la sicura o probabile esistenza di uno stato morboso>>[255]. Tutto ciò significa pretendere dall’imputato un principio di prova della sua infermità al fine di escludere l’elemento dell’imputabilità, il dubbio sulla quale, come per tutti gli altri elementi del reato, andrebbe invece superato attraverso la prova positiva della capacità di intendere e di volere[256]. Ma significa anche un onere di allegazione particolarmente qualificato, visto che si pretendono dall’imputato connotazioni patologiche inequivocabili e obbiettivamente rilevabili della infermità. Con la conseguenza di un innalzamento dello standard della prova a favore che è comunque illegittimo, data la presunzione di innocenza costituzionalmente garantita[257]. In questo principio infatti <<si identifica il fondamento sia della regola in dubio pro reo sia dell’esclusione dal sistema probatorio di presunzioni a carico dell’imputato>>[258].     

La realtà è che mentre la giurisprudenza che si pronuncia sui profili sostanziali dell’imputabilità continua a considerarla estranea al reato e in particolare alla colpevolezza, tanto da ritenere compatibile il dolo con l’incapacità di intendere o di volere[259], e quindi può tranquillamente parlare di presunzione di imputabilità, la giurisprudenza che si confronta con le questioni processuali legate all’imputabilità le riconosce implicitamente il ruolo di componente del reato secondo una interpretazione costituzionalmente orientata del reato e dei suoi elementi. Questa seconda impostazione è stata d’altra parte fatta propria dal legislatore della riforma del processo penale del 1988, allorché fra le formule assolutorie dell’art. 530 ha inserito anche quella derivante dal dubbio sull’imputabilità del soggetto agente[260].  Ne consegue che il giudice per condannare deve andare oltre il ragionevole dubbio anche sull’imputabilità del soggetto, conformemente alla logica accusatoria del processo penale che impone all’accusa di dimostrare la colpevolezza dell’imputato, <<superando il dato di partenza fornito dalla presunzione di innocenza dello stesso>>. Ma <<per fare ciò non sono sufficienti risultanze probatorie incomplete o controverse, essendo viceversa necessario che vi sia la prova piena della sua responsabilità: l’ipotesi accusatoria deve apparire così fortemente probabile da poter essere giudizialmente vera, nel senso che l’eventuale dubbio residuo può essere ragionevolmente rimosso: non vi deve essere insomma persistente contraddizione tra gli strumenti conoscitivi in possesso del giudice>>[261]. In breve, come sottolinea Cordero, la prova <<appare “insufficiente” quando le ipotesi affermate dall’accusa non risultino così altamente probabili che possiamo definirle vere, nel senso convenzionale che l’aggettivo assume in sede storica; ed è contraddittoria se risultano tali le fonti>>[262]. Diversamente per assolvere ex art. 530, 2° co: in questo caso basta un livello meno rigoroso della prova che può essere anche quello del “più probabile che no” o della preponderanza dell’evidenza ovvero della probabilità prevalente[263].

Ma quelle dell’imputabilità rimangono pur sempre realtà psichiche segnate da un dato incontrovertibile, e cioè che le regolarità, le conformità che esse possiedono e che anche in questa materia consentono <<la formulazione di ipotesi generali in linea di principio intersoggettivamente controllabili>>[264], dal punto di vista della loro operatività con riferimento al caso singolo non si prestano allo stesso genere di riscontri che caratterizzano le regolarità e le generalizzazioni relative al mondo della natura. Le affermazioni relative ai casi singoli richiedono infatti di essere continuamente ricontrollate, in quanto <<la validità delle asserzioni di regolarità concernenti il mondo umano può essere posta in discussione dai soggetti per cui essa è enunciata>>[265]. Da qui la necessità di inferire la spiegazione da fattori di diversa natura[266], anche di natura statistica ai fini di una collaborazione sinergica di controllo clinico e di controllo extraclinico[267]. Tale collaborazione consentirebbe di arrivare alla prova della capacità di intendere e di volere con <<la garanzia della controllabilità intersoggettiva delle proposizioni psicologiche, che né un controllo soltanto clinico né uno soltanto extraclinico potrebbero conseguire>>[268]. Ma si tratta pur sempre della prova del “poter agire diversamente”, che, si è affermato, <<non può ottenersi per il caso singolo che in via analogica>>[269]. Procedimento di inferenza analogica che, se per un verso non significa, vale la pena ribadirlo, che il giudice può decidere sulla base di <<un suo intimo convincimento “in libertà”>>[270], per altro verso riflette la consapevolezza che il processo e in particolare quello penale non può correre il pericolo di essere trasformato <<in una sorta di laboratorio, dominato dalla tecnica e neutrale rispetto ai valori che sono in gioco nella controversia e nei quali si rispecchiano i valori della società intera>>[271].

Queste sono le ragioni che impediscono al giudice di sottrarsi all’obbligo della motivazione tecnico-scientifica della sentenza, anche quando condivide le conclusioni della perizia d’ufficio in tema di imputabilità. E ciò contrariamente a quanto sostenuto da una parte della giurisprudenza, secondo la quale anche nel caso in cui le conclusioni della perizia d’ufficio siano contestate dai consulenti di parte, il giudice che intende aderire alla perizia d’ufficio <<non dovrà per ciò necessariamente fornire, in motivazione, la dimostrazione autonoma della loro esattezza scientifica, della erroneità, per converso, delle altre, dovendosi al contrario considerare sufficiente che egli dimostri di aver comunque criticamente valutato le conclusioni del perito d’ufficio>>[272]. Anzi, si arriva a sostenere che non sarebbe carente di motivazione la sentenza nella quale il giudice fa proprie <<le deduzioni e le argomentazioni tecniche poste dal perito d’ufficio a base di un responso di natura scientifica, disattendendo le opposte considerazioni e argomentazioni di un consulente di parte, nessuna delle quali appaia, al lume della comune logica, decisiva per ritenere erroneo il parere del perito di ufficio>>. Secondo la Corte di Cassazione non si potrebbe pretendere infatti <<che il giudice dia una dimostrazione superiore dell’esattezza dell’una o erroneità dell’altra delle due tesi peritali>>[273].

Siffatte interpretazioni del principio del libero convincimento, lo espongono ad una lettura in chiave soggettivistica e irrazionale che non si può condividere[274]. Il convincimento del giudice si deve basare infatti su <<una valutazione logica della prova, non priva di linee e di direttive di tipo obiettivo, che arrivi a un accertamento storico dei fatti in un adeguato assemblaggio di questi insieme di elementi, di maggiore o minore ampiezza, di dati accreditativi o rivelatori, che è stato possibile concentrare nel processo. . ….”Criterio razionale” è quello della logica, della scienza e dell’esperienza, lasciando da parte l’arbitrarietà, la supposizione o la congettura>>[275]. E ancora, come precisa sempre la Cassazione, <<l’osservanza dell’”oltre il ragionevole dubbio” non può dirsi certamente rispettato quando la pronuncia di condanna si fondi su un accertamento giudiziale non sostenuto dalla certezza razionale, ossia da un grado di conferma così elevato da conferire certezza. Il principio dell’”oltre il ragionevole dubbio” rappresenta il limite della libertà di convincimento del giudice, apprestato dall’ordinamento per evitare che l’esito del processo sia rimesso ad apprezzamenti discrezionali, soggettivi, confinanti con l’arbitrio>>[276]

Anche queste indicazioni fanno parte di quelle prescrizioni e di quei consigli che, come insegna Stella, <<garantiscono al meglio decisioni giudiziarie esenti da dubbi ragionevoli>>[277], e che sono tanto più indispensabili nella materia dell’imputabilità e dell’infermità mentale, ove è facile cadere nella tentazione di un uso ideologico delle teorie psicopatologiche, per difendersi dal “male” di cui la psichiatria si occupa e che, manifestatosi con il delitto, diventa intollerabile per la collettività[278].            

MARTA BERTOLINO Ordinario di diritto penale nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca

   
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[1]  F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2004, p. 456 ss.

[2] D. Tidmarsh,  The level of risk posed, in A. Buchnan (a cura di), Care of the mentally disordered offender in the community, Oxford, 2002, p. 26.

[3] Cfr. D. Tidmarsh,  The level of risk posed, cit. p. 29.

[4] Per la definizione della quale – come è noto - le scienze psicopatologiche utilizzano paradigmi interpretativi diversi e contrastanti, cfr. M. Bertolino, La crisi del concetto di imputabilità, in Riv. it. dir. proc. pen, 1981, p. 191 ss.

[5] M. Tallacchini, Biotecnologie e diritto della scienza incerta, in Notizie di Politeia, (54), 1999, p. 98.

[6] Il titolo del mio articolo “La crisi del concetto di imputabilità”, cit., p. 191, voleva icasticamente stigmatizzare questo stato di cose, analiticamente spiegato poi nel testo.  Il termine <<crisi>> da me adoperato in quell’articolo è stato invece criticato attraverso una opzione interpretativa che riduttivamente attribuisce la crisi alla categoria dell’imputabilità, isolando così il significato dell’espressione <<crisi>> dal contesto in cui esso è stato da sempre collocato e cioè quello dei diversi paradigmi esplicativi della malattia mentale. Con la conseguenza che, se l’imputabilità si sostanzia nella capacità di intendere e di volere, la crisi di quest’ultima non può non riflettersi sull’imputabilità e diventare crisi anche  di quest’ultima. Ciò non significa, ovviamente, messa in questione della rilevanza funzionale dell’imputabilità (circa la quale peraltro non possiamo non ricordare che pure su questo fronte vi è stato chi ne ha addirittura teorizzato l’abolizione), bensì ricerca di nuovi contenuti e nuovi parametri in grado di sostituire quelli empirico-strutturali tradizionali, asseritamente andati in crisi. 

[7]M. Tallacchini, Biotecnologie, cit., p. 98: <<Ma poiché è il diritto che determina le condizioni di accreditamento della scienza, quando esso sceglie tra rappresentazioni diverse dei fenomeni scientifici diventa cruciale stabilire con quali criteri ciò avvenga, non essendo sufficiente un non ben definito appello al parere degli esperti>>.

[8] <<L’idea di incertezza oggettiva denota le varie forme di indeterminazione derivanti dalla complessità delle conoscenze, dalla mancanza o dall’insufficienza di dati, dalla imprevedibilità degli esiti, dal carattere stocastico delle previsioni. L’idea di incertezza soggettiva allude invece alle dimensioni valutative che percorrono la scienza e che incidono sia a livello teorico che operativo>> (M. Tallacchini, Biotecnologie, cit. , p. 99).

[9] M. Tallacchini, Biotecnologie, cit. , p. 100, con particolare riferimento al diritto ambientale.

[10] Corte cass. 7-7-2000, CED 216613.

[11] M. Tallacchini, B. De Marchi, Politiche dell’incertezza, scienza e diritto, in Politeia, (70), 2003, p.3 ss.

[12] V. M. Bertolino, La crisi, cit., p. 193 ss.

[13] M. Tallacchini, B.  De Marchi, Politiche dell’incertezza, cit., p. 3.

[14] Così K. Popper, La psicoanalisi tra mito e scienza, in D. Antiseri (a cura di), Analisi epistemologica del marxismo e della psicoanalisi, Roma, 1974, 212 s. Essa infatti utilizzerebbe un metodo non empirico o meglio pseudo­empirico: «ossia tale che pur facendo appello all'osservazione e all'esperimento. non risponde alle esigenze scientifiche».

[15] A. Pap, Sulla interpretazione empirica dei concetti psicoanalitici, in S. Hook (a cura di), Psicoanalisi e metodo scientifico,  Torino, 1967, p. 177.

[16] A. Pap, Sulla interpretazione empirica, cit., p. 177

[17] Cosi K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Milano, 1970, 21 s.: da un sistema scientifico non bisognerebbe cioè esigere «che esso sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall'esperienza ».

[18] Per K. Popper, , Scienza e filosofia, Torino, 1969, p. 183, la falsificazione con­siste nel confronto fra teoria ed osservazione (la base empirica), senza che sia necessariamente coinvolta una teoria migliore. Infatti «la scienza non ha nulla da spartire con la ricerca della certezza o della probabilità o della credibilità. Non ci interessa fondare la sicurezza o la certezza, o la probabilità delle teorie scien­tifiche. Consapevoli della nostra fallibilità, siamo interessati solo a criticarle, e a metterle alla prova, nella speranza di scoprire dove siamo in errore, di imparare dai nostri errori e, se abbiamo fortuna, di procedere a teorie migliori ». Quanto sopra - precisa ancora il filosofo - non esclude che il compito della scienza sia la ricerca della verità, cioè di teorie vere, purché non sia una verità in sé, pura e semplice, ma una verità interessante, che risponda cioè ai loro problemi. La verità, secondo Popper, sarebbe quindi soltanto un ideale regolativo: lo scien­ziato sa che ogni volta che viene superato un errore si avvicina di più alla verità, ma questa non potrà mai essere posseduta.

[19] Si dovrebbe invece «convenire quali situazioni osservabili, se effettivamente riscontrate, indicano che la teoria è confutata» (K. Popper, Congetture e confutazioni, Bologna, 1970, p. 370 s.).

[20]K. Popper, La psicoanalisi tra mito e scienza, cit., p. 216.

[21] All'inizio del suo affermarsi il fatto che avesse un fondamento empirico aveva spinto a credere che si potessero individuare i criteri di confutazione in base ai quali la teoria sarebbe risultata falsificabile.  .

[22]K. Popper, La psicoanalisi tra mito e scienza.,cit., p. 218, definisce tale operazione «una mossa con­venzionalistica o stratagemma convenzionalistico ». Le novità, che si manifestano come anomalie rispetto al paradigma, vengono cioè spiegate in modo scorretto, costruendo appunto modifiche ad hoc della teoria, che 'permettano di mantenere quest'ultima e nello stesso tempo di poter inquadrare la anomalia nel paradigma. Il contro-fatto, l'anomalia, lungi perciò dal risultare confutativo della teoria para­digmatica, induce la proliferazione di riadattamenti ad hoc, che si estrinsecano come varianti o teorie -alternative semidipendenti.

[23] Anche per tale paradigma si rinvia a M. Bertolino, La crisi del concetto di imputabilità, cit., p. 195 ss.

[24]M. Castiglioni, A. Corradini, Modelli epistemologici in psicologia, Roma, 2003, p. 154.

[25]E. Nagel, Problemi metodologici della teoria psicoanalitica, in S. Hook (a cura, di), Psicoanalisi e metodo scientifico cit., p. 41 s.

[26] Cfr. E. Nagel, Problemi metodologici della teoria psicoanalitica, cit., p. 41 s; secondo l'Autore bisognerebbe poi tener conto anche del fatto che spesso gli stessi analisti discordano tra loro nella inter­pretazione di uno stesso caso e che mancherebbe comunque un modo obiettivo che permetta di decidere tra le diverse interpretazioni. Occorrerebbe quindi - pre­cisa ulteriormente Nagel - che i dati potessero « essere analizzati in modo da rendere possibile dei confronti sulla base di qualche gruppo di controllo », al fine di raggiungere « una prova valida di un'inferenza causale. L'istituzione di questo tipo di controlli è il requisito minimo di un'interpretazione e di un'utilizzazione attendibile dei dati empirici ». Il fatto che ad esempio la teoria feudiana spieghi in maniera sistematica un vasto settore di importanti fenomeni, non giustifica, se­condo Nagel, l'attribuzione ad essa del carattere di scientificità, perché «la capa­cità inventiva di un sistema di idee non gli conferisce alcuna validità reale>>. Perciò- conclude l'Autore - « per quanto riguarda la teoria freudiana in sé, come dottrina che possa pretendere ad una effettiva validità, posso solo ripetere il ver­detto scozzese: non provato »; cfr. a tale proposito anche K. Popper, La psicoanalisi tra mito e scienza, cit., p. 218, secondo il quale la psicoanalisi sarebbe paragonabile alla astrologia, in quanto, come quest'ultima, presenterebbe alcuni aspetti più in comune con i miti pri­mitivi che con l'indagine scientifica. Essa cioè, come l'astrologia, descriverebbe alcuni fatti nello stesso modo dei miti e conterrebbe quindi interessanti sugge­stioni psicologiche, ma in forma non controllabile, che, se pur potrebbero costi­tuire importanti anticipazioni scientifiche non potrebbero ancora pretendere l'at­tributo di scientificità.

[27]  Cfr. R. Perrez, La psiconalisi: Una scienza? Roma, 1977, p. 201: la teoria psicoanalitica «non ha ancora raggiunto sotto più riguardi e nel suo complesso uno status scientifico. Bisogna però aggiungere che numerose inda­gini scientifiche hanno corroborato una serie di riformulazioni di ipotesi psicoana­litiche, che permettono una verifica relativamente facile... e che una serie di impor­tanti assunti psicoanalitici sono oggi diventati patrimonio generale della psicologia. La teoria psicoanalitica si distingue da una dottrina semp1icemente plausibile per il suo essere, almeno in parte, molto più strettamente connessa all'empiria, cosa che risulta dall'esperienza clinica e dà a molti motivo di parlare di una ‘prova clinica’ la cui adeguatezza per altro è assai contestata ».

[28] E la psicoanalisi <<una mitologia che ha molto potere» (L. Wittgenstein, Lezione e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano, 1967, 138).

[29]L. Wittgenstein, Lezione e conversazioni sull'etica,  cit.,p.  125.         

[30]L. Wittgenstein, Lezione e conversazioni sull'etica, cit.,p. 129, e questo perché, secondo l'Autore, non sarebbe possibile in psicologia formulare leggi come in fisica. Per un più appro­fondito confronto tra la psicologia e la fisica cfr. anche H. J. Eysenck, Usi ed abusi della psicologia, Firenze, 1980, p. 206.

[31] M. Castiglioni, A. Corradini, Modelli epistemologici in psicologia, cit., p. 151: <<Da una parte si possono annoverare coloro che rivendicano l’autonomia metodologica della psicoanalisi (filosofi  “ermeneutici” come ad esempio P. Ricoeur), dall’altra vanno ricordati filosofi della scienza come K. Popper o A. Grünbaum, che convocano la psicoanalisi alla prova del rendiconto empirico. Non sono mancati tentativi di mediazione tra il momento ermeneutico e quello epistemologico …, ma non si può a tuttora affermare che l’enigma metodologico della psicoanalisi abbia trovato una soluzione invalsa>>.

[32] Su questo paradigma si rinvia ancora a M. Bertolino, La crisi, cit., p. 197 s.

[33] D’altra parte la metodologia falsificazionista popperiana presuppone una scienza più matura di quanto non sia attualmente la psicopatologia. Popper infatti non risale agli stadi della «scienza» in cui non vi sono affatto teorie (nel senso di teorie formalizzate), o in cui ne coesistono molte e tutte insoddisfacenti, cfr. sul punto M. Masterman, La natura di paradigma, in I. Lakatos, A. Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, Milano, 1976, p. 141.

[34] Cfr. E. Agazzi, Criteri epistemologici delle discipline psicologiche, in G. Siri (a cura di), Problemi epistemologici della psicologia, Milano. 1976, p. 16 s.

[35] Si tratterebbe di una serie di proposizioni formulabili attorno alle «co­se di questo mondo che si debbono ritenere immediatamente vere, e po­tremmo perciò dire che i 'protocolli' sono appunto tali proposizioni>> (E. Agazzi, Criteri epistemologici delle discipline psicologiche, cit., p. 14).            

[36] Una «cosa qualsiasi è in realtà un fascio di oggetti>>, e «le scienze si occupano delle cose sotto un certo punto di vista e l’oggetto è pro­prio questa sintesi di cosa e punto di vista; i diversi punti di vista sono infine le diverse scienze>> (E. Agazzi, Criteri epistemologici delle discipline psicologiche, cit., p. 12).

[37] In altri termini quei criteri « in base ai quali ogni scienza decide in via immediata sulla verità o falsità delle proposizioni>> e in base ai quali si di­stinguerebbero le scienze fra loro (E. Agazzi, Criteri epistemologici delle discipline psicologiche, cit., p. 14).

[38]  Avrebbe cioè i suoi «oggetti>> specifici. «Gli oggetti di una scienza sono quegli aspetti della realtà o delle cose dei quali si può parlare ricorrendo per il controllo delle verità delle proposizioni ai criteri di protocollarità ammessi da quella scienza» (E. Agazzi, Criteri epistemologici delle discipline psicologiche, cit., p. 14).

[39] Cfr. E. Agazzi, Criteri epistemologici delle discipline psicologiche, cit., p.  16 s.

[40] Cfr. in particolare T. Kuhn.,La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, 1978, p. 20 s. Mentre <<per la filosofia del razionalismo critico di Popper la scienza normale di Kuhn appare semplicemente cattiva scienza, in quanto non è diretta a un controllo critico delle regole che guidano la ricerca, ma a uno sfruttamento quasi dogmatico del loro potenziale>> (P. Hoyningen-Huene, Prefazione, in T. Kuhn, Dogma contro critica. Mondi possibili nella storia della scienza, Milano, 2000, p. XV).

[41] Cfr. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., p. 138; né esisterebbe d'altronde alcun altro stru­mento che permetta di rispondere alla domanda se la scelta - una volta fatta sia stata o no la migliore, in quanto - ancora secondo Kuhn - « tutte le teorie storicamente significative si sono accordate coi fatti, ma soltanto più o meno... Poiché nessun paradigma risolve mai tutti i problemi che esso definisce e poiché non succede mai che due paradigmi lascino irrisolti proprio gli stessi problemi, le discussioni sui paradigmi implicano sempre la questione: quali problemi è più importante risolvere».

[42] T. Kuhn, Dogma contro critica, cit., p. 177.

[43] T. Kuhn, Dogma contro critica, cit. p.178.

[44] Intendendo per programma l'insieme delle regole metodologiche, « alcune delle quali indicano quali ricerca evitare (euristica negativa), altre quali vie perseguire (euristica positiva) » (I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca, in Critica e crescita della conoscenza, cit., p. 193 s).

[45]  Si stanno infatti oggi sviluppando studi sulla possibile origine genetica e biochimica di alcune situazioni psicopatologiche, v. anche postea sub nota n. 51.

[46] In quanto - come sostiene I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca , cit., p. 235, <<anche se il pro­gramma sconfitto è un programma 'vecchio, affermato, e ormai esaurito, prossimo al punto naturale di saturazione, può continuare ad opporsi per molto tempo e resistere con innovazioni ingegnose che aumentano il contenuto pur senza essere ricompensate da un successo empirico. E’ molto difficile sconfiggere un programma di ricerca promosso da scienziati dotati di talento e immaginazione ».

[47] «La causa principale del fatto che a tutt'oggi non si abbia una soluzione univoca va individuata - si è anche sostenuto (R. Perrez, La psicoanalisi, cit., 12) - nella modificazione del concetto di scienza, conseguente alla rivoluzione avvenuta in fisica con la formulazione del principio di indeterminazione di Heisenberg, e nella logica matematica con la formulazione dei teoremi di Gödel, formulazioni destinate entrambe a far entrare in crisi, sul terreno della teoria della scienza, la fiducia neopositivista nel dato empirico, fondata sulle dimostrazioni di Wittgenstein della tautologicità delle leggi logiche. Conseguenza di questa rivoluzione nella teoria della scienza è la proposta popperiana della asimmetria fra verificabilità e falsifìcabilità».

[48] S. Ciappi, G. B. Traverso, La voce universale ed il contesto critico. Fondamenti teorici e pratiche di fondo in criminologia e psichiatria forense, in  A. Ceretti, I. Merzagora (a cura di), Questioni sull’imputabilità, Padova, 1994, p. 148: <<L’oggetto primario di indagine da parte del clinico, infatti, non è tanto soddisfare il criterio di verità delle proposizioni, stabilendo connessioni tra significato e verifica empirica, quanto l’esplorazione di un linguaggio metaforico che pretenda di sondare il senso  nascosto delle cose>>.

[49] S. Ciappi, G. B. Traverso, La voce universale ed il contesto critico, cit., p. 151 ss. Una posizione, questa, avvicinabile alla epistemologia costruttivista post-popperiana, che contrappone alla scienza classica fondata sulla nozione di verità <<una visione della scienza come “costruzione”, in cui gli aspetti soggettivi idiosincratici diventano predominanti rispetto alle caratteristiche dell’oggetto. Da ciò derivano alcune conseguenze di chiara impostazione post-popperiana, come l’affermazione della relatività di ogni conoscenza al soggetto osservante, o la visione dello sviluppo scientifico in termini di incommensurabilità tra punti di vista irriducibili>> (M. Castiglioni, A. Corradini, Modelli epistemologici in psicologia, cit. , p. 133, le quali osservano giustamente come da queste idee derivi in sede clinica il rischio di un costruttivismo radicale che porta <<con sé un soggettivismo altrettanto radicale. Ciò implica l’impossibilità di uscire dal proprio orizzonte soggettivo e dunque l’inconoscibilità del sistema osservato, ossia del paziente>>.

[50]  Si pensi ad esempio alle oligofrenie, alle forme demenziali, alle varie forme di psicosi.

[51]  Come infatti osserva J. Krümpelmann, Die Neugestaltung der Vortschriften über die Schuldfähigkeit durch das

Zweite Strafrechtsreformgesetz vom 4 Juli 1969, in ZStW, 88, 1976, p. 17, « con l'accertamento di una psicosi - a prescindere dai casi limite - si avrebbe anche un tale indice della esistenza di difetti nella compagine della personalità, da poter escludere nella maggior parte dei casi la presenza nel soggetto della normale ca­pacità di discernimento e di motivazione senza che occorra un ulteriore accertamento ». Vale la pena ricordare che il modello dell’entità nosografia viene oggi ancora assunto per l’interpretazione dei disturbi mentali da parte delle neuroscienze e della psichiatria neurobiologica. <<In  effetti, l’ideale delle neuroscienze resta pur sempre quello kraepeliniano, che aspira a ricondurre il “disturbo” psicopatologico ad una patologia neurobiologica, secondo un rapporto specifico di dipendenza che subordina la dimensione psicopatologica e quella somatica, negandone qualsiasi autonomia, sia sul piano clinico, che su quello della ricerca>> (G. Giacomini, Psicopatologia classica e DSM: un dilemma epistemologico, clinico e didattico per la psichiatria contemporanea, p. 2 ss, reperibile sul sito internet www.pol-it.) Infatti per le neuroscienze e per la psichiatria neurobiologica <<il disturbo (disagio soggettivo, alterazione funzionale) è bensì “mentale”, ma la “malattia” può essere soltanto cerebrale>> 

[52] G. Schwalm, Schuld und Schuldfähigkeit im Licht der Strafrechtsreformgesetze vom 25.6 und 4.7.1969, des Grundgesetzes und der Rechsprechung des Bundesverfassungsgerichts, in JZ, 1970, p. 492. Occorre altresì ricordare come anche con riferimento a disturbi come le psicosi orientamenti moderni della psichiatria, e in particolare di quella forense, sottolineano come si tratti di disturbi che comunque possono lasciare nel soggetto spazi di libertà decisionale e quindi, sul fronte dell’imputabilità, come la loro incidenza sulla capacità di intendere o di volere vada valutata in termini eziologici rispetto al reato commesso, così da ultimo I. Merzagora Betsos, I nomi e le cose, in Riv. it. med. leg., 2005, p. 34 ss.

[53] Per una recente indagine sulla natura e rilevanza di tale tipo di disturbi nella prospettiva del giudizio di imputabilità, si rinvia a F. Centonze, L’imputabilità, il vizio di mente e i disturbi di personalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 247 ss e alla bibliografia ivi richiamata.

[54] Il <<concetto di causa viene inteso oggi in senso solistico e sistemico; e quindi circolare e non lineare come correlazione tra serie ordinate di fenomeni spiegabili scientificamente solo nel loro nesso organico>> (M. Schiavone, Riflessioni epistemologiche sull’eziologia della schizofrenia,  in E. Agazzi, C. Viesca (a cura di), Le cause della malattia. Un’analisi storica e  concettuale, Genova, 1999, p. 223). Sul concetto di causalità circolare in medicina, v. da ultimo G. Federspil, Spiegazione e causalità in medicina, in corso di pubblicazione, p. 22 ss. datt.

[55] V., per esempio, G. Ponti, Il dibattito sull’imputabilità, in Questioni sull’imputabilità, cit., p. 8. 

[56] G. Ponti, I. Merzagora, Psichiatria e giustizia, Milano, 1993, p. 60.

[57] M. Schiavone, Riflessioni epistemologiche, cit., p. 222 ss, il quale precisa che  molto <<più solido e sofisticato appare il riduzionismo biologico connotato dal rigore formale argomentativo e dal linguaggio scientifico-sperimentale, riconducibile al modello metodologico delle scienze della natura, ma che tende alla riconduzione e alla identificazione tra mentale e cerebrale, tra psichiatria, neurologia e psicofarmacologia, con la pretesa di affrontare e risolvere i problemi del disturbo mentale nell’ambito delle scienze della natura con rigida esclusione delle scienze umane  e della filosofia e, quindi, con il conclamato rifiuto di ogni approccio  diverso da quello della spiegazione causale , quali quello della comprensione e interpretazione>>.

[58] M. Schiavone, Riflessioni epistemologiche, cit., p. 223 ss, in particolare circa l’eziologia della schizofrenia, la cui patogenesi risulterebbe <<oggi scientificamente solida e documentata>>. A proposito della depressione , v. M. B. Ramos de Riesca, Il concetto di causa nella depressione: la teoria neuropsichiatria attuale, in  E. Agazzi, C. Viesca (a cura di), Le cause della malattia, cit., p. 231 ss: <<Il concetto moderno della depressione …è concepito su basi biochimiche e molecolari, che hanno rivoluzionato la visione della medicina negli ultimi anni>>.

[59] M. Schiavone, Riflessioni epistemologiche, cit., p. 223.

[60] M. Schiavone, Riflessioni epistemologiche, cit., p. 224. Sui fondamenti epistemologici delle scienze psicopatologiche posso perciò rinviare ancora alla mio precedente scritto,  La crisi del concetto di imputabilità, cit.,p. 210; con riferimento in particolare alla psicologia, per un quadro riassuntivo, da ultimo, v. M. Castiglioni, A. Corradini, Modelli epistemologici in psicologia, cit, passim.

[61] Proprio a proposito di questo sistema sarebbe possibile parlare di una nuova epistemologia evolutiva, che cerca di cogliere la connessione, la corrispondenza fra il mondo delle ‘cose’ e quello dei pensieri sulle ‘cose’. Ebbene questa epistemologia conclude per una corrispondenza non tanto univoca quanto dialettica. I pensieri si organizzano e si sviluppano con l’aiuto delle ‘cose’, nel senso che le reti neurali subiscono (sperimentano) un continuo riadattamento che può essere provocato sia da fattori biochimico-fisiologici sia da comportamenti psicologici. E sarebbe proprio il metodo psicoanalitico con il suo sistema delle libere associazioni a meglio adattarsi alla auto-organizzazione evolutiva del sistema cervello-mente: così G. F. Azzone, Medicine from Art to Science, Amsterdam, Berlin, 1998, p. 169.

[62] E. Agazzi, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 393. <<In generale, si può affermare che la complessità e la peculiarità delle situazioni e delle tematiche affrontate dalle scienze umane, nonché la specificità delle singole discipline, abbiano indotto un deciso ampliamento, e un netto orientamento pluralista nella letteratura sulla spiegazione>> (M. C. Galavotti, Presentazione, in R. Campaner (a cura di), La spiegazione nelle scienze umane, Roma, 2004, p. 10, la quale precisa come a partire dagli anni novanta nel dibattito sulla spiegazione scientifica convivano tre principali correnti, quella causale, che cerca di coniugare la spiegazione delle cause dei fenomeni con il carattere indeterministico della scienza, quella pragmatica <<che pone in primo piano i legami fra il contesto e la domanda di spiegazione, nonché la risposta a tale domanda, contenente appunto l’informazione esplicativa>> e quella unificazionista, che <<pone invece l’accento sul potere esplicativo derivante dalla capacità delle teorie scientifiche di unificare un gran numero di fenomeni per mezzo di un numero ristretto di principi generali>>. Queste teorie si affiancano <<alla visione hempeliana, mai tramontata del tutto. Mentre però la teoria hempeliana, quella causale e quella unificazionista fanno leva sulle leggi scientifiche, considerate l’asse portante della spiegazione, la prospettiva pragmatica privilegia l’uso di modelli ….caratterizzati da una maggiore dipendenza dal contesto in cui vengono usati>>).

[63] W. R. Uttal, E’ possibile spiegare i processi psicologici? Appello per una ripresa del comportamentismo, in AAVV, La spiegazione nelle scienze umane, cit., p. 145 ss., secondo il quale <<teorie e spiegazioni psicologiche di ogni genere dovrebbero essere relegate nel ruolo di teorie e spiegazioni ad hoc, o ritenute solo ricostruzioni o costrutti ipotetici che non potranno mai essere individualmente confermati né distinti da numerose, plausibili alternative. Molte di queste spiegazioni, infatti, potrebbero risultare valide tanto quanto qualunque alternativa almeno apparentemente plausibile…..Le “spiegazioni” psicodinamiche, cognitive o analitiche dei meccanismi sottesi ai comportamenti devianti potrebbero risultare manifestazioni di pregiudizi del clinico o di spinte umanistiche, anziché autentiche giustificazioni logiche di terapie, sostenute da dati scientifici>>. L’A. ritiene conseguentemente che <<la sola forma di teoria psicologica sostenibile>> sia <<la ripresa di un qualche tipo di comportamentismo>> non riduzionista, ma tradizionale o di nuovo tipo e conclude osservando che <<il nostro utilizzo dei dati descrittivi deve essere diverso da quello fatto in passato. Dobbiamo riconoscere che l’interpretazione del significato di questi dati in termini riduttivistici presenta gravi ostacoli, e accontentarci della nostra capacità di descriverli e prevederli>>. Il comportamentismo – come è noto - rappresenta infatti una teoria psicologica secondo la quale la psicologia sarebbe da considerare una disciplina empirica e sperimentale in grado di formulare leggi e previsioni, a condizione che il suo oggetto di studio sia il comportamento umano esteriore, in quanto a differenza dai processi mentali è osservabile, controllabile e può essere descritto in termini oggettivi.

[64] Il manuale internazionale di psicodiagnostica più diffuso e accreditato dell’American Psychiatric Association. L’ultima versione è il DSM-IV-TR, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Text Revision, Milano, 2001. L’altra classificazione dei disturbi mentali è quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’ICD-10.

[65] Il DSM <<funziona da paradigma e stabilisce a priori che cosa è un problema – in questo caso l’identificazione di un disturbo a partire da dei sintomi. La posizione del Dsm-III appare allora ben poco “neutrale”, e la sua ricerca di attendibilità si traduce in una ricerca di consenso su quello stesso paradigma che dichiara di voler mettere tra parentesi, ovvero il paradigma medico-positivista>> (G. Rugi, Dsm-III e diagnosi. Riflessioni su un paradigma nascosto, in Psicoterapia e scienze umane, 1989, 3, p. 71 ss: <<Possiamo stare certi che un numero maggiore di psichiatri funzionerà secondo il paradigma kuhniano e un numero molto minore secondo il modello popperiano>>.  Peraltro lo stesso criterio del consenso, almeno in psicopatologia, non sembra offrire sufficienti garanzie di affidabilità, dato che,  se <<qualcuno ha creduto ciecamente nel consenso degli esperti, ha dovuto, suo malgrado, rendersi conto che esso non era altro che un mito. Nel momento in cui si riunisce un gruppo di persone per risolvere un problema nosologico, è evidente che il processo decisionale avviene attraverso criteri diversi (quali, ad esempio, la prospettiva teorica, l’uso della diagnosi, le opinioni personali, la conoscenza della letteratura, l’esperienza clinica ecc.) e che il risultato finale è spesso frutto di una lunga negoziazione tra prospettive tra loro in conflitto. La storia dei DSM ne è la testimonianza>> (M. Lang, Sistemi diagnostici nosografico-descrittivi, in  F. Del Corno, M. Lang (a cura di), p. 83)

[66] A. Pazzagli, Sistemi diagnostici attuali in Psichiatria e valutazione della capacità di intendere e di volere, Relazione al Convegno “Scienza e diritto. Il giudice di fronte alle controversie tecnico-scientifiche, Firenze, 7-8 maggio 2004, p. 1 datt: <<A tal fine  anzi essi sono divenuti, per definizione dei loro compilatori, a-teoirici, limitandosi a scegliere ed elencare una serie di sintomi e condotte direttamente rilevabili sui quali basare diagnosi e che sono così riproducibili, controllabili e quindi comunicabili agli studiosi, ciò al fine di garantire la possibilità di valutazione degli interventi, la loro standardizzazione e la trasformazione di “intuizioni” cliniche più o meno giustificate in dati basati su prove>>.

[67] G. Giacomini, Psicopatologia classica, cit., p. 1, 7: <<In effetti, a nessun clinico di medicina generale viene concesso di definire una febbre, una dispnea o una paraparesi come una “malattia”: si tratta, in realtà, di disfunzioni che possono valere come “sintomi” su cui si dovrà indagare per “diagnosticare” la causa patogena e l’alterazione strutturale dell’organismo, cioè la reale malattia>>

[68] In proposito si rinvia a G. Giacomini, Psicopatologia classica, cit., p. 2.

[69] A. Pazzagli, Sistemi diagnostici, cit., p. 1 datt. 

[70] Il concetto stesso diventa un artefatto, per la scarsa validità dei test e delle interviste semistrutturate, ma anche per la esigenza di valutare la diagnosi di comorbidità nel tempo a volte lungo in cui si prolunga il disturbo, e per la mancanza per lo più assoluta di principi gerarchici di diagnosi, così M. Aragona, G. Vella, Lo spettro in psicopatologia, in Nòos, 1998, 1, 4, p. 3 ss , cit. in R. Dalle Luche, La psichiatria post-DSM III: limiti teorici e pratico-operativi. Un punto di vista non accademico, reperibile sul sito internet www.pol-it, p. 3.

[71] G. Giacomini, Psicopatologia classica, p. 10.

[72] Cfr. G.Giacomini, Psicopatologia classica, p. 8, il quale precisa che  <<abolire la distinzione fondamentale tra sintomatologia e patologia, identificando un quadro psicopatico con una vera e propria “diagnosi” clinica, significa contravvenire ai principi metodologici fondamentali della psicopatologia classica (oltre che a quelli della clinica medica, in generale) e, pertanto, equivale ad introdurre il più completo caos metodologico in psicopatologia e psichiatria>>.

[73] M. Aragona, G. Vella, Lo spettro in psicopatologia, cit., p. 3 ss..

[74] M. Schiavone, Riflessioni epistemologiche, cit., p. 224.

[75] A. Pazzagli, Sistemi diagnostici, p. 3 datt. Sul ruolo delle classificazioni diagnostiche del DSM e  ICD nella psichiatria forense tedesca, v. da  ultimo A. E. Stange, Gibt es psychiatrische Diagnostikansätze, um den Begriff der schwereren anderer seelischen Abartigkeit in §§ 20, 21 StGB auszufüllen?, Frankfurt a M., 2003, p. 50 ss., secondo la quale nessuno dei diversi criteri offerti dagli psichiatri forensi può essere utilizzato ai fini della decisione circa la gravità della anormalità psichica di cui ai §§ 20 e 21, in particolare quando si tratta di disturbi della personalità. Nemmeno le classificazioni internazionali. Esse, se pur favoriscono la trasparenza e l’obbiettività della diagnosi, non sono in grado di offrire un criterio in base al quale poter dare contenuto al concetto di altra grave anormalità psichica di cui ai §§ 20 e 21 StGB. Così la classificazione ICD-10,  la più diffusa in Germania, può offrire solo un primo indice e servire per far meglio comprendere di quale classe di disturbi e malattie si tratti nel caso in esame. Ciò chiarito, emerge che in realtà ciascun criterio offerto dalla medicina forense per dare contenuto al concetto di altra grave anormalità psichica si rivela inadeguato, nel senso che non consente una obbiettivizzazione, standardizzazione e quindi una riproducibilità del giudizio di imputabilità: da criterio del valore di malattia, al concetto socio-strutturale di malattia mentale, dal quello di disturbo mentale assimilabile a quello di tipo psicotico al ricorso ad un sistema di riferimento psicopatologico. Ma nemmeno il punto di vista dinamico-strutturale della malattia mentale sembrerebbe in grado di offrire un parametro di riferimento per la valutazione giuridica delle altre anormalità psichiche sotto il profilo della loro gravità, come non sarebbe in grado di offrirlo il criterio della modificazione della struttura della coscienza, né quello che utilizza una scala di gravità, sulla base di indici numerici di gravità, né infine sarebbe possibile utilizzando il sistema di documentazione psichiatrico-forense, basato su un modello multiaxiale, secondo un certo orientamento della psichiatria forense. Esso infatti, se pure offre la possibilità di una operazionalizzazione e standardizzazione della perizia, si rivelerebbe inutilizzabile per rispondere alla domanda sulla capacità di intendere e di volere dal punto di vista giuridico. Insomma, nessuno di tali criteri appare in grado di offrire criteri, indici di  valutazione del requisito fondamentale della gravità del disturbo. La conclusione allora non potrebbe che essere nel senso che se per la diagnosi di altra anormalità psichica il giudice può affidarsi alle classificazioni internazionali del DSM e del ICD, per quanto riguarda la valutazione della intensità del disturbo ai fini di un giudizio di gravità tale da escludere o diminuire l’imputabilità, il giudice non può sperare di trovare nella psichiatria forense un criterio più convincente degli altri, insomma un criterio sovraordinato, né sarebbe possibile risolvere il problema creando una combinazione dei diversi criteri. La categoria delle altre gravi anormalità psichiche è allora in realtà una sorta di categoria residuale, i cui confini non sono chiaramente definibili. Mentre la giurisprudenza ha evitato di affrontare il problema rifacendosi a massime incerte con riferimento al primo piano del giudizio, quello relativo alla natura di anormalità psichica del disturbo, e eludendolo completamente con riferimento al secondo piano del giudizio, quello relativo alla gravità dell’anomalia, smentendo così la prognosticata e paventata rottura degli argini di tenuta dei §§ 20 e 21. Per il futuro, conclude l’A, non si può escludere che si possa giungere ad un accordo fra psichiatri forensi e giuristi sui confini da riconoscere a quella categoria, accordandosi sul criterio da utilizzare, che per l’A. potrebbe essere con gli opportuni aggiustamenti quello del sintomo principale, il c.d. Leitsymptome. Si tratta di modello interpretativo elaborato da alcuni psichiatri forensi nell’ambito dei delitti sessuali, secondo il quale per valutare la gravità del disturbo, nella prospettiva di uno sviluppo progressivo della psicopatologia, occorrerebbe valutare la frequenza del sintomo, l’intensità delle fluttuazioni dei sintomi, il crescente prevalere del sintomo, le particolari modalità con cui si mantiene il rapporto con la realtà.

[76] M. Lang, Sistemi diagnostici nosografico-descrittivi, cit., p. 81: <<Vengono discussi i contributi che i test di laboratorio, il neuroimaging e, in generale, le neuroscienze possono fornire alla comprensione diegnostica e alla pratica clinica di numerosi disturbi: in particolare, viene proposta una concettualizzazione alternativa della schizofrenia, sulla base del concetto di schizotassia>>. E ancora si osserva : <<Viene discussa l’utilità di continuare a classificare i disturbi di personalità su un asse separato e, in particolare, ci si chiede se il DSM debba continuare a mantenere la propria struttura categoriale o invece incorporare una struttura dimensionale>>.

[77] In particolare, v. Cass. sez. un. 25-1-2005-8-3-2005, n. 9163, in Dir. pen.  processo, 2005, p. 495 ss, con il commento di M. Bertolino.  Non manca tuttavia anche fra i giudici la consapevolezza dei limiti del tradizionale DSM e del processo di revisione in atto, cfr. F. Marzano, Gli ultimi approdi della giurisprudenza di legittimità sul vizio di mente, Relazione presentata al Convegno, Crimini, criminali e malattia mentale: scienze giuridico-penali e scienze empirico-sociali a confronto, Milano , 11-12 maggio 2006, p. 9 datt., in corso di pubblicazione: <<Mi sembra, tuttavia, di potere, in proposito, personalmente chiosare che - ferma la corale riconosciuta sussumibilità, anche per tal via, dei disturbi della personalità nel novero delle infermità mentali - non è detto, però, che il DSM (soggetto anche a “rischi di gigantismo”: si è passati dalle 464 pagine di DSM-III del 1983 alle oltre 1.000 del DSM-IV-TR del 2001) sia, nella sua totalità, il vangelo della psichiatria, e quindi un riferimento obbligato: da ultimo, rilevandosi che uno dei campi di tale manuale dove maggiore è l’insoddisfazione dei clinici è proprio quello dei disturbi della personalità, notizie di stampa apparse nel 2006, quindi dopo la sentenza (a testimonianza di quanto siano tuttora attuali, continui ed incessanti gli studi e le ricerche in questo settore della scienza psichiatrica) ci informano che per superare tali difficoltà sta attualmente riscuotendo forte interesse un metodo chiamato SWAP-200, dal nome dei suoi inventori, gli statunitensi Jonathan Shedelr dell’Università di Denver, e Drew Western, Direttore del Dipartimento di psicologia psichiatrica e scienze comportamentali della Emory University di Atlanta, che hanno messo a punto un elenco di “frasi descrittive delle caratteristiche di personalità” e la diagnosi è fatta non sulla base della presenza o assenza nel paziente di comportamenti osservabili in una breve lista di sintomi prevista dal DSM, ma sulla base di quanto il paziente “somiglia” ad un quadro di insieme descritto da 15-20 frasi centrate, oltre che su sintomi e comportamenti tipici, anche su vissuti, esperienze interne, relazioni interpersonali>>.  

[78] Non dovrebbe uscire comunque prima del 2010.

[79] M. Lang, Sistemi diagnostici nosografico-descrittivi, cit., p. 83.

[80] M. Lang, Sistemi diagnostici nosografico-descrittivi, cit., p. 83.

[81] M. Lang, Sistemi diagnostici nosografico-descrittivi, cit., p. 83 e ivi la bibliografia.

[82] G. Giacomini, Psicopatologia classica, p. 13.

[83] J. B. Gerard, The Medical Model of Mentall Illness. Its application to the InsanityDefense, in  International J. Law Psychiatry, 1999, p. 71, professore di materie giuridiche, il quale precisa che applicando questi criteri ai disturbi evidenziati nel DSM-IV (in tutto 357), solo 13 potrebbero essere considerati malattie in senso medico. Conseguentemente grazie al modello medico la legge potrebbe fare affidamento su una base di giudizio scientificamente solida al fine di distinguere i disturbi che possono legittimamente qualificarsi come malattie da quelli che non sono tali. Si finirebbe così per la valutazione della imputabilità con l’eliminare il 90% delle entità contenute nel DSM-IV.

[84] <<Perfino persone seriamente disturbate sono in grado di fare scelte razionali in alcuni contesti. Così, se la malattia non interferisce tipicamente con la capacità di compiere scelte giuridicamente rilevanti, non vi è un modo obbiettivo per determinare se ha influenzato il comportamento in questione>> (J. B. Gerard, The Medical Model of Mentall Illness, p. 8, il quale conclude che dei 13 disturbi del DSM selezionati 5 non interferiscono tipicamente con le scelte comportamentali del soggetto e quindi potrebbero essere eliminati dal catalogo dei disturbi alla base della insanity defense).

[85] J. B. Gerard, The Medical Model of Mentall Illness, cit.,  p. 8, il quale propone il seguente test al fine di valutare se il comportamento penalmente illecito sia il risultato di un “malfunzionamento” mentale che intacca la capacità di autodeterminazione: occorre valutare se il comportamento tipico della malattia  1)sia irrazionale, nel senso di essere contrario agli interessi immediati della persona, secondo un punto di vista obbiettivo e 2) sia compulsivo, nel senso di essere inaccessibile all’influenza  delle condizioni ambientali della persona stessa. Alla luce di questo test, conclude l’A., degli 8 disturbi del DSM rimasti ne sopravvivrebbero solo 5: mania, depressione, schizofrenia, ritardo mentale, sindrome cerebrale, con esclusione delle sociopatie 

[86] A. Pazzagli, Sistemi diagnostici, p. 5 datt.

[87] K. Elsner, Der Krankheitbegriff im Spannungsfeld psychologischer Theorien, in W. De Boor e al. (hrsg), Neue Diskussionen um die “schwere andere seelische Abartigkeit”, §20 StGB,, Münster, 2003, p. 64 ss., il quale conclude ricordando come il modello psicologico del disturbo mentale da lui proposto è uno dei possibili modelli esplicativi utilizzabili in sede forense e come in verità non esista un modello giusto o sbagliato in sé, ma piuttosto la decisione su quale modello, su quale mappa utilizzare dipenda dagli obbiettivi che si vogliono raggiungere. In tale prospettiva diventano fondamentali le valutazioni personali, che devono quindi essere esplicitate e chiarite.    

[88] Così U. Fornari, La diagnosi nella perizia psichiatrica sull’imputato, Relazione tenuta agli Incontri Internazionali su “La perizia psichiatrico forense penale: confronto USA/ITALIA” Roma, 2-3 novembre 1993, p. 7 s. datt. Per ulteriori approfondimenti circa gli orientamenti della psichiatria forense si rinvia a  M. Bertolino, Il nuovo volto dell’imputabilità penale. Dal modello positivistico del controllo sociale a quello funzional-garantista, in Ind. pen. ,1998, p. 378 ss.

[89] M. Schiavone, Riflessioni epistemologiche sull’eziologia della schizofrenia, cit., p. 218 s: <<La psichiatria più recente è sempre più orientata a privilegiare categorie transnosografiche in luogo di un rigido sistema nosografico>>. Conseguentemente, conclude l’A., si <<può pertanto ritenere che sia ampiamente tramontata la fiducia in una nosografia scientifica, cui si tende a sostituire la consapevolezza di una necessità pragmatica delle classificazioni, in uno con il senso della loro problematicità teorica>>.

[90]«Sta di fatto però che le difficoltà metodologiche non ancora superate sono tali e di tale portata, che non desta meraviglia se il solco che separa il pensiero giuridico da quello medico-legale è andato via via approfondendosi» (F. Stella, Le “incomprensioni “ fra scienza giuridica e scienza medico-legale: un pericolo da scongiurare, in  Riv. it. med. leg., 1979, p. 14).

[91] F. Stella, Le “incomprensioni” fra scienza giuridica e scienza medico-legale, cit., p. 13 ss.

[92] G. FiandacaI presupposti della responsabilità penale tra dogmatica e scienze sociali, in L. De Cataldo Neuburger, (a cura di), La giustizia penale e la fluidità del sapere: ragionamento sul metodo, Padova, 1981, p. 29.

[93] Corte cost. 8-6-1981, n. 96, in Giur. cost., 1981, p. 806 ss. Là dove dunque non siano accertabili i modi con i quali si può effettuare l’azione tipica, nella specie quella psichica di soggezione del reato di plagio, ovvero non sia accertabile come e quando si realizzi quello stato psichico di soggezione, allora bisogna rinunciare alla incriminazione della condotta. Conseguentemente la Corte ha dichiarato la incostituzionalità della fattispecie incriminatrice del plagio, di cui all’art. 603 c.p..

[94] Corte cost. 9-4-1998/16-4-1998, n. 114. La Corte, invitata a pronunciarsi sulla costituzionalità della diversità di disciplina riservata all’intossicazione abituale, art. 94 c.p., rispetto a quella cronica, art. 95 c. p., dichiara non fondata la questione, sollevata sotto il profilo della ragionevolezza della disciplina differenziata, data l’incertezza della scienza medica in proposito. La Corte in vero non entra nel merito della discussione scientifica, anzi prescinde da essa pur riconoscendo la presenza di orientamenti difformi in materia (<<Indubbiamente la disciplina legislativa vigente per la materia in esame non trova nella dottrina psichiatrica e medico legale una base sicura>>) e giustifica invece la ragionevolezza della scelta legislativa alla luce del <<superiore valore del principio di colpevolezza>>: colpevole l’intossicazione acuta, incolpevole, o meno colpevole, quella cronica. Sull’atteggiamento della Corte costituzionale con riferimento alle questioni scientifiche e tecniche, v. F. Sorrentino, Le questioni tecnico-scientifiche nel processo costituzionale, Relazione al Convegno “Scienza e diritto. Il giudice di fronte alle controversie tecnico-scientifiche, cit., p. 7 ss., il quale a proposito della sentenza richiamata conclude: <<Insomma questa sentenza manifesta in modo evidente la tendenza a risolvere a favore del mondo del diritto e della giurisprudenza il contrasto con quello della scienza>>. E, sull’atteggiamento generale della Corte, l’A. conclusivamente osserva che <<l’utilizzazione del dato tecnico da parte della Corte appare non sufficientemente approfondita e raramente assume carattere da sola decisivo per la soluzione della questione>>.     

[95] Anche se, come precisano da ultimo R. Catanesi, V. Martino, Verso una psichiatria forense basata su evidenze, in Riv. it. med. leg,, 2005,  p.   , la diagnosi clinica, come valutazione delle condizioni psichiche attuali, in realtà richiederebbe <<necessariamente la convergenza dei metodi idiografico e nomotetico, poiché il quadro attuale (sebbene confrontato nomoteticamente con il funzionamento ideale del soggetto “normale”) deve essere interpretato all’interno dell’evoluzione storico-esistenziale del soggetto e del suo ambiente>>.

[96] G. Marinucci, E. Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p. 163: <<Non basta cioè che egli (il legislatore) traduca in parole precise le sue scelte punitive, se poi il contenuto di quelle scelte resta campato in aria, non rispecchiando una fenomenologia empirica verificabile dal giudice sulla base di massime d’esperienza o di leggi scientifiche>>.

[97] L.  Monaco, Su teoria e prassi del rapporto fra diritto penale e criminologia, in  Studi Urbinati, 1980/81, p. 34

[98] L. Mo­naco, Su teoria e prassi, cit., p. 79

[99] G. Silvestri, Scienza e coscienza: due premesse per l’indipendenza del giudice, Relazione al Convegno “Scienza e diritto. Il giudice di fronte alle controversie tecnico-scientifiche, cit., p. 24 datt.  Ed è proprio questo orientamento ai valori che, secondo C. Slobogin, The admissibility of behavioral science information in criminal trials: From primitivism to Daubert to voice, in Psychology, Public Policy & Law, 1999, 5, p. 100 ss.,  dovrebbe guidare le Corti americane nella valutazione circa l’ammissibilità o meno delle prove esperte sotto il profilo delle loro affidabilità scientifica. Per l’A. dovrebbero essere comunque ammesse, tutte quelle testimonianze psicopatologiche offerte dall’imputato che, pur non soddisfacendo criteri di scientificità (in particolare quelli elaborati dalla sentenza Daubert, su di essa v. postea, sub par. 6), <<parlano per l’imputato>>, consentendogli di <<far sentire meglio la sua voce>>. In altre parole, quelle testimonianze che danno all’imputato la possibilità di <<far conoscere la sua storia>> e al giudice di capire meglio il reato. Pareri esperti di tal genere – secondo l’A. - se godono della generale accettazione da parte degli specialisti,  dovrebbero essere ammessi, quando, come quasi sempre si verificherebbe allorché l’accertamento verte sullo stato mentale del soggetto al momento del fatto, la prova scientifica della sua validità non è raggiungibile.

[100] Su tale questione v. postea sub par. 6 e 6.1.

[101] G. Silvestri, Scienza e coscienza: due premesse per l’indipendenza del giudice, cit., p. 13 ss. datt.: <<Da questo punto di vista, il povero giudice è costretto a salire ancora più in alto e, consapevole della “falsificabilità” (per dirla con Popper) delle teorie scientifiche, combinare i vari elementi del quadro probatorio in maniera tale da dare il giusto peso alle evidenze extrascientifiche, fatta la tara non solo dei possibili errore degli esperti, ma dell’insufficienza intrinseca della scienza. Qualcuno potrebbe dire che questo è troppo. Se tuttavia il giudice si sottraesse a questo più alto controllo, incorrerebbe nel pericolo di conferire alla “verità processuale” un carattere fittizio in misura superiore al tollerabile>>.

   
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[102] L. H. Tribe, Processo e matematica, in F. Stella (a cura di), I saperi del giudice. La causalità e il ragionevole dubbio, Milano, 2004, p. 187.

[103] G. Silvestri, Scienza e coscienza: due premesse per l’indipendenza del giudice, cit., p. 14 datt., e ivi la bibliografia, il quale a riguardo ritiene che sul giudice  <<incombe il dovere di sottrarsi alla suggestione del ricorso alla scienza, di non dare quindi un valore privilegiato alla prova scientifica rispetto alle altre prove>>, che dovrebbero essere invece attentamente valutate, onde il giudice possa tener conto del complesso probatorio, comprese le prove contrarie.

[104] E’ quanto emerge da recenti studi empirici, in particolare sul test del DNA, v. D. M. Risinger, M. Saks e al., The Daubert/Kumho Implications of Observer Effects in Forensic Science: Hidden Problems of Expectation and Suggestion, in Cal. Law Review, 2002, 90, p. 42.

[105] <<Si tratta del passaggio da una visione acritica del sapere scientifico come interamente dato e certo, a una posizione consapevole della non neutralità delle proposizioni scientifiche>> (M. Tallacchini, Scienza e Diritto. Verso una nuova disciplina, cit., p. IX). E’ il superamento della concezione <<della scienza come un campo autonomo, capace in larga misura di autoregolarsi>> e che <<va spesso di pari passo con una concezione del diritto che pone la validità scientifica come prerequisito per rendere giustizia>> (S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, Milano, 2001, trad. it., p. 4).

[106] Così D. Faigman, The Law’s Scientific Revolution: Reflections and Ruminations on the Law’s Use of Experts in Tear Seven of the Revolution,  in Washington & Lee Law Rev., 2000, 57, 661 ss.

[107] Come osservano giustamente D. Faigman, J. Monahan, Psychological Evidence at the Dawn of the Law’s Scientific Age, in Annu. Rev. Psychol., 2005, 56, p. 635, la sentenza Daubert (v. postea sub par . 6) acquisterà sempre più importanza non tanto per quanto in essa affermato, ma per il principio in essa fissato. Quel principio, in breve, per cui <<the law must joint the scientific age>>.

[108] V. ad esempio, con riferimento alla realtà americana, le considerazioni di S. Golding, Increasing the Reability, Validità, and Relevance of Psychological Expert Evidence, in Law and Human Behavior, 1992, 16, p. 253 ss.

[109] Per considerazioni analoghe tratte dall’esperienza delle Corti americane si rinvia a C. Slobogin, The admissibility of behavioral science information in criminal trials: From primitivism to Daubert to voice, cit., p. 103 ss., il quale evidenzia come i giudici che si affidano al criterio della rappresentatività siano più propensi ad utilizzare il criterio della generale accettazione quando si tratta di valutare teorie o metodi nuovi, mentre per il resto accolgono il criterio utilitaristico-funzionale della rilevanza e utilità della testimonianza esperta. 

[110] Corte cass. 7-7-2000, cit.

[111] Cass. 5-12-1997, in Giust. pen., 1998, II, c. 772.

[112] Cass. 12-12-1991, CED 191097: <<Se quest’ultimo conclude per l’esistenza di una seminfermità, deve presumersi che il giudizio medico-legale, proprio perché espresso in sede di risposta a quesiti in materia di psichiatria forense, dia per scontato che l’unico vizio di mente di rilievo ai fini dell’accertamento della seminfermità è quello che comporta una rilevante diminuzione della capacità di intendere e di volere. Ne consegue l’inesigibilità per il giudice di merito di un’indagine volta ad accertare quale sia in termini percentuali il grado di incidenza del vizio mentale sulla complessiva capacità di intendere e di volere>>.

[113] Cass. 22-12-1993, CED 196075.

[114] Per una rassegna di tali indirizzi si rinvia a M. Bertolino, in E. Dolcini, G. Marinucci, Codice penale commentato, Milano, 2006, sub artt. 88 e 89.

[115] Cass. sez. un. pen. 25.1.2005-8.3.2005, cit., p. 495 ss.

[116] V., anche per questo profilo, le osservazioni alla sentenza di I. Merzagora Betsos, I nomi e le cose, cit., p. 36 ss

[117] Anche la giurisprudenza tedesca, al fine di riconoscere ai disturbi di personalità la natura della altra grave anormalità psichica di cui ai §§ 20 e 21 StGB, accoglie la classificazione dei manuali diagnostici, in particolare ICD-10, stabilendo che, se non si possono applicare i criteri generali di classificazione dei disturbi secondo l’ICD-10 o il DSM-IV, allora per lo più non è possibile riconoscere alcun rilievo al disturbo mentale, così BGH, 26.7.2000 - 2StR 278/00, in NStZ, 2001, p. 83. In senso difforme dalla orientamento prevalente, v. peraltro BGH, 21.9.1994 – 5 StR 414/94, in NStZ, 1995, p. 176, che ha dato rilievo ad una diagnosi di disturbo essenziale della sfera emotiva, diagnosi alla quale il perito era pervenuto senza utilizzare i modelli diagnostici del DSM e dell’ICD e senza rifarsi ai principali schemi diagnostici offerti dalla dottrina psichiatrico forense, ma alla luce del fatto che tale disturbo, sotto il profilo della sua gravità, poteva essere assimilato ai disturbi di natura nevrotica e border-line, data la sua natura e il suo processo di sviluppo. 

[118] Trib. Milano, 8-11-2005, in Il Corriere mer., 2006, p. 231.

[119] Cass. 3-5-2005, in RP, 2005, p. 1073 s.

[120] Cass. 3-5-2005, cit., p. 1074 s., conseguentemente la Corte ha annullato la sentenza dei giudici di appello, in quanto riconosciuta nell’imputato la presenza di gravi disturbi della personalità, si  limita a riconoscere una capacità di intendere e di volere grandemente scemata, con una motivazione <<non appagante sotto il profilo logico-argomentativo e dalla quale traspare <<il convincimento che in tema di imputabilità, ciò che è decisivo per l’applicazione dell’art. 88 o dell’art. 89 c.p. è l’accertamento di una malattia mentale nosograficamente individuata e tale da centrare il concetto di “infermità”>>. Così decidendo, i giudici di secondo grado non avrebbero applicato <<i principi ermeneutici affermati dalla sentenza>> a Sezioni unite.

[121] Cass. 9-2-2006, CED 233228.

[122] Cass. 22-11-2005, CED 233278.

[123] Secondo i risultati di una ricerca, nel 43,8% dei casi di soggetti imputati di un reato, è stato diagnosticato un disturbo di personalità, a fronte di una percentuale del 2,5% di soggetti non imputati. Mentre un riscontro di comorbidità si è avuto nel 19% degli imputati contro l’1,3% del gruppo campione, cfr. A. Marneros, S. Ullrich, D. Rössner, Das Dilemma der Begutachtung: das Hallenser Angeklagtenprojekt, in A. Marneros, D. Rössner, A. Haring, P. Brieger (a cura di), Psychiatrie und Justiz, München, 2000, 9. Da un altro studio è emerso che il 93% dei pubblici ministeri intervistati e il 70% dei giudici intervistati erano dell’opinione che la presenza di una perizia nella maggioranza dei casi porta ad un verdetto più mite, v. H. Kury, Indicationen für psychowissenschaftliche Gutachten im Strafprozess, ivi, 39.

[124] Tribunale min. di Milano 9.8.2001, in Cass. pen., 2003, p. 2816 ss; Corte App. sez. min. 4.4.2004, ivi; Cass 23.1.2003, inedita. Su queste sentenze, cfr. A. Della Bella, F. King, Il <<caso Chiavenna>>. Le differenti motivazioni dei giudici di primo e di secondo grado in tema di capacità di intendere e volere e di circostanze del reato, in Cass. pen. 2004, p. 667 e ss; R. Bianchetti, F. Martelli, Riflessioni cliniche e criminologiche sul <<caso Chiavenna>>, ivi, 2004, 1065 e ss.     

[125] Trib. Milano, GIP., 24-10-2003, Riv. it. med leg., 2004, p. 468, con nota di M. Bertolino, Dall’infermità di mente ai disturbi di personalità: evoluzione e/o involuzione della prassi giurisprudenziale in tema di vizio di mente,p. 508 ss.

[126] Trib. Milano, GIP., 24-10-2003, cit. p. 468, che ha conseguentemente condannato l’imputato del reato di omicidio volontario (artt. 575 e 577, 2° co. n. 2 e 4), riconosciuto semi-infermo di mente, a trent’anni di reclusione e a un periodo minimo di tre anni di casa di cura e di custodia. In appello la riduzione della pena a sedici anni ha suscitato dure reazioni critiche nella stampa, nella quale un tono polemico e a volte anche irriguardoso è prevalso su una pacata considerazione dei dati processuali e di quelli normativi.

[127] In particolare, la Corte costituzionale (2-18 luglio 2003, n. 253, in Dir. pen. processo, 2004, p. 297 ss., con commento di M. T. Collica) ha da ultimo dichiarato costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost. l’art. 222 c.p nella parte in cui non consente al giudice di adottare in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario una diversa misura di sicurezza. Secondo la Corte l’automatismo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario del prosciolto per infermità totale e pericoloso ai sensi dell’art. 222 c.p. rendeva “obbligatoria” la misura e ciò contrastava con il principio della tutela della salute. Per la Corte, infatti, la disciplina dell’art. 222, non prevedendo, a differenza dell’art. 219 per la casa di cura e di custodia, nemmeno la possibilità di sostituire l’ospedale psichiatrico giudiziario con la libertà vigilata, impediva che nei confronti del prosciolto per vizio totale di mente e pericoloso fossero assunte misure <<a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici>>. Stando così le cose, siffatto tipo di ricovero rispondeva esclusivamente alla esigenza di contenimento della pericolosità, che - a parere della Corte - non basta a giustificare la misura.

[128] In questo senso i tentativi della prassi giudiziaria, che aveva cercato di superare il rigore e l’automatismo della misura detentiva, in particolare dell’ospedale psichiatrico giudiziario,  in sede di esecuzione: a)attraverso la concessione della licenza finale di esperimento in regime di libertà vigilata (art. 53 ord. pen.), con eventuale obbligo di avvalersi delle strutture dei servizi psichiatrici territoriali; b)attraverso un ampio ricorso al regime di semilibertà, che consente di fare ricorso a forme di intervento alternative all’ospedale psichiatrico giudiziario; c)in sede di riesame della pericolosità, trascorso il periodo minimo di durata della misura, attraverso la sostituzione del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario con la libertà vigilata, cfr. G. Grasso, in M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1994, sub 222, n. 6. V. anche Mag. sorv. Genova, ord. 21-23.6.2001, in Questioni giust., 2002, p. 221, che ha riconosciuto come la questione sulla pericolosità non solo rappresenta una questione che impropriamente viene sottoposta al perito, ma anche che <<non esistono oggi, come ha rilevato la scienza psicchiatrica, parametri scientifici idonei a trarre alcuna previsione circa la recidiva criminale del malato di mente autore di un reato>>. Nell’ordinanza si rileva altresì che,  come nel caso di specie, il reato troppo spesso rappresenta <<un’”occasione ... per reintrodurre, a fini prevalentemente assistenziali, una nozione di pericolosità superata a livello scientifico e, quel che più conta, a livello normativo>>. E cioè <<quella presunzione di pericolosità, derivante dal tipo di malattia, che il legislatore ha abrogato>>.

[129] V. anche Corte cost. 17-29 novembre 2004, n. 364, ma soprattutto Corte cost., 2-18 luglio 2003, n. 253, cit., p. 297 ss.. Peraltro la Corte era stata già investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 222 c.p. L’articolo era apparso in contrasto con gli artt. 27 e 32 cost. per una serie di profili, in particolare proprio nella parte in cui non consentiva <<al giudice di disporre, nei casi da esso considerati, misure di sicurezza diverse dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, che risultino adeguate alle condizioni cliniche del soggetto e maggiormente idonee a garantire il recupero psichico, nel rispetto delle esigenze di tutela della collettività>> (Corte cost., ord. 30-3-2001, n. 0088; v. anche Corte cost., ord. 333/1994.). Ma la Corte costituzionale, adducendo il fatto che non le è consentito emettere sentenze additive di revisione della disciplina delle misure di sicurezza, aveva evitato di intervenire sulla delicata materia e aveva dunque dichiarato inammissibile la questione. Tuttavia quelle eccezioni sono state per la Corte importanti momenti di riflessione circa il fatto che <<l’intera materia delle misure di sicurezza dovrà essere tutta rimeditata e coordinata con gli apporti più moderni della scienza psichiatrica e di quella criminologia, e che, in particolare, per quanto si riferisce ad infermi e seminfermi di mente che hanno delinquito, dovranno essere studiati idonei luoghi di cura con specifici presidi terapeutici>> (Corte cost., ord. 2-3-1990, n. 111).

[130] F. Carrieri, R. Catanesi, Psichiatria e giustizia: una crisi di crescita, in Questioni sull’imputabilità, cit., p. 88.

[131] V. F. De Fazio, S. Liberto, La prassi della perizia psichiatrica, in G. Canepa, P. Marugo (a cura di), Imputabilità e trattamento del malato di mente autore di reato, Padova 1995, p. 108.  

[132] R. Catanesi, V. Martino, Verso una psichiatria forense basata su evidenze, cit., p.

[133] F. Carrieri, R. Catanesi, Psichiatria e giustizia, cit., p. 89.

[134] F. Carrieri, R. Catanesi, Psichiatria e giustizia, cit., p. 90. 

[135] F. Carrieri, R. Catanesi, Psichiatria e giustizia, cit., p. 90.

[136] S. Pietralunga, Difficoltà interpretative e prospettive di evoluzione nella recezione giurisprudenziale della diagnostica psichiatrico-forense, in Riv. it. med. leg., 2000, p. 289.

[137] F. Carrieri, R. Catanesi, Psichiatria e giustizia, cit., p. 91.

[138] <<E’ dunque su questa strada che devono essere concentrati i nostri sforzi, allo scopo di affinare sempre più criteri valutativi che si fondino su precisi riferimenti clinici e forensi e che possano essere comunemente accettati>> (F. Carrieri, R. Catanesi, Psichiatria e giustizia, cit., p. 94).

[139] F. Carrieri, R. Catanesi, Psichiatria e giustizia, cit., p. 95

[140] A. Verde, Perizia psichiatrica e diagnosi psichiatrica: problemi e difficoltà, in Questioni sull’imputabilità, cit., p. 135. 

[141] A. Verde, Perizia psichiatrica e diagnosi psichiatrica, cit., p. 136 s.

[142] A. Manacorda, La perizia psichiatrica: spunti critici e nodi irrisolti., in M.G. Giannichedda, F. Ongaro Basaglia (a cura di), Psichiatria, tossicodipendenze, perizia, Milano, 1987, p. 359. Significativo in proposito uno studio americano, che riporta le ricerche sperimentali più importanti in tema di affidabilità e validità della valutazione psichiatrica ai fini del trattamento sanitario obbligatorio di ospedalizzazione, B. J. Ennis, T. R. Litwack, Psychiatry and the Presumption of Expertise: Flipping Coins in the Courtroom, in Cal.Law. Rev., 1974, p. 693 ss.

[143] Così in Svezia la perizia psichiatrica è criticata soprattutto sotto il profilo della certezza della diagnosi psichiatrica e dei risultati peritali: non è tanto il modo di procedere come tale ad essere criticato, quanto i risultati a cui si perviene e ciò forse in ragione della autorevole e storica tradizione della tecnica peritale. Diversamente in Germania, ove al centro delle critiche sarebbero proprio il metodo e la tecnica di organizzazione della perizia, così  B. Schütz-Gärdén, Psychisch gestörte Straftäter im schwedischen und deutschen Recht, Freiburg i. Br, 1999, p. 287. Con riferimento alla realtà americana, si v. in particolare C. Slobogin, Psychiatric Evidence in Criminal Trials: To Junk or Not To Junk, in William and Mary Law Rev., 1998, 40, p. 1 ss., il quale distingue fra perizia psichiatrica o psicologica tradizionale, relativa cioè alla valutazione della inimputabilità del soggetto per infermità mentale da quelle c.d. non tradizionali, come quelle relative alla c.d. “sindrome mentale da abuso” oppure alla più nota “sindrome della donna maltrattata” ovvero ancora alla “sindrome da adattamento del bambino sessualmente abusato” ovvero a quelle “da intossicazione televisiva”, da “stress urbano”, da “anormalità per cromosoma XYY”. Queste, scrive l’A., sono solo alcune delle variopinte terminologie usate per descrivere le allegazioni che gli esperti in salute mentale hanno sostenuto con le loro testimonianze nel corso degli anni. Ebbene, secondo Slobogin, la testimonianza psichiatria o psicologica tradizionale non sarebbe stata di fatto toccata dai cambiamenti della prassi in tema di valutazione della ammissibilità della testimonianza esperta (v. postea sub par. 6). Essa continuerebbe ad essere accolta indipendentemente dalla sua affidabilità, mentre quelle non tradizionali  in verità sarebbero ammesse, escluse o limitate nei loro obbiettivi in base a ragioni non sempre immediatamente evidenti e chiare. Occorrerebbe dunque trovare un metodo migliore (rispetto a quello elaborato dalla prassi in sentenze come quella sul caso Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, su cui postea sub par. 6)  in base al quale svolgere l’indagine per la valutazione della testimonianza “spazzatura”. Le Corti americane peraltro sono sospettose verso le prove psichiatrico, psicologiche che sono per natura nomotetiche e non idiopatiche, prive cioè di una contestualizzazione di una trasposizione delle premesse teoriche in descrizione individualizzate, relative al caso specifico da giudicare, lontane dal tradizionale modello medico e che cercano di sostenere con astratte argomentazioni dottrinali nuove teorie e questa diffidenza spesso sussiste indipendentemente dalla o nonostante l’affidabilità della prova.

[144] Come sottolineano da ultimo R. Catanesi, V. Martino, Verso una psichiatria forense, cit., p.   , il primo problema riguarda proprio <<il processo di scelta che conduce ad identificare, in un professionista, un “esperto”, il cui parere possa cioè essere proficuamente utilizzabile in un’Aula di Giustizia>>. Si tratta del  <<“controllo di qualità” di un esperto>>, al fine di identificarlo come tale, e che  dovrebbe essere <<premessa ineludibile, primo filtro indispensabile per dare credibilità alle sue parole>>.   Al Magistrato occorre dunque continuare a <<riconoscere il diritto di scegliere il perito che ritiene più adeguato al processo in questione – ed ancor più alle parti – purché il professionista sia in grado di dimostrare la sua qualificazione, la sua competenza specifica, secondo regole ben chiare>>.

[145] Sono, queste, le perizie che intervengono dopo le c. d. “piccole” perizie, quelle perizie cioè che rappresentano una prima e preliminare indagine quando sorge il sospetto che la persona che ha commesso il reato soffra di un disturbo psichico al fine di stabilire la necessità della perizia vera e propria, ovvero per decidere se inviare o meno il soggetto in un istituto psichiatrico-forense, cfr. B. Schütz-Gärdén, Psychisch gestörte Straftäter, cit., p. 264 ss. 

[146] Cfr., anche per un confronto fra la disciplina della perizia psichiatrica nell’ordinamento penale svedese e quella nell’ordinamento penale tedesco, B. Schütz-Gärdén, Psychisch gestörte Straftäter, cit., p. 250 ss. <<Non è una coincidenza, allora, che gli avvocati continentali raramente intraprendano un’attività investigativa indipendente, benché ciò sia loro chiaramente consentito, come nelle cause civili. Né desta sorpresa che le parti private di rado ricorrano ai consulenti tecnici, anche quando questa possibilità esiste sulla carta. “Gli esperti” sono trattati come collaboratori della corte, e appare normale che essi siano nominati dal giudice, preferibilmente fra le persone abituate alla routine burocratica della corte: gli esperti continentali sono dunque consulenti “permanenti” o professionali della corte stessa>> (M. Damaška  I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, trad. it., Bologna, 1991, p. 107). Sottolineano i rischi per la neutralità e l’imparzialità del perito derivanti dalla commistione dei ruoli, terapeutico e peritale, in capo allo stesso professionista, che può essere chiamato a svolgere la propria opera nel processo penale nei confronti della stessa persona che ha assistito come paziente, in particolare F. Carrieri, R. Catanesi, La perizia psichiatrica sull’autore di reato: evoluzione storica e problemi attuali, in Riv .it. med. leg, 2001, p. 37 ss.   

[147] Sottolineano questa esigenza, fra gli altri, M. Tantalo, A. Colafigli, Per una formazione dello psichiatra forense. Riflessioni e proposte, in Questioni sull’imputabilità, cit., p. 176.

[148] In base all’art. 227 c.p.p., co. 5, il parere può essere redatto <<con note scritte>>, <<qualora sia indispensabile>>. Il perito allora <<può chiedere al giudice di essere autorizzato a presentare relazione scritta>>. Altrimenti <<risponde ai quesiti con parere raccolto nel verbale>> (art. 227 c.p.p., co. 2).

[149] <<Intendendo con questo termine una prestazione finalizzata non già al riconoscimento di un’eventuale infermità o  difetto psichico, bensì alla individualizzazione di situazioni pseudo-cliniche manipolabili per scopi tutt’altro che di giustizia>> (M. Tantalo, A. Colafigli, Per una formazione dello psichiatra forense, cit., p. 163: <<E che di fatto nei Tribunali italiani sia diffusa una sorta di “mala psichiatria forense” non è evenienza rara ed è spesso oggetto per recriminare sulla validità di questa scienza>> ).  Evidenziano come il rischio di una mala psichiatria forense sia aumentato in questi ultimi anni per il diverso approccio ai problemi psichiatrici e per i conseguenti mutamenti, anche se settoriali, della disciplina delle misure di sicurezza ad opera della Corte costituzionale, onde attenuarne il rigore e la rigidità, F. De Fazio, S. Liberto, La prassi della perizia psichiatrica, cit., p. 110. Con la conseguenza che l’uso della perizia psichiatrica nel processo penale è diventato sempre più frequente, <<sia per le maggiori esigenze, da parte dei giudici, di comprendere le motivazioni dell’atto delittuoso; sia per le aumentate possibilità di utilizzazione, non di rado a fini indebiti, della perizia psichiatrica a scopo difensivo, in rapporto alla minor durata dell’internamento in O.P.G., che, tra l’altro, non viene più ordinato “automaticamente” in tutti i casi di proscioglimento per vizio di mente>>.

[150] M. Tantalo, A. Colafigli, Per una formazione dello psichiatra forense., cit., p. 167 s.

[151] Per ulteriori approfondimenti e per la bibliografia, si rinvia a M. Tantalo, A. Colafigli, Per una formazione dello psichiatra forense, cit., p. 168 ss.   

[152] F. Carrieri, R. Catanesi, La perizia psichiatrica sull’autore di reato, cit., p. 27

[153] Così, da ultimo, R. Catanesi, V. Martino, Verso una psichiatria forense, cit., p.  9 datt: <<Più in generale può dirsi che indagini di sopraluogo ed accertamenti medico-legali (ovvero lo studio della scena del delitto, dell’arma usata, del numero di colpi, della direzione degli stessi, ecc), testimonianze, registrazioni, intercettazioni ambientali, tutti gli elementi in grado di delineare la dinamica del comportamento delittuoso, come pure delle fasi immediatamente precedenti e successive, costituiscono lo scoglio sul quale si possono infrangere anche le più brillanti ipotesi diagnostiche sull’esistenza di un dato quadro clinico al momento del fatto ovvero, al contrario, sono proprio questi elementi che consentono di “ancorare” una data ipotesi rendendola solida, fornendo riscontro al lavoro ipotetico-deduttivo e così consentendo, anche ad un contesto caratterizzato da ampie aree di aleatorità, com’è la psichiatria, di presentarsi come affidabile>>.

[154] Ancora F. Carrieri, R. Catanesi, La perizia psichiatrica sull’autore di reato, cit., p. 29.

[155] Cfr. F. Carrieri, R. Catanesi, La perizia psichiatrica sull’autore di reato, cit., p. 29.

[156] F. De Fazio, S. Liberto, La prassi della perizia psichiatrica, cit., p. 115.

[157] F. Carrieri, R. Catanesi, La perizia psichiatrica sull’autore di reato, cit., p. 29

[158] Trib. Ravenna, 29-9-2003, in F. it., 2004, 566 s. Per la dottrina, v. I. Puppe, “Naturgesetze” vor Gericht, in JZ, 1994, p. 1151ss.  

[159] F. De Fazio, S. Liberto, La prassi della perizia psichiatrica, cit., p. 115: <<Ove, invece, si attribuisce all’indagine un significato interpretativo della condotta del soggetto in rapporto alla sua “storia” …., la perizia potrebbe fornire elementi utili all’economia processuale e tali da concorrere correttamente, senza predeterminarle, alle “decisioni giuridiche”>>.  Sulla prassi americana della perizia psichiatrica come strumento che fornisce al giudice informazioni utili a capire il fatto e a conoscere meglio l’imputato e la sua storia, v. anche postea sub nota n. 198.

[160] I risultati di ricerche empirico-sperimentali sono anzi nel senso che la maggioranza delle persone sarebbe contraria alla abolizione della distinzione fra soggetti imputabili e soggetti non imputabili per infermità di mente, cfr. E. Silver, C. Cirincione, H. J. Steadman, Demythologizing Inaccurate Perceptions of the Insanity Defense, in Law and Human Behavior, 1994, 18, 1, p. 63 ss. e ivi gli studi riportati. I dati raccolti dimostrerebbero che l’opinione pubblica è molto scettica verso il vizio di mente, ma non che ne vuole l’abolizione. Tale scetticismo peraltro sarebbe derivato da un’erronea percezione della realtà della prassi penale sulla infermità di mente e ciò grazie anche ai mezzi di informazione di massa, che favorirebbero una immagine distorta di essa. Così l’opinione pubblica, secondo i dati raccolti, sovrastima la percentuale di difese fondate sul vizio di mente nel caso di imputazione di omicidio e di crimini gravi, come sovrastima il numero delle persone prosciolte per infermità di mente. Inoltre, il pubblico ritiene che i proscioglimenti per infermità mentale rappresentino una percentuale elevata dei proscioglimenti, mentre sottovaluta la percentuale dei provvedimenti di internamento in ospedale psichiatrico e la durata di tale internamento.   

[161] Cass. sez. un. pen. 25.1.2005-8.3.2005, cit. , p. 844.

[162] Anzi, l’esperienza degli ultimi dieci anni avrebbe dimostrato che il DSM rappresenta una nuova fonte di errori diagnostici, soprattutto quando si tratta di disturbi della personalità, così G. Heinz, Fehlerquellen in psychiatrischen Gutachten, in U. Venzlaff, K. Foerster (a cura di),  Psychiatrische Begutachtung, , München, 2000, p. 109.

[163] Per uno studio in generale sui rapporti fra scientificità della prova e potere decisionale del giudice v., già, V. Denti, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, in Riv. dir. proc., 1972, p. 414 ss. In particolare l’A. sul problema della valutazione delle conclusioni peritali osserva come dal giudice non si possa pretendere <<una scienza superiore a quella del perito e quindi di rifare per proprio conto le valutazioni dal medesimo compiute, ma gli si debba chiedere di controllare il grado di accettabilità, sul piano della conoscenza comune, dei nuovi metodi scientifici, ovvero la razionalità del procedimento seguito dal perito. Tre sono, invero,  - prosegue l'Autore - i modi di con­trollo che la pubblica opinione possiede nei confronti dell'opera di un esperto: a) la valutazione della sua autorità scientifica; b) l'acquisizione al patrimonio scientifico comunemente accettato dei metodi di indagine da lui seguiti; c) la coerenza logica della sua argomentazione. Questi stessi metodi di controllo il giudice deve applicare ed in questo solo significato si può qualificarlo, secondo la tradi­zione, come peritus peritorum>>.

[164] Cass. sez. un. pen. 25.1.2005-8.3.2005, cit., p. 849.

[165] V. la sentenza in F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003, p. 470 ss. sulla sentenza e gli sviluppi successivi, v. da ultimo O. Dominioni, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Milano, 2005, p. 116 ss.

[166] La sentenza <<ha introdotto una rivoluzione scientifica nella legge. E, sebbene ci siano voluti più di 200 anni, la legge anche se così lentamente è arrivata ad abbracciare la cultura scientifica della verifica empirica>>( D. Faigman, Is Science Different for Lawyers?, in Science, 2002, p. 340).V. anche le osservazioni di F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 436 ss., il quale ricorda come in Italia, per la prima volta nel 1990 con la celebre sentenza sul disastro di Stava, la Corte di Cassazione abbia affermato che le leggi della scienza devono <<ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili>>, senza peraltro precisare quali siano questi metodi.

[167] Cfr. S. J. Brakel, A. D. Brooks,  Law and Psychiatry in the Criminal Justice System, Littleton, Colorado, 2001, p. 109. V. anche A. Dondi, Problemi di utilizzazione delle <<conoscenze esperte>> come <<expert witness testimony>> nell’ordinamento statunitense, in Riv. trim. dir. proc. civ.  2002, p. 1149 ss. La sentenza Kumho interviene in realtà per evitare la disapplicazione delle regole Daubert ad un numero sempre maggiore di prove esperte, che dagli stessi esperti, consapevoli dei rischi connessi all’applicazione degli standards Daubert, venivano ascritte non al campo della scienza ma a quello delle conoscenze tecniche o specialistiche, così D. Faigman, Is Science Different for Lawyers?, cit., p. 339: << E così molti scienziati forensi avevano dimesso  il mantello della scienza>>. La sentenza Kumho <<closed this loophole>>, ma ha reso impossibile la predisposizione di qualsiasi schema unitario di valutazione, data la moltitudine di tipologie di esperti che si presentano davanti alla Corte. 

[168] Sulle regole di giudizio che comunque devono vincolare il convincimento del giudice e che rappresentano la traduzione processuale di principi garantistici immutabili, v. F. Stella, Giustizia e modernità. cit., passim.

[169] Così, ad esempio, a proposito del parere dell’esperto psicologo sulla attendibilità della testimonianza, specialmente se di un minore, la Suprema Corte tedesca (Bundesgerichtshof  30 luglio 1999) ha delineato particolari caratteristiche di scientificità che la valutazione psicologica della veridicità delle affermazioni dovrebbe possedere. Mentre la Suprema Corte olandese, a differenza da altri settori, come quello relativo alle analisi del sangue per accertare la presenza di sostanze alcooliche, nei quali ha elaborato una descrizione dettagliata delle strategie metodologiche da seguire, ai fini della valutazione del parere psicologico non ha stabilito un insieme di regole minime guida da rispettare per migliorare la validità e affidabilità dell’accertamento dell’esperto. Tuttavia la stessa Corte (Hoge Raad 30 marzo 1999) si è pronunciata circa l’attendibilità scientifica del metodo di indagine utilizzato dall’esperto, concludendo che qualora si volessero assumere ugualmente le conclusioni del perito, nonostante la contestazione da parte della difesa della validità scientifica del metodo utilizzato, il giudice deve chiarire perché assume ugualmente come prova il parere dell’esperto. Per ulteriori approfondimenti su tali questioni, v. C. Knörnschild, P. J. van Koppen, Psychological Expert Witness in Germany and the Netherlands, in P.J. van Koppen, S. D. Penrod (a cura di), Adversial versus Inquisitorial Justice. Psychological Perspectives on Criminal Justice Systems, New York, 2003, p. 255 ss., ai quali si rinvia anche per una serie di regole metodologiche di tipo qualitativo elaborate dagli studiosi di psicologia e psichiatria forense al fine di rendere più affidabile scientificamente la perizia, in particolare psicologica. V. anche P. J. van Koppen, M. Saks, Preventing Bad Psychological Scientific Evidence in the Netherlands and the United States, ivi, 283 ss., secondo i quali né nel processo inquisitorio olandese né in quello accusatorio americano sono state introdotte adeguate soluzioni per evitare <<bad psycological expert evidence>> e ciò, almeno per quanto attiene agli Stati Uniti d’America, nemmeno dopo la sentenza Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, Inc (1993). In realtà occorre sottolineare come i criteri stabiliti in Daubert lascino al giudice <<valutazioni secondo standards elastici, caratterizzate da un grado particolarmente elevato di discrezionalità>> (M. Taruffo, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p. 241).

[170] Frye v. United States,  293 F. 1013 (D. C.Cir. 1923). Su tale sentenza e sugli sviluppi successivi con particolare riferimento alla insanity defense, v. S. J. Brakel, A. D. Brooks,  Law and Psychiatry in the Criminal Justice System, cit., p. 102 ss.  

[171] M. Taruffo, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, cit., p. 233.

[172] Nel frattempo erano entrate in vigore le Federal Rules of Evidence del 1975, che di fatto non segnano la fine del general acceptance test, pur non essendo in esse richiamato. Nel 2000 viene introdotto un emendamento alla Rule 702, proprio in seguito alla sentenza Daubert, con esso si stabilisce che: 1) la testimonianza deve basarsi su fatti e dati sufficienti; 2) la testimonianza è il risultato di principi e metodi affidabili; 3)il testimone deve aver utilizzato principi e metodi affidabili in relazione ai fatti oggetto del giudizio. 

[173] Questi i caratteri salienti della decisione, da ultimo sintetizzati nella dottrina italiana: La <<departure  che questa decisione realizza rispetto all’assetto della giurisprudenza precedente, la già accennata configurazione di un meccanismo di selezione della scientific evidence  attraverso il duplice strumento della predisposizione di un catalogo predefinito di criteri di valutazione, nonché l’imposizione di un dovere di verifica effettiva da parte del giudice in ordine alla qualità dell’informazione scientifica messa a disposizione dello expert witness>> ( A. Dondi, Problemi di utilizzazione, cit., p. 1141, al quale si rinvia anche per la bibliografia). Con  la decisione Daubert  si sarebbero realizzati due risultati fondamentali: <<la legittimazione implicita di teorie minoritarie o innovative e la necessaria sottoposizione a verifica empirica dell’affidabilità in termini di “good science” delle opinioni esperte>> (A. Dondi, Problemi di utilizzazione, cit., p. 1144). Già Stella ricorda come i giudici citino <<Hempel e Popper per dire che l’ipotesi scientifica di cui si discute nel processo civile deve non solo superare il vaglio dei controlli che portano alla conferma dell’ipotesi secondo la concezione induttivistica, di cui Hempel è uno dei principali sostenitori , ma deve essere anche sottoposta a tentativi di falsificazione in modo da raggiungere quella “corroborazione” provvisoria di cui parla Popper>>.  Prosegue Stella: <<Ma la Corte Suprema degli Stati Uniti va ancora più in là: affronta – sia pure senza fare esplicitamente il nome di Kuhn – il tema del “consenso generale della comunità scientifica” nei periodo di “scienza normale”, e afferma che il criterio del consenso generale può essere un criterio che si aggiunge  agli altri due nel valutare l’affidabilità scientifica di un’ipotesi>> (F. Stella, Giustizia e modernità. cit., p. 440 ss).     

[174] M. Taruffo, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, cit., p. 238. Sotto il profilo epistemologico la sentenza è stata da ultimo definita <<un ragionavole bilanciamento tra la visione della scienza come costruttivismo reale e quella della scienza come costruttivismo sociale>>, così J. Sanders,  Legal Perceptions of Science and Expert Knowledge, in Psychology, Public Policy and Law, 2002, 8, p. 139 ss, il quale ricorda come siano in molti a concordare sul fatto che la sentenza Daubert offre una visione grossolana della scienza e che nel porre le regole di accettabilità scientifica la Corte sembra essersi felicemente dimenticata delle battaglie che infuriavano e infuriano fra i filosofi della scienza. Da una parte infatti la sentenza pretende che la testimonianza rispecchi un modello metodologico, e ciò rappresenta una certa fiducia in qualche forma di realismo scientifico, dall’altra implicitamente accetta l’idea che la conoscenza esperta sia influenzata dal contesto sociale, economico e politico del singolo esperto e della relativa comunità di esperti. La posizione della Corte è così di compromesso, nel tentativo di conciliare le premesse fondamentali della epistemologia della scienza con il riconoscimento che anche gli scienziati e le comunità scientifiche condividono le incertezze e le fragilità dell’uomo comune. Con la conseguenza di ampliare il predominio della legge sulla scienza fino ad attribuire al giudice e non più alla comunità di esperti, come nella sentenza Frye, il ruolo di arbitro finale di ciò che costituisce un parere esperto accettabile. V. anche S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, cit., p. 115, la quale precisa che con l’elencazione dei quattro criteri di scientificità <<la Corte cercava di coniugare l’idea del filosofo Karl Popper, secondo cui la scienza procede tramite la falsificazione delle affermazioni erronee, con la sociologia della scienza costruttivista, secondo cui il sapere si accumula mediante la negoziazione del consenso tra i membri della comunità scientifica>>. Ma precisa ulteriormente l’A.: <<Il sottile disprezzo che trapela in Daubert  verso una regola decisionale filosoficamente coerente rappresenta un valido esempio del talento del common law  nel procedere in base all’esperienza più che alla logica>> . Da ciò deriverebbe che la sentenza Daubert consente una valutazione più elastica rispetto a quella fondata sulla generale accettazione, considerata troppo rigida, cfr. C. Slobogin, Pragmatic Forensic Psychology: a Means of “Scientizing” Expert testimony from Mental Health Professionals?, in Psychology, Public Policy and Law, 2003, 9, p. 275 ss.

[175] M. Taruffo, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, cit., p. 239.

[176] Su tale sentenze e la sua c. d. “progenie” (sentenze Kumho Joiner), fra la numerosa letteratura, si rinvia a D. Faigman, D. Kaye,  e altri,  Modern Scientific Evidence. The Law and Science of Expert Testimony,

St. Paul, 2002; AAVV., Reference Manual on Scientific Evidence,  Federal Juridicial Center <Washington>, D.C., St. Paul, 2000. Dal gennaio 1997 46 Stati hanno adottato la Rule 702, mentre dal dicembre 1997 28 Stati hanno statutariamente accolto le linee guida Daubert o test analogo e altri Stati ancora hanno pubblicato i pareri della Corti che hanno adottato tali regole, i restanti 17 Stati seguono ancora la Frye Rule, cfr. H. Kaufman, The Expert Witness. Neither Frye nor Daubert Solved the Problem. What Can Be Done? in International Review of Law, Computers and Technology, 2001, 15, p. 92.   

[177] Evidenzia questo aspetto il giurista americano P. Giannelli, Daubert Revisited, in Criminal Law Bulletin, 2005, p. 323 s., il quale ricorda che l’Advisory Committee con riferimento alla Rule 702 ha enumerato una serie ulteriore di fattori da prendere in considerazione per formulare il giudizio di affidabilità e fra questi, ad esempio, se la ricerca è stata condotta in maniera indipendente rispetto alla controversia; se l’esperto arriva a conclusioni infondate e ingiustificate rispetto alle premesse poste; se l’esperto ha in maniera adeguata tenuto conto di ovvie spiegazioni alternative; se l’esperto si è mosso con la stessa prudenza con cui si sarebbe comunque mosso al di fuori dell’incarico professionale ricevuto e infine se risulta che nel campo di indagine rivendicato dall’esperto siano possibili risultati affidabili.    

[178] Osserva, da ultimo, P. Giannelli, Daubert Revisited, in Criminal Law Bulletin, 2005, p. 302 ss. come fin dalla sua apparizione si pose la questione se la sentenza Daubert avesse effettivamente offerto maggiori linee guida per la decisione, in quanto non risultava chiaro quale fosse il nuovo standard di affidabilità scientifica e in particolare se esso fosse meno rigido del criterio unico e, in quanto tale, da considerarsi superato, della generale accettazione della sentenza Frye. Ciò spiega perché, prosegue l’A, diverse Corti americane abbiano applicato basse soglie di ammissibilità. Mentre, con la sentenza Weisgram v. Marley Co. del 2000, la Corte avrebbe confermato l’approccio più rigido per la valutazione della scientificità delle prove esperte, confermando così in termini espliciti il passaggio dal  “liberal” standard delle Federal Rules a un “exacting” standard.

[179] <<Conclusioni e metodologia, come ha sottolineato la Corte in Joiner, non sono completamente distinte fra loro, ci deve essere infatti una valida connessione fra le stesse>> (S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers: a National survey of Judges on Judiging Export Evidence in a Post-Daubert World, in  Law and Humanb Behavior, 2001, p. 433 ss). Sottolineano come nella sentenza Joiner si chiarisca che non solo sul metodo e sui principi ma anche sulle conclusioni peritali il giudice deve svolgere il suo compito di gatekeeper, D. Faigman, J. Monahan, Psychological Evidence at the Dawn of the Law’s Scientific Age, in Annu. Rev. Psychol., 2005, 56, p. 631 ss.

[180] Alla sentenza si rimprovera tuttavia di non aver trasmesso ai giudici in termini sufficientemente espliciti la assunzione che essi sarebbero pienamente in grado di formulare giudizi circa la affidabilità e la validità delle prove presentate come scientifiche, così  S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers: a National Survey of Judges on Judiging Export Evidence in a Post-Daubert World, cit., p. 454. V. anche C. Slobogin, The admissibility of behavioral science information in criminal trials: From primitivism to Daubert to voice, cit., p. 100 ss., il quale, con riferimento alle scienze del comportamento, evidenzia cinque fasi del processo di sviluppo delle regole della prova della ammissibilità scientifica. La prima fase, quella più primitiva e particolarmente presente quando si tratta di testimonianze che richiamano le categorie diagnostiche della psichiatria tradizionale, punta l’attenzione sulle credenziali dell’esperto. La seconda fase punta alla verifica se altri esperti condividano la teoria o il metodo offerti dalla perizia (prospettiva che include il criterio della generale accettazione della sentenza Frye). Nella terza fase dello sviluppo della disciplina delle prove l’interesse è invece rivolto più alla validità della teoria o della metodologia che a verificare chi o quanti la sostengono, secondo la prospettiva della sentenza Daubert. La quarta fase attiene alla questione fino a che punto le informazioni della scienza del comportamento aggiungano qualcosa alla validità della decisione legale (istanza collegata , ma più rigorosa, alla utilità dello standard della Federal Rule 702). L’ultima fase, che forse dovrebbe rappresentare il grado di sviluppo più alto, riconosce che, quando non si può ottenere l’evidenza scientifica, vi sarebbero comunque ancora ragioni giuridiche per ammettere testimonianze  basate sul consenso, al fine di dare all’imputato la possibilità di far sentire la sua voce nel processo.   

[181] V. meglio postea sub nota n. 203.

[182] V. C. Saldanha, Daubert and Suicide Risk of Antidepressants in Children, in J. Am.  Acad. Psychiatry Law, 2005, 33, p. 123 ss.   

[183] P. H. Wingate, G: C., Thornton, Industrial/Organizational Psychology and the Federal Judiciary: Expert Witness Testimony and the Daubert Standards: Psicology, Law and the Workplace, in Law and Human Behavior, 2004, 28, p. 97 ss.

[184] M. M. Houck e al., Locard exchange: The Science of Forensic Hair Comparisons and the Admissibility of Hair Comparison Evidence: Frye and Daubert Considered, in Modern Microscopy J., 2004, p. 1 ss.

[185] V., da ultimo, J. Edelman, Admissibility of polygraph (lie detector) Examinations, in Criminal Law J.,29, 2005, p. 21 ss.

[186] Per un’analisi dei risultati sui più importanti di tali test si rinvia a F. Centonze, L’imputabilità, il vizio di mente, cit., p. 247 ss. e per una esauriente indagine sui diversi test clinico-diagnostici e sui criteri per valutarne la affidabilità, la attendibilità, l’accuratezza e quindi loro validità, v., da ultimo, nella letteratura specialistica, R. Catanesi, V. Martino, Verso una psichiatria forense, cit., p. 12 datt., i quali rilevano l’importanza dei test nella diagnosi psichiatrica soprattutto in campo forense, ma sottolineano come sia errato fondare la diagnosi sulla base dei risultati ai test e ricordano inoltre come, se si applicassero rigidamente le linee guida per la selezione dei test da utilizzare in ambito forense, elaborate dagli studiosi americani,  <<ben pochi sarebbero gli strumenti psicodiagnostici a disposizione di uno psichiatra forense>>; per la letteratura americana v., fra i più recenti, M. Black e al., Using the Minnesota Multiphasic Personalità Inventory-2 (MMPI-2) to Detect Psychological Destress and Dysfunction in a State Correctional Setting, in Criminal Justice and Behavior, 2004, p. 734 ss, per i quali il test presenta sufficienti requisiti di validità scientifica; nello stesso senso A. J. Ricketts, Validity of the MMPI-2 Content Scales and Content Component Scales in a Forensic Diagnostic Sample, Diss. Kent State University, 2002, passim, in particolare per la diagnosi forense;  R. Rogers e al.,The MCMI-III and the Daubert Standard: Separating Rhetoric from Reality, in Law and Human Behavior, 2000, p. 501 ss., i quali concludono che il MCMI-III non raggiungerebbe la soglia di affidabilità scientifica fissata dalla sentenza Daubert.  Con riferimento ai test per individuare i disturbi mentali simulati, v. D. Mossman,  Daubert, Cognitive Malingering, and Test Accurancy, ivi, 2003, p. 229 ss; D. Mendelson The Expert Deposes, but the Court Disposes: The Concep of Malingering and the Function of a Medical Expert Witness in the Forensic Process, in Inter. J. Law Psychiatry, 1995, p. 425 ss; v. anche postea nel testo e sub nota n. 203.

[187] S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers: a National Survey of Judges on Judiging Export Evidence in a Post-Daubert World, cit., p. 438 ss., e ivi la bibliografia; la ricerca è stata svolta utilizzando interviste e questionari, che hanno interessato 400 giudici. V. anche V. B. Dahir, J. T. Richardson et al., Judical Application of Daubert to Psychological Sindrome and Profyle Evidence. A  Research Note, in Psychology, Public Policy & Law, 11(1), 2005, p. 62 ss; cfr. anche P. Giannelli, Daubert Revisited, cit., p. 309 s., il quale osserva che gli standards Daubert avrebbero trovato una applicazione maggiore e più rigorosa da parte delle Corti nelle controversie civili, nelle questioni penali occorrerebbe invece registrare <<una imbarazzante mancanza di validazione empirica>> di numerose tecniche accettate invece pacificamente, come quella dell’individuazione del reo attraverso il c.d. DNA profiling. Anche C. Slobogin, Jurisprudential Considerations, cit.,p. 283 s., a proposito delle scienze sociali e comportamentali ritiene che le sentenze Daubert e Kumho in realtà non abbiano inciso significativamente sulla prassi penale delle testimonianze esperte. Secondo l’autore infatti testimonianze come quella sulla sindrome della donna maltrattata sarebbero ancora quotidianamente ammesse dalle Corti e ciò per esigenze politico-criminali fortemente sentite.  Ritiene invece che Daubert abbia avuto l’effetto di escludere una grande quantità di prove che prima invece erano ammesse, D. Faigman, The Law’s Scientific Revolution, cit., p. 662, secondo il quale i giudici, applicando Daubert, si sarebbero ben presto accorti che molti esperti appartenevano a discipline, come la psicologia, in cui il consenso aveva soppiantato la ricerca rigorosa. Gli psicologi infatti sarebbero stati eccessivamente disposti ad assumere conclusioni guidate da scelte politiche, che troppo spesso non avevano alla base alcuna ricerca. Inoltre, ancora secondo lo studioso americano, proprio alla psicologia non potrebbe essere applicato il criterio secondo il quale all’esperto si deve chiedere lo stesso rigore intellettuale che di solito applica quando fa ricerca scientifica nel rispettivo campo di indagine, perché in psicologia, come in altri campi, si pensi all’astrologia, non esisterebbe un rigore intellettuale della ricerca e le Corti dovrebbero essere pronte a riconoscere quando si è di fronte ad un caso del genere. Lo scopo della sentenza Daubert sarebbe stato infatti proprio quello di imporre alle Corti una simile verifica, così da non lasciarla più alle singole corporazioni che forniscono i c.d. esperti ai tribunali. V. anche postea sub nota n. 189.  

[188] S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers: a National survey of Judges on Judiging Export Evidence in a Post-Daubert World, cit., p. 453: <<Così Daubert non potrà mai avere per i giudici un valore pratico per il loro ruolo di gatekeeper, fintanto che ad essi non sarà data la possibilità di una preparazione e formazione scientifico- giudiziali>>.

[189] Questo risultato confermerebbe l’opinione di molti studiosi, secondo la quale la decisione Daubert non avrebbe sostanzialmente inciso sulla prassi delle testimonianze esperte, se non, tutt’al più, nel senso di una loro non significativa riduzione, sul punto cfr. D. Faigman, J. Monahan, Psychological Evidence at the Dawn of the Law’s Scientific Age, cit., p. 635, i quali precisano che l’impatto dei criteri Daubert sulla prassi della giustizia penale americana rimane comunque <<una questione controversa e ancora irrisolta. Peraltro, proseguono gli autori,  ci si sarebbe aspettati che la sentenza Daubert  risultasse più ‘liberale’ nel caso delle scienze c.d. rigorose, nelle quali un’adeguata verifica fa parte del metodo tradizionale di ricerca. In questi campi scientifici, come ad esempio nel DNA profiling, infatti il dibattito e le accese discussioni indicano la mancanza di un accordo, nonostante la presenza di un numeri sufficiente di dati in base ai quali le Corti in realtà possono comunque ammettere il parere dell’esperto. Mentre ci si sarebbe aspettati che la sentenza Daubert risultasse più ‘conservatrice’ nei confronti di quelle discipline scientifiche, nelle quali scarsa se non assente è la tradizione della ricerca fondata su una verifica rigorosa, come ad esempio nel caso della psicoanalisi. In queste discipline, secondo gli AA., il consenso rimpiazza l’indagine critica. Conseguentemente si pensava che in seguito alla decisione Daubert  le scienze che operano attraverso il consenso, anziché attraverso un metodo di ricerca di raccolta e verifica dei dati, come invece imposto dai criteri Daubert, avrebbero dovuto incontrare serie difficoltà ad adeguarsi e rispettare il modello di scienza elaborato dalla sentenza. In senso parzialmente difforme si pronuncia P. Giannelli, Daubert Revisited, cit., p. 315 ss., secondo il quale si sarebbero comunque verificati significativi cambiamenti anche nella prassi penale. In primo luogo, le tre sentenze, la c.d. trilogia Daubert, avrebbero spinto numerose Corti federali ad un riesame del criterio della generale accettazione della sentenza Frye con riferimento a diverse tecniche probatorie tradizionalmente accettate, ma rispetto alle quali sarebbero emerse lacune sul fronte del loro fondamento empirico, con la conseguenza di una maggiore attenzione critica anche degli avvocati verso questo genere di prove. In secondo luogo, si sarebbe sbarrata un’importante scappatoia rappresentata dalla regola Frye. In terzo luogo, le Corti sarebbero state spinte ad un riesame dei criteri fino ad allora applicati per decidere sulla ammissibilità delle prove scientifiche. In particolare, anche quelle rimaste fedeli al criterio della sentenza Frye, in seguito alla decisione Daubert avrebbero finito con l’applicare tale criterio tenendo conto anche dei criteri Daubert. Infine, sarebbe da registrare, nonostante la decisione Daubert affianchi il criterio della affidabilità  a quello della rilevanza della prova rispetto ai fatti da provare, l’affermarsi dell’esigenza di una maggiore severità di giudizio sulla prova quanto più la questione attenga alla rilevanza della prova stessa, il c.d. relevancy approach. Quest’ultimo, sempre secondo  P. Giannelli, Daubert Revisited, cit., p. 315 ss, infatti offrirebbe uno standard elastico, che implicitamente Daubert sembrava rifiutare, nel momento in cui richiedeva in primo luogo la affidabilità scientifica. 

[190] Così, più della metà dei giudici che hanno partecipato alla ricerca, e che ritenevano di dover distinguere fra conoscenza scientifica e altri tipi di conoscenza, classificavano le prove derivanti da inferenze clinico-psicologiche (come le diagnosi e in generale le valutazioni psicologiche) come “conoscenze tecniche o comunque di tipo specialistico”, mentre solo un terzo le definiva “scienza”. Quanto poi all’esperienza con “prove esperte”, solo una minoranza di giudici aveva avuto a che fare con prove epidemiologiche, i due terzi con la prova del DNA mentre più dei tre quarti di essi riferivano di essersi confrontati con prove di natura psicologico-psichiatrica e di questi la maggior parte con la testimonianza di esperti sui disturbi mentali contenuti nel DSM-IV (S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers, cit., p. 442 ss).  

[191] S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers, cit., p. 454 ss; nello stesso senso, v. H. Kaufman, The Expert Witness, cit., p. 79 ss, il quale ricorda come uno dei giudici del caso Daubert, Chief Justice Rehnquist, sia stato <<profetico nell’affermare che le indicazioni della Corte “non solo erano generiche, ma anche vaghe ed astratte, cosicché innumerevoli questioni sarebbero sorte quando centinaia di giudici distrettuali avrebbero tentato di applicare i suoi insegnamenti a specifiche testimonianze di esperti>>; v. anche R. C. Dreyfuss, Is Science a Special Case? The Admissibility of Scientific Evidence After Daubert v. Merrell Dow, ivi, 1994/95, 73, p. 1779 ss: <<L’implementazione dei criteri Daubert  rischia di essere particolarmente problematica. Essi sono indeterminati e le poche specifiche linee guida teorizzate non riescono nemmeno a iniziare a trattare le questioni che i giudici che le seguiranno devono affrontare>>. Inoltre, prosegue l’A., <<la Corte non ha mai spiegato perché la scienza pretenda uno speciale trattamento, né ha elaborato una visione coerente del ruolo che la scienza e gli scienziati dovrebbero svolgere in giudizio>>.E conclude: <<Accordingly, there probably are few cases in which the criteria enunciated in Daubert will be  significant indicators of what evidence ought to be admitted>>. Peraltro, ancora secondo l’A., la Daubert. Court  ha fatto sicuramente un passo in avanti rispetto alla sentenza Frye. In senso critico sulla sentenza Daubert, anche il filosofo nonché professore di fisica applicata, D. Goodstein, How Science Works, in AAVV., Reference Manual on Scientific Evidence, St. Paul, 2000. p. 67 ss., il quale definisce la sentenza <<a pretty good performance>>. Sulla strumentalizzazione e gli abusi dei criteri Daubert da parte degli avvocati  a fini difensivi, v. T. G. Gutheil e al., Attonery Abuses of Daubert Hearings: Junk Science, Junk Law, or Just Plain Obstruction?,in  J. Am. Acad. Psychiatry Law,  2005, 33, p. 150 ss.      

[192] Cfr. D. Shuman, The Impact of Daubert and Its Progeny on the Admissibility of Behavioral and Social Science Evidence, in Psychology, Public Policy & Law, 1999, 5, p. 3 ss.

[193] Come il ragionamento probabilistico, l’analisi statistica, la natura cumulativa della conoscenza scientifica e il contesto socio-politico nel quale il sapere scientifico nasce e si diffonde, così S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers, cit., p. 454,.

[194] V. in particolare D. Faigman, The Law’s Scientific Revolution, cit., p. 672, il quale esprime particolare ottimismo circa il futuro del rapporto fra diritto e scienza. Secondo l’A <<con la trilogia Daubert  e i successivi sviluppi il diritto partecipa della rivoluzione scientifica. Nel corso dei prossimi venti anni, avvocati e giudici saranno diventati sempre più sofisticati consumatori di scienza. Mentre il vecchio ordine continua a resistere, il trionfo del nuovo regime è solo questione di tempo>>.

[195] S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers, cit., p. 455; H. Kaufman, The Expert Witness, cit., p. 91; B. Black, F. Ayala, C. Saffran-Brinks, Science and the Law in the Wake of Daubert  A New Search for Scientific Knowledge, in Texas Law Review, 1993/94, 72, p. 715 ss, i quali concludono che <<il vero problema è la riluttanza dei giudici e degli avvocati a fare gli sforzi necessari per arrivare a comprendere le questioni scientifiche. Daubert indica una nuova direzione, che rappresenterà un reale miglioramento, solo se le corti seguiranno l’ammonizione del giudice Blackmun di andare oltre le sue quattro frettolose osservazioni di carattere generale sulla scienza per impegnarsi a svolgere un’effettiva indagine sulla validità delle presunte pretese di scientificità>>. 

[196] Perché il giudice possa svolgere tale ruolo e quindi essere effettivamente un consumatore critico delle prove scientifiche offerte, occorre che sappia <<quali siano i quesiti fondamentali da porre e quali siano le principali questioni metodologiche e statistiche che gli esperti, scienziati e altri ‘fornitori’ di scienza, dovrebbero indicare e commentare quando offrono il sapere della scienza ai giudici. Questi ultimi dovrebbero anche sapere dove indirizzare la loro attenzione e cosa cercare di fronte al parere dell’esperto e soprattutto sapere quale debba essere la richiesta successiva, quando il parere non è convincente. La risposta a questi interrogativi è l’impegno per il futuro>> (S. Gatowsky e altri, Asking the Gatekeepers, cit., p. 455: <<Poiché la Corte ha posto dei vincoli su ciò che per il futuro potrà o meno essere ammesso come expert evidence, la comunità degli scienziati non può più sottrarsi al compito di dare una risposta a questo interrogativo e dovrà anzi assumersi la responsabilità del rigore scientifico delle sue ricerche e della presentazione di esse come prove>>).  V. anche B. Black, F. Ayala, C. Saffran-Brinks, Science and the Law, cit., p. 782 ss., i quali hanno elaborato sulla base dei criteri Daubert i seguenti nove punti guida, da prendere in considerazione per valutare e comprendere la “prova esperta”: 1)la sua forza esplicativa; 2)la sua falsificabilità; 3)la sua coerenza logica interna; 4)la realizzazione dello scopo per il quale è stata sottoposta a verifica; 5)la sua coerenza con le teorie corroborate e accettate; 6)il fatto che la teoria alla base della prova sia normalmente utilizzata per la ricerca scientifica dalla comunità scientifica; 7)la sua precisione e analiticità; 8)il suo fondarsi su ipotesi che non siano semplice reinterpretazione di dati preesistenti e che si concretizzino in esperimenti successivi. L’ipotesi ad hoc, insomma, può in certi casi servire per assumere informazioni ma non fa scienza; 9)il suo controllo da parte della comunità scientifica e il suo riscontro in pubblicazioni scientifiche>>.    

[197] V. retro sub nota n. 180 e postea sub nota n. 204.

[198] C. Slobogin, Doubts about Daubert, cit., p. 929 s. Infatti, secondo l’A., sullo stato mentale del soggetto al momento del fatto non sarebbe possibile raccogliere informazioni che rispondano ai requisiti di scientificità della sentenza Daubert. Ciò avrebbe dovuto portare ad escludere molte testimonianze psicopatologiche, ma secondo l’A. così non è stato. L’A. propone allora un criterio di ammissibilità alternativo, rappresentato appunto dal <<factor-based incremental validity>>, nel senso che il parere esperto andrebbe ammesso quando appare in grado di aumentare il numero e/o il tipo di fattori che il giudice del fatto prende in considerazione per giungere alla conclusione su una determinata questione. In breve, quando l’esperto fornisce al giudice informazioni che altrimenti non potrebbe avere.

[199] G. Gutheil, M. Stein, Daubert-based gatekeeping and psychiatric/psychological testimony in court: review and proposal, in  The Journal of  Psychiatry & Law, 2000, (28), p. 235 ss, con l’aiuto di questi esperti i giudici potrebbero in particolare rispondere ai seguenti interrogativi: la disciplina a cui la testimonianza esperta fa riferimento è di quelle attendibili oppure è clinicamente vista come l’equivalente funzionale della frenologia? E’ la metodologia impiegata comunemente accettata e risulta applicata in termini appropriati ai fatti in questione? Esiste un conflitto clinico di interessi o incompatibilità, come comunemente accade quando lo psicoterapeuta che ha seguito il paziente si presenta come esperto testimone in un caso in cui è coinvolto lo stesso paziente e ciò, nonostante l’incompatibilità etica dei due ruoli? Infine, un gruppo di esperti è in grado di valutare l’imponderabile fattore rappresentato dalla esperienza clinica individuale dell’esperto testimone e che un non clinico non è in grado di giudicare? Tutto questo rappresenterebbe una questione clinica e non legale. Infatti, la proposta di affiancare al giudice un gruppo di esperti non farebbe altro che trasportare nelle aule dei tribunali, quanto già avviene in sede di formazione clinica degli psicoterapeuti, sede nella quale l’esperienza dei più anziani è considerata un valido test della legittimità della pratica dei più giovani. Ciò rispecchierebbe – concludono gli autori - uno degli imperativi della sentenza Kumho Tire e cioè quello secondo il quale occorre assicurarsi che un esperto, quando basa la propria testimonianza su studi specialistici ma soprattutto sulla sua esperienza personale, rispetti lo stesso livello di rigore intellettuale che caratterizza la prassi specialistica di quel settore (su questo punto, a proposito delle discipline psicopatologiche, v. peraltro retro sub nota n. 187). Gli esperti ‘supervisori’, secondo gli autori, andrebbero scelti fra i clinici più anziani che operano e insegnano nelle scuole ospedaliere, in quanto in queste strutture la pratica onnipresente del controllo da parte dei pari delle pubblicazioni e dei risultati della ricerche sviluppa livelli più alti e più consistenti di rigore intellettuale rispetto ad ogni altro contesto. 

[200] S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, cit., p. 119: <<Mezzi formali per compiere passi avanti in questo senso sono già disponibili grazie alle Federal Rules of Evidence, che conferiscono ai giudici ampi poteri di richiedere assistenza..... Ma le corti federali, in pratica, ricorrono raramente a questa facoltà>>.

[201] In breve <<a peer-reviewed, sistematic case study database>> (D. Fishman, Integrative Themes: Prospects for Developing a “Psycholegal Lexis”, in Psychology, Public Policy and Law, 2004, 10, p. 178 ss). Gli esperti, in particolare i clinici, sarebbero così costretti a dimostrare che non solo possiedono una conoscenza specialistica che le persone comuni non possiedono, ma anche che l’hanno applicata in maniera sistematica, attraverso metodologie condivise dai loro pari e che le Corti hanno accettato in quanto utili. In qualche misura, quantomeno, la tensione fra un’interpretazione di Daubert che esige affidabilità scientifica e questioni psicopatologiche che non sono suscettibili di analisi statistica potrebbe essere risolta, così C. Slobogin, Jurisprudential Considerations, cit., p. 275 ss..   

[202] Già prima della decisione Daubert la stessa American Academy of Forensic Psychology, di fronte alle numerose critiche mosse nei confronti dei fondamenti scientifici della perizie psicologiche, aveva sentito la necessità di adottare delle linee guida per gli psicologi forensi (Specialy Guidelines for forensic Psychologist) al fine di aiutare gli stessi nel loro compito e nello stesso tempo al fine di migliorare la qualità della forensic psychological evidence, cfr. S. L. Golding, Increasing the Reability, Validity, and Relevance of Psychological Expert Evidence. An Introduction to the Special Issue on Export Evidence, in Law and Human Behavior, 16, 1992, p. 253 s.

[203] Per un’analisi più approfondita,  da ultimo, v. C. Cathleen, Diagnostic Practices in Determining Malingered Mental Illness: A Survey of Psychological Test Usage by Forensic Psychologist, Diss. Walden University, 2003, p. 63 ss., con riferimento alle tecniche di indagine psichiatrico, psicologico-forense per individuare un’eventuale simulazione di malattia mentale. D’altra parte già prima della sentenza Daubert non mancava la consapevolezza fra gli psicologi e gli psichiatri forensi dell’inconsistenza dei dati empirici di validazione dei test psicologici e delle relative diagnosi (si pensi alla utilizzazione della sindrome della moglie maltrattata per dare rilievo ad uno stato di legittima difesa, v., ad esempio, R. A. Schuller, N. Vidmar, Battered Woman Sindrome Evidence in the Courtroom, in Law and Human Behavior, 1992, 16. p. 272 ss, ovvero alla rape trauma sindrome evidence, cfr. P. A. Frazier, E. Borgida, Rape Trauma Sindrome, ivi, p. 293 ss), ma anche della inconsistenza delle teorie neuropsicologiche comunemente utilizzate ai fini forensi e della necessità di una maggiore attenzione nell’uso degli stessi test e soprattutto della necessità di ricerche e di studi per verificarne la tenuta scientifica e per trovare appropriati parametri guida per la loro corretta utilizzazione in campo forense, cfr. fra gli altri, K. Heilbrun,  The Role of Psychological Testing in Forensic Assessment, in Law and Human Behavior, 16, 1992, p. 257 ss, ma soprattutto la severa e approfondita analisi critica, anche per il periodo post-Daubert, del giurista e psicologo clinico J. ZiskinCoping with Psichiatric and Psychological Testimony, Los Angeles, 1995, vol. I, II, III, passim, spec. vol. II, passim.  

[204] E’ quanto avvenuto nella più recente decisione sul punto della Suprema Corte di Washington, State v. Greene (cfr. M. E. Crego, One Crime, Many Convicted: Dissociative Identità Disorder and the Exclusion of Expert Testimony in State v. Greene, in  Human Behavior, 2000, 75, p. 911 ss), la quale risulta esemplificativa del fatto che, quando i giudici non si accontentano più del solo criterio della generale accettazione da parte della comunità scientifica di riferimento, incontrano serie difficoltà ad applicare gli altri criteri Daubert, che, in ultima analisi, avrebbero attribuito ai giudici una autonomia di giudizio giustificata dal contesto e dagli scopi forensi, ma che, in certi casi, li espone a severe critiche da parte della stessa comunità scientifica, come nel caso da ultimo richiamato. In altre occasioni invece i giudici avevano ammesso come prova esperta scientificamente fondata anche quella sul disturbo dissociativo di personalità, evidenziando standards specifici per verificare lo stato mentale dell’imputato affetto da simile disturbo. Solo le testimonianze esperte che hanno utilizzato questi standards sono state ammesse, in proposito si rinvia, M. E. Crego, One Crime, Many Convicted, cit., p. 921 ss., la quale osserva, tra l’altro, che il rifiuto della prova sul disturbo di personalità in questo caso viola il diritto costituzionalmente sancito dell’imputato a presentare prove a suo favore. Conclusivamente, osserva l’A., la Corte Suprema di Washington con questa decisione avrebbe eluso la propria responsabilità di fissare standards legali di prova, ignorato evidenze scientifiche e violato i diritti costituzionali dell’imputato. Sul rilievo da riconoscere al contesto e agli scopi come criterio guida nella valutazione della ammissibilità e validità scientifica delle prove in tema di infermità mentale, v. F. Centonze, L’imputabilità, il vizio di mente, cit., p. 250 ss.

[205] R. Catanesi, V. Martino, Verso una psichiatria forense, cit., p. 28 datt: <<Esistono non molti studi empirici tesi a valutare lo standard e la qualità delle valutazioni psichiatrico forensi. Quelli che abbiamo esaminato non conducono certo a conclusioni confortanti e soprattutto testimoniano la mancanza di una criteriologia comune, di un metodo riconosciuto e sentito come proprio>>. Dall’esame di questi studi sarebbe emerso che <<il problema è legato al metodo, alla insufficiente raccolta di dati, alla diversità di approccio alla perizia, alla sottovalutazione dell’importanza di alcuni elementi, oppure alla sopravalutazione di altri. È dunque lo standard operativo che deve essere messo in discussione>>.

[206] Linee guida cit. in R. Catanesi, V. Martino, Verso una psichiatria forense, cit., p. 30 datt.

[207] R. Catanesi, V. Martino, Verso una psichiatria forense, cit., p. 30 datt.

[208] Corte cass. 3-9-1993, in Arch. nuova proc. pen, 1994, I, p. 226 s., in tema di perizia fonica; sempre in tema di perizia fonica, v. Trib. Torino, 20-9-1990, in Cass. pen., 1991, p. 314 ss e Trib. Torino, 23-12-1991, ivi 1992, p. 2212, secondo i quali il giudizio di colpevolezza non può fondarsi sulla sola perizia fonica, poiché, pur essendo molto basso, il rischio di falsa identificazione di colui che parla da parte della perizia esiste sempre. Conseguentemente permane ancora oggi un margine di errore giudiziario tale da non consentire di formulare un giudizio di responsabilità penale sulla base della sola perizia. E da ultimo, nello stesso senso, Cass. 14-1-2004, CED 227854, con riferimento alla <<nuova metodologia utilizzata nell’ambito di una perizia eseguita con metodo computerizzato dei volti travisati degli autori di una rapina, ripresi da una telecamera a circuito chiuso>>. Per ulteriori approfondimenti sulle massime giurisprudenziali, v. O. Dominioni, La prova penale scientifica, cit., p. 236 ss, secondo il quale dagli enunciati di routine della giurisprudenza non sarebbero ricavabili apporti significativi.

[209] Evidenzia che in realtà <<quell’”unanimità” del sapere scientifico presuppone una capacità della scienza di fornire certezze che invece non è in grado di dare>>, O. Dominioni, In tema di nuova prova scientifica, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1064, secondo il quale <<la general acceptance  è un concetto astratto più che un dato riscontrabile in una realtà, come quella delle ricerche scientifiche…>>.  

[210] Corte cass. 6-12-1995, in Cass. pen, 1997, p. 1111.

[211] Così Corte cass. 28-2-1997, in Cass. Pen. 1998, p. 1389.

[212] Corte cass. 27-1-1996, CED 204205.

[213]Per tali sentenze si rinvia a G. Canzio, L’”Oltre il ragionevole dubbio” come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 309 ss. e soprattutto a F. Stella, Giustizia e modernità, cit. p. 63 ss. con particolare riferimento all’accertamento del rapporto di causalità.   

[214] Corte cass., sez. un., 10-7-2002, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1141, in tema di causalità omissiva.

[215] Cfr., da ultimo, G. Deppenkemper, Beweiswürdigung als Mittel prozessualer Wahrheitserkenntnis, Ossnabrück, 2004. p. 312 ss. e la giurisprudenza ivi richiamata, e in particolare BGH 30-7-1999-1 StR 618/98, in StV, 1999, p. 473 ss., che, ai fini della attendibilità della perizia sulla credibilità di un minore vittima di abusi sessuali, ha per la prima volta fissato degli standards minimi di valutazione della affidabilità scientifica della perizia stessa. Sulla prassi della giurisprudenza tedesca in tema di imputabilità, v. anche la critica di H. Wächtler, Das Schuldfähigkeitsgutachten zwischen Machtkampt und Glaubenskrieg, in StV, 2003, p. 184 ss, secondo la quale tale prassi sarebbe restia a far emergere i problemi legati alla perizia sull’imputabilità. Ciò emergerebbe anche dal fatto che i giudici non sono propensi a nominare un altro esperto in caso di contrasti e dubbi scientifici, in particolare manifestano forti resistenze quando si tratta di un esperto psichiatra di formazione psicoanalitica, da affiancare a quello di impostazione tradizionale già nominato.

[216] Così la definisce G. Tondorf, Psichologische und psychiatrische Sachverständige im Strafverfarhren, Heidelberg, 2005, p. 129 s.

[217] BGH, Urt. V. 21.1.2004- 1 Str 346/3, in NJW, 2004, p. 1810 ss. Su tali Mindeststandards, v. G. Tondorf, Zur Einführung von Minderststandards für Schuldfähigkeit und Prognosegutachten durch den BGH, in StV, 2004, p. 279 ss; Id. Psichologische und psychiatrische Sachverständige im Strafverfarhren, cit,, p. 129 ss.

[218] BGH,  9-7-1999-1 Str 207/99, in StV, 2000, p. 118.

[219] Che rappresentano l’oggetto del 99% delle perizie sull’imputabilità, cfr. G. Tondorf, Psichologische und psychiatrische Sachverständige im Strafverfarhren, cit., p. 134, nota n. 175. Nel caso esaminato dal Bundesgesichhof del 2004 si trattava in particolare di un disturbo misto di personalità, aggravato da manifestazioni schizoidi e asociali.

[220] Sulla necessità che il perito chiarisca a quali metodi di indagine si attiene e quali siano le conseguenze derivanti dall’applicazione di tali metodologie, v. BGH, 3-6-1998-2 StR 30/98, in NStZ-RR 1998, p. 294; BGH, 8-5-1996-3 StR 134/96, in NStZ-RR 1997, p. 129; sempre il BGH,6-3-2002-4StR 29/02, ivi 2002, p. 427,  ha precisato che il compito di decidere se sussista una grave diminuzione della capacità di colpevolezza ex § 21 StGB spetta esclusivamente al giudice. A tal fine il perito deve mettere il giudice nella condizione di comprendere le nozioni scientifiche su cui fonda il suo parere; per una recente rassegna della giurisprudenza tedesca in tema di imputabilità, cfr. W. Theune, Die Beurteilung der schweren anderen seelichen Abartigkeit in der Rechtsprechung und ihre Vereinbarkeit mit dem Schulprinzip, in ZStW, 2002, p. 300 ss; Id., Die Beurteilung der Schuldfähigkeit in der Rechsprechung des Bundesgerichtshofes, in NStZ-RR, 2003, Teil 1 p. 193, Teil 2  p. 225 e con particolare riferimento alla categoria delle altre gravi anormalità psichiche ancora dello stesso, Auswirkungen einer schweren anderen seelichen Abartigkeit auf die Schuldfähigkeit und die Zumessung von Strafe und Massregel, ivi, 2002, p. 225 ss e Die Beurteilung der Schuldfähigkeit in der Rechsprechung des Bundesgerichtshofes, ivi, 2004, Teil 1, p. 161 ss, Teil 2, p. 197 ss. .  

[221] Per un’analisi approfondita di questi criteri, si rinvia a G. Tondorf, Psichologische und psychiatrische Sachverständige im Strafverfarhren, cit., p. 134 ss. Per l’applicazione di essi alle perizie psicologiche sulla credibilità della testimonianza e ai c.d. test poligrafici di rilevazione delle affermazioni false, v. A. Schoreit, Einsatz von Polygraphe und Glaubhaftigkeits-Gutachten psychologischer Sachverständiger im Strafprozess, in StV, 2004, p. 284 ss: né i test poligrafici, né l’analisi psicologica del linguaggio potrebbero essere considerati strumenti scientificamente attendibili e dunque non potrebbero trovare spazio all’interno del processo penale, in tal senso anche le decisioni del Bundesgrichtshof richiamate dell’A. con riferimento specifico ai test poligrafici. 

[222] In particolare tale criterio è stato applicato nella sentenza del BGH 30-7-1999, cit., p. 474 s, per verificare la attendibilità della perizia sulla credibilità della testimonianza del minore abusato sessualmente. Secondo i giudici in un caso del genere la Nullhypothese era che la testimonianza non era vera. Per verificare tale ipotesi il perito deve costruire ulteriori ipotesi alternative. Se dalla sua strategia probatoria risulta che l’ipotesi della non credibilità non può più essere armonizzata con i fatti accertati, allora deve essere eliminata e vale l’ipotesi alternativa, che si tratti cioè di una testimonianza veritiera. La costruzione di ipotesi rilevanti- proseguono i giudici - ha un significato decisivo per  il contenuto e il procedimento metodologico di una perizia sulla attendibilità della testimonianza. Rappresenta infatti un aspetto fondamentale e irrinunciabile del processo peritale. Per quanto riguarda la perizia psicologica o psichiatrica sull’imputabilità, secondo la dottrina psichiatrico-forense, la Nullhypothese dovrebbe essere quella secondo la quale l’imputato è normale. Se questa ipotesi iniziale della rimproverabilità del fatto all’autore di esso è incerta, compito del perito diventa quello di formulare ipotesi alternative a quella dell’imputabilità dell’agente e di qualificare la loro attendibilità sulla base dei dati dell’indagine. L’ipotesi più semplice alternativa a quella della piena imputabilità sarebbe quella della semi-imputabilità. Concretamente ciò dovrebbe significare che si può dimostrare l’esistenza di una grave anormalità psichica. Il tribunale sarebbe così nella condizione di emettere un giudizio scientificamente fondato, così G. Tondorf, Psychologische und psychiatrische Sachverständige im Strafverfarhren, cit., p. 138; Q.B.Scholz, A.  F. Schmidt, Schulfähigkeit bei schwerer anderer seelischer Abartigkeit, Stuttgart, 2003, p. 80 ss. Mentre per la prognosi di pericolosità la Nullhypothese sarebbe quella della non pericolosità del soggetto, v., ancora, G. Tondorf, Psichologische und psychiatrische Sachverständige im Strafverfarhren, cit., p. 141 ss. In proposito, con riferimento ancora all’esperienza americana e al ruolo dei test psicologici a fini forensi, v., fra gli altri, K. Heilbrun, The Role of Psychological Testing in Forensic Assessment, in Law and Human Behavior, 1992, 16, p. 257 ss , il quale, concludendo nel senso della mancanza di significativi dati empirici relativi alla frequenza con la quale in ambito forense sono usati i test di natura psicologica e agli scopi per i quali essi sono usati, sollecitava la psicologia a sviluppare un autonomo protocollo di standards per la selezione, somministrazione e interpretazione del test psicologico nel contesto forense.  L’A. ricordava inoltre come gli psicologi americani si fossero già impegnati a stendere un complesso di standards di natura etica (Committee on ethical Guidelines for Forensic Psychologists, 1991) per guidare gli psicologi nella loro pratica forense.   

[223] In senso particolarmente critico sulla utilizzabilità di tale criterio in sede processuale si è pronunciato, D. Goodstein,  How Science Works, cit., p. 77 ss, il quale sostiene che fa parte dei miti sulla scienza quello secondo il quale, quando si impone una nuova teoria, il compito degli scienziati sarebbe quello di falsificarla. La realtà sarebbe ben diversa. Quando avanza una nuova teoria l’istinto degli scienziati sarebbe sì di verificarla, ma, se un esperimento decisivo dimostra che essa è erronea, si dimentica sia la teoria che l’esperimento. Ciò ostacola il progresso della scienza in quello specifico settore. Solo quando una teoria è ben stabilizzata e ampiamente accettata,  ci si sforza, e a volte si riesce, di dimostrare che è sbagliata. Non solo, ma anche un altro mito andrebbe sfatato e cioè quello che è possibile distinguere la scienza vera dalla pseudoscienza in particolare attraverso il criterio popperiano della falsificabilità. Secondo l’A., infatti, non sarebbe possibile tracciare una linea di demarcazione fra scienza e pseudoscienza, poiché, in realtà, gli scienziati non procederebbero come indicato da Popper, né sarebbero pronti a farlo. D’altra parte, se si è ampiamente d’accordo, come sembra, sul fatto che solo le predizioni falsificabili sono il segno della vera scienza, allora si deve riconoscere che anche le predizioni dei pretendenti al trono della scienza sono falsificabili e dunque scientificamente valide. Da ciò consegue che non esisterebbe un criterio semplice e meccanico per distinguere la vera scienza da ciò che non è tale. Tutto questo però non sarebbe ancora sufficiente per concludere in maniera assoluta che il compito di demarcazione non possa essere svolto. L’A. richiama a tale proposito la decisione Daubert per ricordare che essa deve essere comunque considerata un tentativo storico di dimostrazione del come tale compito possa essere adempiuto, in particolare rifacendosi non solo al criterio di Popper della falsificabilità della teoria. La sentenza si inoltra infatti nel terreno della filosofia della scienza e ne esce intatta nella sua dignità. D’altra parte, la falsificabilità può non essere un buon modo di fare scienza, ma non sarebbe il peggiore per giudicare a posteriori se si tratti di scienza. Inoltre i giudici riescono ad evitare il tranello popperiano di chiedere agli scienziati di essere scettici sulle proprie idee. Mentre le altre indicazioni assicurano contenuti e flessibilità. Pur non risultando facile la sua applicazione nella prassi, in particolare con la giuria, la sentenza – conclude l’A - rappresenta uno sforzo eccezionale al servizio della giustizia; manifesta perplessità sulla sentenza anche R. C. Dreyfuss, Is Science a Special Case? The Admissibility of Scientific Evidence After Daubert v. Merrell Dow, cit., p. 1785 ss., in particolare l’A. osserva che a differenza dal criterio Frye i quattro criteri Daubert avrebbe creato un difficile ostacolo per molti lavori scientifici. In primo luogo proprio per l’introduzione del criterio della falsificabilità, che in molte discipline non solo non viene usato, ma nemmeno il termine è entrato nel linguaggio comune, tanto che non sarebbe possibile chiarire, come lo stesso presidente della corte ebbe a riconoscere, cosa significhi che lo stato di scientificità di una teoria dipende dalla sua falsificabilità. Così, prosegue l’A., in campi, che vanno dalla fisica high energy alla epidemiologia, sarebbe possibile falsificare solo teorie secondarie. Mentre in questi campi una teoria è giudicata  in base al suo valore predittivo e cioè al fatto che sia capace di spiegare e giustificare le osservazioni sperimentali. Ma proprio la capacità predittiva di una teoria non fa parte dei criteri che saranno sempre praticabili dalle Corti, le decisioni delle quali devono infatti essere basate su ciò che è conosciuto al momento del processo e non su come una teoria organizza i risultati di futuri esperimenti. Peraltro, sempre secondo l’A., anche gli altri criteri sono parimenti ‘preoccupanti’, perché di fatto consentono alla Corte di deferire alla comunità scientifica la decisione su cosa si debba intendere per scienza attendibile.   

[224] F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 470 s. Ricorda peraltro, da ultimo, E. Agazzi, La causalità e il ruolo delle frequenze statistiche nella spiegazione causale, in corso di pubblicazione, p. 5, nota n. 2 datt., come sia <<quasi superfluo segnalare che anche il concetto di spiegazione, e addirittura di spiegazione scientifica, è tutt’altro che univoco e che, in particolare, si applica in modo diverso in contesti diversi>>.  

[225] M. Taruffo, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, cit., p. 232. Per una valutazione della relazione esistente fra variazioni (innalzamento o abbassamento) dello standard di evidentiary proof e presunta percentuale dei colpevoli assolti per un innocente condannato, v. B. Forst., Errors of justice: nature, sources, and remedies, Cambridge, 2004, p. 57 ss.

[226] V. in proposito M. Taruffo, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, cit., p. 232 s; Id, La prova scientifica nel processo civile, Relazione presentata al Convegno “Scienza e diritto. Il giudice di fronte alle controversie tecnico-scientifiche, Firenze, 7-8 maggio 2004, p. 6 ss., datt., il quale, con particolare riferimento alla prassi probatoria del processo civile, osserva come si registri ancora <<una diffusa tendenza dei giudici a ritenere che le nozioni della psicologia, dell’economia o della sociologia facciano parte in realtà del senso comune, invece che di specifiche aree scientifiche. La conseguenza è che in questi casi il giudice tende a ricorrere alla propria “scienza privata”, sotto specie di fatti notori o di massime d’esperienza, piuttosto che alle competenze di consulenti tecnici>>. Sui rischi connessi all’utilizzazione processuale di massime d’esperienza <<prive di quel controllo critico che può essere assicurato solo da leggi scientifiche>>, v., da ultimo, anche F. Stella, Fallacie e anarchia metodologica in tema di causalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 35 ss.  

[227] Sulle lacune ed errori della perizia psichiatrica, in particolare sotto il profilo metodologico, v., di recente, U. Venzlaff,  K. Foester, Psychiatrische Begutachtung, cit., p. 105 ss; G. Tondorf, Psychologische und psychiatrische Sachverständige im Strafverfarhren, cit., p. 225 ss; cfr. anche E. Kury, Indikationen, cit., p. 40, il quale sottolinea come già i criteri, in base ai quali il giudice decide se predisporre o meno la perizia, non sarebbero ben chiari e che la stessa preparazione dei magistrati per la predisposizione dei quesiti peritali <<nella migliore delle ipotesi è rudimentale>>. Per una approfondita indagine empirica della prassi della perizia psichiatrica in Svezia e in Germania a confronto v. B. Schütz-Gärdén, Psychisch gestörte Straftäter im schwedischen und deutschen Recht, cit., p. 418 ss. V. anche J. M. Fegert e al., Bestandsaufnahme und Qualitätssicherung der forensisch-psychiatrischen Gutachtertätigkeit in Mecklenburg-Vorpommern bei Tötungs-und Brandstiftungsdelikten, Norderstedt, 2003, p. 84 ss., da questo studio sperimentale è emerso che solo nel 33% delle perizie psichiatriche analizzate (ca. 100) il perito giustificava un parte o tutte le sue interpretazioni con riferimenti a fonti scientifiche. Nel restante 67% non vi era alcun riferimento scientifico, cosicché era impossibile per il giudice stabilire se si trattava di interpretazioni scientificamente fondate ovvero di conclusioni da ricondurre al pensiero personale dell’esperto. Inoltre nel 92% delle perizie mancava qualsiasi considerazione sulla attendibilità della perizia stessa. Conseguentemente non era possibile stabilire se si trattava di interpretazioni vincolanti ovvero se esistevano delle incertezze delle quali bisognava tenere conto nella valutazione della perizia. Mentre considerazioni relative alla diagnosi differenziale erano presenti solo nel 6,4% delle perizie. Quanto poi ai requisiti della trasparenza e della riproducibilità del procedimento peritale, essi erano nella maggioranza dei casi carenti e spesso (41%) non era possibile identificare il sistema classificatorio utilizzato dal perito per la diagnosi. Gli autori concludono così che la maggioranza delle perizie analizzate non rispondono ai requisiti della scientificità e che il fatto che più della metà di esse dichiarano l’imputato semi-infermo di mente può essere considerato un indice della semi-imputabilità come soluzione di compromesso, che, come emerge dei risultati della ricerca, “fa comodo” anche ai giudici.  Quanto all’Italia, si può solo ricordare che il recente Codice Deontologico degli Psicologi italiani prevede agli artt. 5 e 7 che lo psicologo chiarisca i parametri di riferimento e i limiti del suo sapere. Richiamano in generale l’attenzione sul  fatto che dopo Daubert e Kumho molte testimonianze esperte dovrebbero essere dichiarate inammissibili, perché contaminate da errori derivanti dai c.d. “observer effects”, cioè dalle aspettative personali dell’osservatore esperto, esposto ad informazioni non pertinenti al suo campo di indagine e a contaminazioni provenienti dal contesto processuale, e per evitare le quali  non vengono ancora utilizzati rimedi metodologici già presenti invece in altri settori della ricerca scientifica diversi da quello forense, da ultimo, D. M. Risinger, M. Saks e al., The Daubert/Kumho Implications of Observer Effects in Forensic Science: Hidden Problems of Expectation and Suggestion, cit., p.52 ss.

[228] Su questo compito del giudice, si rinvia a F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 456 ss. e ivi la bibliografia; v. anche F. Centonze, Scienza “spazzatura” e scienza “corrotta” nelle attestazioni e valutazioni dei consulenti tecnici nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 1254 ss., anche per la bibliografia.  

[229] Corte cass. 10-7-2002, CED 222517, secondo la Corte la mancanza di tale dovere di documentazione da parte del perito sarebbe resa <<evidente dalla considerazione che costui deve fornire le risposte ai quesiti nel corso dell’udienza, alla quale partecipano tutte le parti interessate con i loro consulenti tecnici e che, anche quando è stata autorizzata, per la difficoltà di illustrare soltanto oralmente il parere, la presentazione di relazione scritta, questa può essere letta solo dopo l’esame in contraddittorio del perito, con la conseguenza che eventuali irregolarità o inesattezze in essa contenute possono essere immediatamente contestate>>. 

[230] F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 479 s. Peraltro lo stesso Grünbaum si contrappone a Popper nel cercare di mostrare l’infondatezza della tesi popperiana seconda la quale la psicoanalisi non sarebbe in linea di principio falsificabile. Osservano infatti  M. Castiglioni, A. Corradini, Modelli epistemologici in psicologia, cit., p. 155 che << Grünbaum sottolinea come Popper, in assenza di una dimostrazione, non sia legittimato a sostenere, come pretende, che “nessuna delle conseguenze dei postulati teorici freudiani è empiricamente controllabile”. L’incapacità di certi filosofi della scienza di scoprire conseguenze controllabili della teoria psicoanalitica – osserva causticamente Grünbaum – non può essere apportata a ragione della non scientificità di quest’ultima. Per contro, non è difficile reperire scritti di Freud che contengono istanze di falsificabilità delle sue teorie e, nel caso della teoria del sogno, addirittura di falsificazione riconosciuta da Freud stesso. Tutto ciò è sufficiente per far dichiarare a Grünbaum che la psicoanalisi, contro Popper, è in linea di principio falsificabile>>.  

[231] A. Dondi, Problemi di utilizzazione delle <<conoscenze esperte>>, cit., p.1144.

[232] Intendiamo riferirci alla nota posizione di I. Puppe, “Naturgesetze” vor Gericht, cit., p. 1151, secondo la quale non si potrebbe pretendere per il processo penale il ricorso a teorie esplicative del nesso causale certe, secondo gli standards generali di validità delle scienze empiriche. Pretendere ciò significherebbe infatti, precisa l’A., non rendersi conto del fatto che tali standards generali non esistono. Il riconoscere peraltro che anche gli esperti psicologi e psichiatri pretendono di utilizzare generali massime empiriche, che in realtà sono riconosciute come tali solo da una parte della comunità degli psichiatri e psicologi e contestate invece dalla rimanente parte, non renderebbe comunque inevitabile ammettere nel processo penale come leggi causali solo quelle della fisica o della chimica e per il resto dare spazio alla formula in dubio pro reo. Oggi, infatti, conclude l’A., non si potrebbe più pretendere per il processo penale la certezza che deriva dal ricorso alle sole leggi delle scienze naturali.    

[233] F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 479 s

[234] <<La crisi del monismo metodologico e del carattere avalutativo della scienza viene spostata entro il quadro empiristico-razionalistico e ricondotta all’impossibilità di risolvere, nonostante i ripetuti emendamenti metodologici, i problemi emergenti della teorizzazione scientifica. Vista da questa angolatura, la svolta relativistica non prospetta problemi veramente nuovi ma soluzioni nuove a vecchi problemi rimasti insoluti>>, R. Egidi, Introduzione, in R. Egidi (a cura di), La svolta relativistica nell’epistemologia contemporanea, Milano, 1988, p. 13. 

[235] Con riferimento alla questione della fondazione epistemologica della criminologia come scienza, v. I. Merzagora, A. Bertolini, Una proposta di riflessione epistemologica in Criminologia: dal concetto di disciplina al concetto di teoria,  in  Rass. crim., 1989, p. 261 ss., secondo i quali a proposito della criminologia sarebbe più opportuno parlare di <<disciplina scientifica>>, nel senso di <<un insieme di teorie i cui legami possono essere molto labili>>. Ne consegue, richiamando il pensiero di Geymonat e di Quine, che <<mentre una singola teoria  si rivela un edificio ben compatto cui si può, anzi si deve, applicare la categoria della totalità, con tutte le implicazioni epistemologiche che una simile applicazione comporta, al contrario, una disciplina scientifica risulta essere un insieme non monolitico o addirittura non omogeneo di teorie diverse, confliggenti … cui la categoria della totalità non ha ragione di essere applicata>>. Il problema del fondamento e oggetto della criminologia viene quindi risolto dagli AA, spostando l’attenzione sulle <<singole teorie scientifiche che studiano “un fatto sociale”, la cui esatta definizione deve essere ricercata nelle premesse e nei postulati delle singole teorie stesse>>. Ciò che conta dunque da un punto di vista epistemologico sono le premesse, gli assiomi della teoria che devono obbligatoriamente essere posti e sui quali si costruisce la singola teoria; <<ma non ci dice (la epistemologia) nulla circa il contenuto di tali premesse>>. Concludono gli AA che l’incontro-scontro fra le diverse teorie <<è un processo dialettico di reciproco superamento di nuove teorie più “vere” delle precedenti, cioè, in termini popperiani, meno soggette ad essere falsificate>>. Osserva peraltro A. Ceretti, L’orizzonte artificiale. Problemi epistemologici della criminologia,  Padova, 1992, p. 179 ss., che si tratta di  <<riflessioni epistemologiche che nulla dicono (e possono dire) sui motivi che hanno condotto certi problemi a diventare via via attuali nell’ambito della disciplina>> e che sarebbe <<più facile invece ammettere di dover fare ancora i conti con una disciplina alle prese con asserti  quasi sempre incontrollabili>>. Secondo l’A. piuttosto <<la pretesa – legittima – per un livello più alto di scientificità deve rispondere, nelle scienze umane, a canoni diversi da quell’ideale formale dell’oggettività  a cui fanno riferimento le scienze della natura>>. L’interrogativo di fondo sarebbe allora <<se sia possibile dare definitivamente corpo, anche in criminologia, a modelli capaci di voltare le spalle alla predizione e alla falsificazione e di avvicinare, invece, una prospettiva epistemologica in cui gli oggetti non sono localizzabili spazio-temporalmente, ma vengono concepiti come luoghi teorici, come risultato di processi di concettualizzazione e di oggettivizzazione>>. Seguendo questa prospettiva, anche il concetto di teoria andrebbe rivisto; esso diventa, richiamando Hanson, <<un insieme di conclusioni in cerca di una premessa>> e quanto allo scienziato, quello dell’uomo <<non procede dimostrando che qualcosa deve  essere (deduzione), o dimostrando che qualcosa in effetti opera (induzione). Lo scienziato (dell’uomo) si limita a dire che qualcosa può essere (abduzione). Egli, dapprima opera la sua costruzione interpretativa dei dati; poi costruisce un’ipotesi esplicativa, anche se le sue conclusioni saranno problematiche, ipotetiche. Ogni ipotesi dipende dunque dal proprio modo di vedere e costruire l’oggetto. …Anche la crescita del sapere  è da intendere in maniera radicalmente opposta all’impostazione di stampo popperiano, che vuole vincente …… solo la teoria più adatta a sopravvivere. A questa concezione se ne sostituisce un’altra, in cui sono le trasformazioni del vedere a determinare la crescita della conoscenza>>.          

[236] D. M. Risinger, M. Saks e al., The Daubert/Kumho Implications of Observer Effects in Forensic Science, cit., p. 1 ss.   

[237] D. M. Risinger,  Defining the “Task at Hand”: Non-Science forensic Science after Kumho Tire v. Carmichael,  in 57, Washington & Lee Law Review, 2000, p. 767, con riferimento alla grafologia.

[238] C. Piergallini, Danno da prodotto e responsabilità penale. Profili dommatici e politico-criminali, Milano, 2004, p. 160 ss: <<La controvertibilità dell’idea stessa di causalità e delle leggi esplicative rileva su un altro piano, ben più elevato: attinge cioè a quella dimensione ontologica o filosofica che si interroga sulla consistenza della verità scientifica. Questa prospettiva – conviene ribadirlo – è estranea all’ottica del giudice. Il diritto penale e i suoi corollari di garanzia impongono di ricercare un affidabile criterio di accertamento suscettibile di spiegazione scientifica e di controllo razionale>>.

[239] F. Stella, Il giudice corpuscolariano. La cultura delle prove, Milano, 2005, p. 57 ss: <<Ecco dove trova le radici l’idea corpuscolariana: l’autentica base dei fenomeni fisici era costituita dalla materia e la materia, dal canto suo, era costituita da particelle fornite di struttura corpuscolare>>. Da questa idea deriva la spiegazione meccanicistica della causalità <<e cioè l’idea che una spiegazione autentica della causalità esiga la spiegazione dei meccanismi, cioè delle catene causa-effetto>>.

[240] Sul fondamento epistemologico delle diverse correnti psicologiche, v. M. Castiglioni, A. Corradini, Modelli epistemologici in psicologia, cit., passim: si osserva così, ad esempio, che il <<comportamentismo è …. il primo indirizzo psicologico nel nostro secolo a fare una scelta di campo decisa e consapevole a favore della psicologia scientifica>>. Mentre il riduzionismo che lo caratterizza <<non è fine a se stesso ma il prezzo che è necessario pagare per garantire scientificità alla psicologia>>. Peraltro il panorama della psicologia contemporanea sarebbe ancora contrassegnato dalla contrapposizione metodologica tra soggettivo e oggettivo. Questa polarità <<si può comprendere a partire da due diverse concezioni della scienza>>: quella riduzionistica, <<che si pone come fine metodologico l’unificazione della scienza e della realtà sulla falsariga di catene di riduzioni aventi valenza sia epistemologica sia ontologica. Il paradigma emergente alternativo corrisponde>> a quello della complessità e si basa <<sull’idea del carattere aperto della scienza e della impredicibilità del reale>>. Conclusivamente si osserva che sarebbe <<prematuro prevedere quale dei due paradigmi avrà la meglio. Per il momento è sufficiente tener presente che la partita non si gioca in un solo ambito e che non sarà possibile risolvere le dispute in filosofia della mente limitandosi a considerare la sola filosofia della mente. In secondo luogo, la contrapposizione tra paradigmi alternativi non ci deve far disperare quanto alla possibilità di un fruttuoso confronto reciproco. Un aiuto in questo senso potrà venire dalla scelta di una teoria della giustificazione di tipo coerentistico>>.

[241] A. Dondi, Problemi di utilizzazione delle <<conoscenze esperte>>, cit., p. 1150. Cfr. anche M. Taruffo, La prova scientifica nel processo civile, cit., p. 19 datt., il quale tra l’altro osserva che <<sul piano dell’analisi giuridica degli standards probatori il discorso non può andare molto oltre l’individuazione di criteri generali che il giudice dovrebbe applicare nel momento in cui, avendo stabilito qual è il grado di conferma logica che gli elementi di prova disponibili attribuiscono ad ogni enunciato relativo ai fatti della causa, sceglie l’ipotesi razionalmente preferibile ai fini della decisione. La determinazione dei gradi di significatività delle nozioni scientifiche che si usano a scopo probatorio non attiene invece a fattori propriamente giuridici, ma a criteri e condizioni di carattere epistemologico. Per un verso, è nell’ambito della singola area di sapere scientifico che si svolge la selezione delle nozioni scientifiche valide, e man mano si accantonano le nozioni non confermate o falsificate. Qui va richiamata la distinzione tra scienza “buona” e scienza “cattiva” che si è richiamata in precedenza. Per altro verso, sono gli esperti in ogni ramo del sapere scientifico che determinano i livelli di probabilità, i margini di errore e il grado di attendibilità che vanno attribuiti alle informazioni e ai dati conoscitivi che si producono di quel ramo del sapere. Il centro del problema consiste però nello stabilire quando nozioni che sono accettate nel loro contesto scientifico sono in grado di fondare inferenze capaci di conferire ad un singolo enunciato, relativo ad un fatto specifico ed individuale, un livello di probabilità logica tale da soddisfare i criteri inerenti alla prova dei fatti nel contesto processuale in cui quel fatto va dimostrato>>.

[242] <<In ogni decisione giudiziaria si verifica una fusione di scienza e coscienza, i cui elementi costitutivi sono difficilmente separabili>>, G. Silvestri, Scienza e coscienza: due premesse per l’indipendenza del giudice, cit., p. 30 datt., l’autorità della scienza infatti, ricorda l’A.,  <<non è mai assoluta e oggettiva, ma sempre recepita dal giudice in una prospettiva di tutela assiologicamente orientata>> (p. 28 datt).

[243] Evidenzia come la dottrina Daubert  manifesti comunque problemi applicativi non secondari, da ultimo, A. Dondi, Problemi di utilizzazione delle <<conoscenze esperte>>, cit., p. 1146 e ivi la bibliografia richiamata. V. anche S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, cit., p. 118 ss: <<Il caso Daubert non ha risolto né le questioni istituzionali né quelle sociologiche che si agitano in questo campo>>. Una strategia per meglio affrontare le questioni di accertamento dei fatti con l’apporto del sapere scientifico potrebbe essere allora quella  <<di istruire i giudici, gli avvocati e gli esperti circa i rispettivi modi di ragionare e di argomentare>>, mentre <<anche gli esperti, da parte loro, farebbero bene a diventare familiari con gli scopi del procedimento giuridico e con gli standard che nel processo sono utilizzati per controllare la veridicità di determinate affermazioni>>.

[244] Così H.H.Jescheck, T.Weigend, Leherbuch des Strafrechts, Allg. Teil, Berlin, 1996, p. 809 e ivi la giurisprudenza richiamata. Più specificamente questa teoria sostiene che nel caso in cui non si riesca ad accertare se l’imputato fosse totalmente ovvero solo parzialmente incapace al momento del fatto, non lo si può condannare, anche se gli si può applicare la misura di sicurezza dell’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario ai sensi del par. 63 StGB. Qualora al contrario non si riesca a chiarire se l’imputato fosse al momento del fatto pienamente ovvero solo parzialmente imputabile, come nel caso della persona pienamente imputabile, e nel dubbio a questa va equiparato l’imputato, non si può prendere in considerazione nemmeno l’internamento. Qualora infine il giudice non possa accertare se l’agente fosse totalmente o parzialmente imputabile e nello stesso tempo non si possa escludere la presenza dei presupposti psicopatologici del par. 20 StGB, allora né la pena può essere applicata né l’internamento ordinato.     

[245] M. Taruffo, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, cit., p. 231

[246] M. Buzzoni, La psicologia fra scienza, tecnica ed ermeneutica, in Riv. filosofia neoscolastica, 2002, p. 471: <<Il momento tecnico-operativo svolge in psicologia una funzione di fondazione analoga a quello che esso svolge nelle scienze sperimentali della natura>>.

[247] Con particolare riferimento alla psicoanalisi v. Grünbaum, The Foundations of Psychoanalysis, Berkeley, 1984, p. 55, trad it. I fondamenti della psicoanalisi, Milano, 1988.

[248] Rileva giustamente M. Tallacchini, Giudici, esperti, cittadini: scienza e diritto tra validità metodologica e credibilità civile, in Politeia, XIX, 70, 2003, p. 83 ss., che la <<tendenza delle corti ad appropriarsi della scienza, determinando i criteri di validità scientifica a fini giuridici, anche se muove dall’intenzione di rendere più trasparenti ed argomentate le decisioni dei giudici, può dare luogo a due rischi. Il primo rischio consiste nel sostituire la legittimazione proveniente dal diritto con la legittimazione fornita dalla scienza. Il secondo riguarda il modello stesso di scienza elaborato dalle corti – il “modello giudiziario di scienza” -, che spesso non trova riscontro nella scienza praticata dagli scienziati, ma si presenta come modello anacronistico e quasi caricaturale di scientificità>>.

[249] <<Intervenuto un tale serio dubbio sulla capacità di intendere e di volere, o il giudice lo risolve (per lo più con l’ausilio di un esperto ..) accertandone l’infondatezza, oppure proscioglie ….: ciò deriva dalla centralità del principio di colpevolezza – che costituisce un caposaldo del diritto penale moderno – e del conseguente rilievo dell’imputabilità che ne è il presupposto>> (M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2005, p. 7 ss).

[250] F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 141 s, <<per fortuna, prosegue Stella, la regola dell’”oltre il ragionevole dubbio” è desumibile aliunde dal sistema, e costituisce una vera regola giuridica di decisione, alla cui stregua va risolto il problema delle prove insufficienti o contraddittorie. Le prove sono insufficienti quando l’accusa non ha dimostrato la colpevolezza dell’imputato “al di là del ragionevole dubbio”; e sono contraddittorie quando le prove della reità, pur se prevalenti, svelano uno o più ragionevoli dubbi. Sotto questo profilo si può dunque dire che la così “glorificata” prescrizione dell’art. 530, co. 2 c.p.p. è una prescrizione inutile se non dannosa>>. V. anche G. Canzio, L’”oltre il ragionevole dubbio”, cit., p. 306: <<La regola di giudizio dell’”oltre il ragionevole dubbio”  pretende dunque (ben al di là della stereotipata affermazione del “libero convincimento del giudice”) percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standards conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale, dovendosi riconoscere che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a ricomprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova>>. Solo così vengono rispettati i <<fondamentali principi di civiltà e cardini dei moderni ordinamenti processuali, (che) sono rappresentati: a) dalla presunzione d’innocenza dell’imputato, regola probatoria e di giudizio collegata alla struttura del processo e alle metodiche di accertamento del fatto; b) dall’onere della prova a carico dell’accusa; c) dalla regola di giudizio stabilita per la sentenza di assoluzione in caso di “insufficienza”, “contraddittorietà” e “incertezza” della prova d’accusa (v. l’art. 530, commi 2 e 3 c.p.p.), secondo il classico canone di garanzia in dubio pro reo>>.

[251] Cass. 21-3-1994, CED 155605; peraltro ancora la Cassazione (Cass. 8-2-2000, in Guida al dir., 2000, p. 111) ha anche affermato che, mentre nel dispositivo della sentenza di assoluzione, in caso di mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova, è consentito richiamare il disposto del comma 2 dell’art. 530, non sarebbe invece consentito <<richiamare espressamente tale mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova a fondamento dell’assoluzione: diversamente, infatti, verrebbe reintrodotta nel nostro ordinamento l’assoluzione per insufficienza di prove prevista dal vecchio codice di rito>>.  In senso critico sulle <<attuali prassi devianti>>, che, richiamando non solo in motivazione, ma anche nel dispositivo della sentenza il secondo comma dell’art. 530, danno vita a pronunce contrassegnate dal dubbio probatorio e non dalla mancanza di prova, come invece era nelle intenzioni del legislatore della riforma del processo penale,  O. Mazza, in G. Conso, V. Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005, sub art. 530.

[252] Corte cost., 7-4-1998/16-4-1998, cit.

[253] Cfr., fra le altre, Cass. 15-1-1993, CED 192691. Sottolinea come l’orientamento di ritenere l’infermità mentale oggetto di un vero e proprio onere probatorio a carico dell’imputato caratterizzasse la giurisprudenza fino agli anni cinquanta, L. Fioravanti, Le infermità psichiche nella giurisprudenza penale, Padova, 1988, p. 53 e ss., alla quale si rinvia per l’analisi delle sentenze; per una recente adesione a tale orientamento, Corte Ass. Foggia, 6.2.2000, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 1562 ess., con nota di E. Infante, Il lucido delirio e il futile motivo – Note in tema di imputabilità, il quale osserva come l’indirizzo della Corte di ritenere <<implicitamente … un onere meramente difensivo quello dell’individuazione del vizio di mente>> non appaia condivisibile. Detta impostazione <<non si limita a ritenere “normale” il possesso della capacità di intendere e di volere da parte di una persona maggiorenne, ma ripone l’intera dimostrazione della sua insussistenza in capo alla difesa, fino a postulare implicitamente che essa abbia un “onere” di corretta qualificazione psichiatrica del disturbo psichico dell’imputato, il che appare in contrasto con le scelte ordinamentali in tema di onere della prova e perizia>>.

[254] Cass. 10-2-1993, CED 193021. Non così per l’intossicazione cronica da alcool, che, in quanto considerata malattia vera e propria, non sembra necessitare di particolari prove o allegazioni da parte del soggetto. La Cassazione infatti  riconosce che l’accertamento della capacità di intendere e di volere del soggetto affetto da tale intossicazione <<spetta al giudice indipendentemente da ogni onere probatorio a carico dell’imputato, una volta che questi abbia allegato documentazione attestante il suo etilismo cronico>> (Cass. 23-5-1995, CED 201689). Mentre il semplice stato di tossicodipendenza <<non costituirebbe nemmeno indizio di malattia>>, tale da rappresentare quei <<seri elementi indiziari>>, indispensabili per la Cassazione, perché il giudice disponga la perizia psichiatrica (Cass. 21-11-1990, CED 185830)

[255] Cass. 12-7-1989, in Riv. pen., 1991, p. 204; nello stesso senso, v. Cass. 17-10-1984, CED 167492; Cass. 26-7-1984, CED 166504.

[256] Diversamente per le cause di giustificazione o per le cause personali di non punibilità, che il legislatore ha giustamente distinto dalla imputabilità, disciplinando il solo dubbio sulla loro esistenza e non anche la mancanza al comma terzo dell’art. 530 c.p.p.: <<non essendo elementi costitutivi del reato, esse possono essere valutate dal giudice solo in presenza di un principio di prova della loro sussistenza>>, A. Gatto (a cura di), Codice di procedura penale ipertestuale, 2001, sub. art. 530, p. 1886.

[257] A tale proposito vale la pena ricordare che in una sentenza della Suprema Corte americana (Cooper v. Oklahoma, 517 U:S: 348, 1996) è stato stabilito che è costituzionalmente illegittimo da parte di uno Stato innalzare il livello di prova a carico dell’imputato circa la sua incapacità di partecipare al processo al di sopra del tradizionale limite civilistico della preponderanza della prova, vale a dire del 50%. Da questa affermazione si è dedotto che dovrebbe  risultare costituzionalmente inaccettabile, come invece ancora molti Stati fanno, pretendere che l’imputato dimostri la sua infermità con una percentuale di probabilità al di sopra del 50%. Secondo la decisione Cooper infatti uno standard elevato crea la possibilità, costituzionalmente inaccettabile, che venga processato chi  è “più probabile che no” che sia incapace, v. S. J. Brakel, A. D. Brooks,  Law and Psychiatry in the Criminal Justice System, cit., p. 337. 

[258] O. Dominioni, in Commentario della Costituzione, Branca , Pizzorusso, sub art. 27, 2° co, p. 191. Sottolinea peraltro che <<dal punto di vista rigorosamente dogmatico … pare innegabile che, mancando nel processo penale il condizionamento della decisione d’un determinato contenuto ad un’insostituibile iniziativa probatoria di parte, non può parlarsi correttamente in tale ambito di “onere della prova”>> G. Ubertis, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino, 1995, p. 99, il quale richiama la conforme posizione della Corte costituzionale (111/1993), secondo la quale il principio dell’onere della prova <<non trova riscontro né nei principi della delega né nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice>>. Occorre allora chiarire che la locuzione “onere della prova” è stata qui assunta – come specifica Ubertis, richiamando le parole di Cordero - nel senso di una <<metafora “con cui non si fa nient’altro che rappresentare anticipatamente ciò che accadrebbe sul piano della decisione, se la prova di un certo fatto non fosse acquisita”>>

[259] V., da ultimo, Cass. 7-4-2003, CED 225645.

[260] Si è parlato in proposito di un contrasto fra la disciplina sostanziale e quella processuale, cfr. L. Russo, in T. Padovani, Codice penale, 1997, sub. art. 85, p. 428; A. Manacorda, La mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova circa l’imputabilità, nel nuovo codice di procedura penale, in Questioni sull’imputabilità, cit., p. 179 ss., secondo il quale l’art. 530, 2° co. c.p.p. avrebbe introdotto per il principio del favor rei <<la presunzione relativa di difetto di imputabilità>>, principio che peraltro verrebbe disatteso dal fatto che con <<la sentenza di assoluzione il giudice applica, nei casi previsti dalla legge, le misure di sicurezza>>, secondo quanto previsto dal 4° comma dell’art. 530 c.p.p.  

[261] A.Giarda, Spangher, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2001, p. 1532, che richiamano il pensiero di Cordero. V. anche M.Romano, G. Grasso, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2005, vol. II, sub pre-art. 85, p. 8, ove si precisa che negli artt. 85 e seguenti è presente un assetto normativo, <<per il quale non occorre dimostrare positivamente la capacità di intendere e di volere e la si può invece considerare presente nella persona maggiore di età ...., sino a che non abbia a sorgere in concreto un ragionevole, serio dubbio sulla sua assenza. Intervenuto un tale serio dubbio sulla capacità di intendere o di volere, o il giudice lo risolve .... accertandone l’infondatezza, oppure proscioglie ....: ciò deriva dalla centralità del principio di colpevolezza – che costituisce un caposaldo del diritto penale moderno – e del conseguente rilievo dell’imputabilità che ne è il presupposto>>.

[262] F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2003, p. 992 s., il quale peraltro osserva che<<nemmeno se i testimoni

fossero  tanti, omni exceptione maiores, la conclusione sarebbe sicura come lo sono gli enunciati delle scienze esatte o

sperimentali, ma questo vorace dubbio filosofico non ha corso sul terreno giudiziario (ammetterlo equivarrebbe ad

assolvere tutti). Sappiamo come varino, secondo i casi e gli individui, le soglie dell’alta probabilità corrispondente a

certezze plausibili alimentate da materiali narrativi o induttivi (modelli eterogenei: uno relativo a dati calcolabili;

l’altro evoca stati mentali infidi, perché vi influiscono fattori emotivi): e nasce morta ogni precettistica al riguardo>>.

[263] <<In sostanza, solo se il grado di probabile verità di un enunciato appare prevalente sul grado di probabile falsità dello stesso enunciato sarà razionale scegliere l’ipotesi positiva e considerare l’enunciato come “vero” ai fini della decisione>>, M. Taruffo, La prova scientifica nel processo civile, cit., p. 5 ss., datt., al quale si rinvia per gli approfondimenti  su questa regola probatoria del processo civile e per la bibliografia.

[264] M. Buzzoni, La psicologia fra scienza, tecnica ed ermeneutica, cit., p. 476.

[265] M. Buzzoni, La psicologia fra scienza, tecnica ed ermeneutica, cit., p. 477.

[266] Con riferimento al problema dell’accertamento della causalità psichica, v., da ultimo, M. Romano, Nesso causale e concretizzazione delle leggi scientifiche in diritto penale, in corso di pubblicazione, p. 18 datt.

[267] M. Buzzoni, La psicologia fra scienza, tecnica ed ermeneutica, cit., p. 484: <<Lo strumento statistico è per così dire il contrappeso metodologico al rischio, sempre incombente sulle scienze umane che il loro oggetto rimetta in ogni momento in discussione l’esistenza delle regolarità che in esso sono state in un primo tempo constatate, o, per così dire, che queste scienze si trovino improvvisamente ad occuparsi dell’oggetto ‘sbagliato’>>.

[268] M. Buzzoni, La psicologia fra scienza, tecnica ed ermeneutica, cit., p. 489 s.

[269] M. Romano, Nesso causale, cit., p. 18 s. datt. <<Non vi è dubbio che non siano possibili prove dirette dei fatti o degli stati mentali e che, in questi casi, si debbano usare ragionamenti induttivi che permettano di inferire il loro verificarsi a partire da altri fatti non mentali. Questo però non comporta che gli enunciati che affermano il loro verificarsi non siano suscettibili di essere veri o falsi e razionalmente controllabili per mezzo di meccanismi tipici del ragionamento induttivo>> (J. Ferrer Beltrán, Prova e verità nel diritto, Bologna, 2004, p. 59, nota n. 52). 

[270] M. Romano, Nesso causale, cit., p. 19. Anche G. De Francesco, L’imputazione del reato e i tormenti del penalista, in corso di pubblicazione, p. 11 datt., osserva come  <<un cauto ridimensionamento del rigore nomologico delle leggi esplicative>> risulterebbe <<maggiormente in linea con la prova della colpevolezza: trattandosi di materia più difficilmente rinserrabile in schemi di assoluto valore deduttivo, senza per questo potersi (anch’essa) sottrarre ad una verifica “oltre ogni ragionevole dubbio” circa la pertinenza dello schema valutativo al caso concreto>>.

[271] V. Denti,  Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, cit., p. 434 s.

[272] Cass. 11-11-1993, in Mass. cass. pen., 1994, p. 53.

[273] Cass. 20-12-1983, in Giust. pen., III, c. 35.

[274] Su tale tipo di convincimento, da non accogliere nemmeno per il processo civile e sugli standards di prova che occorre comunque ottenere per affermare di aver provato un certo enunciato di fatto, v. da ultimo, M. Taruffo, La prova scientifica nel processo civile, cit., p. 2 ss., datt.

[275] Tribunale supremo spagnolo 12-11-1996, cit. in J. Ferrer Beltrán, Prova e verità nel diritto, cit., p. 96, nota n. 3.

[276] Cass. 14.5.2004, in Cass. pen. 2005, p. 759 e ss.

[277] F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 458.

[278] <<La psichiatria si occupa del Male, del male più o meno devastante che alberga in alcuni di noi più che in altri, per vari motivi e per varie cause. Questo male può talora divenire insopportabile, costringendo gli operatori a difese che solo teorie forti, ma non “valide”, cioè, per dirla tutta, non vere, possono garantire. Da qui il pericolo di un uso ideologico dei DSM, non dissimile dall’uso ideologico di ogni altra teoria psicodinamica o sociologica che sia. E’ quanto già avevamo scritto 13 anni fa: non solo la psichiatria scientifica, ma neppure noi siamo nel frattempo molto cambiati>> (Dalle Luche, La psichiatria post-DSM III, cit., p. 6)

   
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